Debito pubblico: cos’è?, chi lo paga?,
chi decide quanto ci costa?
Di Michele Governatori, settembre 2019
Come una famiglia, uno
Stato può indebitarsi per sostenere le spese abituali, legate al suo normale
funzionamento, o gli investimenti (per esempio le spese per infrastrutture, in
grado di fornire benefici per tutta la loro vita utile). Nel bilancio pubblico
annuale la differenza tra spese e entrate si chiama “deficit” e va finanziata prendendo i soldi a prestito. Accumulandosi di anno in anno il deficit forma il “debito pubblico”.
Come prende a prestito i soldi lo Stato?
Lo Stato vende sul
mercato dei titoli (buoni o certificati del tesoro, come i BOT, i BTP, i CCT,
con varie scadenze) che in modi diversi assicurano un interesse a chi li
compra, che così presta soldi allo Stato. Alla scadenza dei titoli, lo Stato rimborsa il valore dei titoli e quindi chi
li aveva comprati riceve indietro i soldi versati inizialmente che si
aggiungono all’interesse maturato nel frattempo (la corresponsione degli interessi avviene in modo diverso seconda del tipo di strumento).
Chi compra questi titoli (prestando soldi allo
Stato e ricevendone un interesse)?
Chiunque lo voglia.
Normali risparmiatori, banche, fondi d’investimento, italiani o stranieri. Anche
la Banca Centrale Europea, con un programma straordinario spesso chiamato
“Quantitative Easing” ha comprato e al momento in cui scrivo questo articolo (estate 2019) compra ancora titoli di Stato dei paesi UE,
ma il programma è già stato ridotto ed è destinato a finire. Oggi (estate 2019) la maggior parte del debito lo Stato italiano ce l’ha nei confronti di prestatori italiani, che direttamente o indirettamente
siamo noi risparmiatori.
Con quali soldi lo Stato paga gli interessi? Si
tratta di una spesa importante?
Gli interessi che lo
Stato deve pagare ai suoi creditori erodono la possibilità di fare altre spese
pubbliche, compresi investimenti. Siccome il nostro debito è uno dei più grandi
del mondo (vale più di una volta e un terzo il PIL, cioè l’intera dimensione annuale dell’economia
del Paese), per lo Stato italiano la spesa per interessi è enorme (quasi il 4% del PIL al tempo della stesura di questo articolo) e un suo aumento
costringe a politiche molto restrittive (e dolorose) su tutte le altre voci.
Chi decide il tasso d’interesse?
Quando lo Stato emette
nuovi titoli sul mercato, lo fa con aste per venderli ai compratori dando
la precedenza a chi accetta tassi di interesse più bassi (meno onerosi per lo Stato).
Il tasso che si forma all'asta è quindi il più basso che permetta di collocare tutti i titoli che lo Stato deve vendere per coprire il nuovo deficit e rifinanziare i titoli in scadenza.
Il tasso che si forma all'asta è quindi il più basso che permetta di collocare tutti i titoli che lo Stato deve vendere per coprire il nuovo deficit e rifinanziare i titoli in scadenza.
Cos’è lo “spread”?
Per spread s’intende la
differenza tra il tasso di interesse sul debito che il nostro Stato deve pagare
per riuscire a vendere i titoli e quello tedesco che viene preso come punto di
riferimento. Più è alto lo spread più è costoso per lo Stato italiano remunerare i
creditori in paragone a quanto spende lo Stato tedesco.
Ma allora chi sono i mercati finanziari che ci
“ricattano”?
Sono risparmiatori,
semplici o organizzati, perlopiù italiani, che prestano soldi allo Stato e legittimamente
li rivogliono indietro. Parlare di ricatto è come minimo una forzatura.
Come si può influenzare lo spread
per abbassarlo?
L’unico modo di influenzare gli interessi pagati sul debito o lo spread e tenerli bassi è convincere molti
soggetti a comprare titoli del debito italiano anche in cambio di interessi
bassi.
Ora: quando un prestatore è disposto ad accettare bassi tassi di interesse?
Quando si fida del debitore, perché pensa che i soldi gli verranno restituiti.
Un tipico motivo di fiducia è vedere che il debito cala (lo Stato dimostra che lo sta rimborsando) oppure che lo Stato aumenta le entrate perché
l’economia cresce e c’è la prospettiva credibile di raccogliere più tasse. Quest’ultimo
è il motivo per cui di solito ci si riferisce – per capire se un debito è sotto
controllo - non al debito in assoluto, ma al rapporto tra debito e PIL.
Se il creditore non vede prospettive tranquillizzanti, vuole che il suo rischio di perdere i soldi sia controbilanciato da interessi elevati. Cioè è più difficile e costoso convincerlo a comprare titoli del debito, e questo alza gli interessi (o lo spread).
Se il creditore non vede prospettive tranquillizzanti, vuole che il suo rischio di perdere i soldi sia controbilanciato da interessi elevati. Cioè è più difficile e costoso convincerlo a comprare titoli del debito, e questo alza gli interessi (o lo spread).
Quindi, se il Governo si dichiara
disinteressato al contenimento del debito, spaventa i prestatori e fa aumentare la
spesa per gli interessi limitando le altre possibilità di spesa pubblica?
Sì. Dire “Ce ne freghiamo del debito” o “Non accettiamo ricatti” è il modo
perfetto per ridurre, non aumentare, le possibilità di finanziare nuova spesa
pubblica. Inoltre, per quell'effetto dell'aumento dei tassi anche sui titoli già emessi descritto più sotto, è un modo per renderci subito
più poveri.
Ma non sarebbe giusto tenere conto
del fatto che nuovo debito potrebbe servire a fare investimenti utili per la
crescita?
Certamente un prestatore di denaro dovrebbe tener conto del modo in cui il
suo debitore vuol usare il suo prestito, fidandosi di più se si tratta di
investimenti produttivi. Ma il punto è sempre convincere i prestatori, e un
Governo che spaccia per “investimenti” nuove voci di spesa corrente non raggiunge di certo lo
scopo.
I fatti dicono che l’Italia ha fatto per anni (fino al momento in cui scrivo - estate 2019) pochissimi investimenti pubblici e
spende soprattutto per la spesa corrente e per gli interessi stessi sul debito.
Ma perché altri Paesi in Europa si
possono permettere bilanci annuali più in rosso del nostro e nessuno glielo
impedisce?
L’Europa (per decisione dei suoi stessi componenti) impegna tutti gli Stati
membri a indebitarsi poco (cioè a fare poco
deficit). Ma chiede anche ai Paesi con altissimi debiti (come l’Italia), in modo quindi selettivo, di
contenere in misura più stringente il deficit per ridurre il debito e evitare di
trovarsi nella situazione descritta nel prossimo punto.
Cos'è il default?
Il default è il fallimento: l'impossibilità di far fronte ai propri impegni per mancanza di cassa.
Se gli interessi sul debito esplodono perché troppi creditori si tirano indietro, lo Stato ha bisogno di ancora più denaro e quindi di emettere ancora più titoli, che però fa già fatica a collocare, fino al punto in cui non trova più abbastanza prestatori disponibili.
In questa situazione lo Stato non ha più soldi nemmeno per le spese più urgenti e smette di pagare anche le pensioni, gli stipendi, le bollette degli ospedali, il pieno delle auto delle forze dell'ordine.
Cos'è il default?
Il default è il fallimento: l'impossibilità di far fronte ai propri impegni per mancanza di cassa.
Se gli interessi sul debito esplodono perché troppi creditori si tirano indietro, lo Stato ha bisogno di ancora più denaro e quindi di emettere ancora più titoli, che però fa già fatica a collocare, fino al punto in cui non trova più abbastanza prestatori disponibili.
In questa situazione lo Stato non ha più soldi nemmeno per le spese più urgenti e smette di pagare anche le pensioni, gli stipendi, le bollette degli ospedali, il pieno delle auto delle forze dell'ordine.
Gli avvisi dall’UE sull'insostenibilità del deficit, più o meno vincolanti, sono come la spia della benzina
che si accende: se anche non ci fosse la spia, la benzina finirebbe comunque.
Non è colpa delle regole europee se non riusciamo a indebitarci in modo
sostenibile, ma dell’indisponibilità dei prestatori.
Ma perché allora, invece di
ricorrere al mercato, non obbligare la gente a comprare titoli del debito?
Una cosa del genere equivarrebbe a un esproprio: lo Stato si prende
forzosamente dei soldi a condizioni a cui i risparmiatori non sono disposti a
darli volontariamente. Uno Stato che fa così è autoritario e viola la proprietà privata e l’autodeterminazione dei
cittadini.
È un tipo di mondo dove abbiamo voglia di vivere?
È un tipo di mondo dove abbiamo voglia di vivere?
Non c’è un modo più soft per
convincere i prestatori a non chiedere interessi elevati? Per esempio dare vantaggi
fiscali a chi compra titoli di Stato e li tiene fino alla scadenza?
Politiche del genere tornano ogni tanto in auge. Il "Governo del Cambiamento" (Conte 1) è l'ultimo (rispetto al 2019) ad aver pensato a soluzioni del genere, ipotizzando i “Certificati Individuali di Risparmio”,
pacchetti di titoli di Stato che danno diritto all’acquirente a sconti
fiscali in grado di invogliarlo all’acquisto. (Un articolo in
materia l’hanno scritto Michele Governatori e Paolo Zanghieri qui). Ma un sistema del genere comporterebbe vari
problemi, tra cui che gli sconti fiscali necessari a invogliare il prestatore vanificherebbero almeno in parte i minori interessi pagati.
Cosa sono le agenzie di rating?
Perché influenzano i tassi di interesse e soprattutto perché non lo fanno in
modo da tenerli bassi?
Si tratta di osservatori che sulla base dello scenario economico e delle
scelte di bilancio di un’organizzazione (nel nostro caso uno Stato) valutano
quanto essa è affidabile come creditore. Il giudizio di
agenzie di rating considerate attendibili influenza i tassi di interesse perché
fa percepire più o meno affidabile il debitore che riceve la valutazione
(rating).
Queste agenzie non sono parte dei governi: chiunque può fondare la sua agenzia di rating e fornire le sue valutazioni, ma poi è la comunità economica nel suo complesso che decide se fidarsi o meno del giudizio, sulla base dell’autorevolezza e indipendenza dell’agenzia.
Chi crederebbe al giudizio di un’agenzia legata allo stesso Stato che deve piazzare il proprio debito?
Queste agenzie non sono parte dei governi: chiunque può fondare la sua agenzia di rating e fornire le sue valutazioni, ma poi è la comunità economica nel suo complesso che decide se fidarsi o meno del giudizio, sulla base dell’autorevolezza e indipendenza dell’agenzia.
Chi crederebbe al giudizio di un’agenzia legata allo stesso Stato che deve piazzare il proprio debito?
Cosa succede ai titoli in circolazione quando cambiano i tassi di interesse?
I titoli del debito già emessi, e che hanno interessi (spesso in forma di cedole) determinati al momento dell’asta iniziale, possono essere scambiati nel cosiddetto mercato secondario.
Qui il prezzo di un titolo dipende non solo dal suo valore di rimborso e dall'interesse che frutta, ma anche dalla compensazione che l'acquirente si aspetta per rendere competitivo tale interesse rispetto ai tassi di mercato, che dopo l'emissione del titolo potrebbero essere cresciuti o diminuiti rispetto a quando il titolo è stato emesso (e il suo rendimento fissato).
Una conseguenza è che un aumento dei tassi di interesse (anche solo atteso) nelle aste di collocamento di nuovi titoli provoca una riduzione del valore di mercato dei titoli già emessi, per compensare il loro rendimento divenuto inferiore al tasso di interesse di mercato.
Questo calo di prezzo dei titoli già emessi riduce il patrimonio dei risparmiatori e delle banche che li detengono. Una perdita di valore istantanea che a sua volta può causare una stretta del credito fornito dalle banche (il cosiddetto credit crunch), le quali hanno un limite massimo nel rapporto tra la quantità di prestiti che possono concedere e il valore del loro patrimonio.
Quindi se cala il valore di mercato dei titoli di Stato cala anche il credito dalle banche: una stretta che può avere effetti subito recessivi sull'economia.
I titoli del debito già emessi, e che hanno interessi (spesso in forma di cedole) determinati al momento dell’asta iniziale, possono essere scambiati nel cosiddetto mercato secondario.
Qui il prezzo di un titolo dipende non solo dal suo valore di rimborso e dall'interesse che frutta, ma anche dalla compensazione che l'acquirente si aspetta per rendere competitivo tale interesse rispetto ai tassi di mercato, che dopo l'emissione del titolo potrebbero essere cresciuti o diminuiti rispetto a quando il titolo è stato emesso (e il suo rendimento fissato).
Una conseguenza è che un aumento dei tassi di interesse (anche solo atteso) nelle aste di collocamento di nuovi titoli provoca una riduzione del valore di mercato dei titoli già emessi, per compensare il loro rendimento divenuto inferiore al tasso di interesse di mercato.
Questo calo di prezzo dei titoli già emessi riduce il patrimonio dei risparmiatori e delle banche che li detengono. Una perdita di valore istantanea che a sua volta può causare una stretta del credito fornito dalle banche (il cosiddetto credit crunch), le quali hanno un limite massimo nel rapporto tra la quantità di prestiti che possono concedere e il valore del loro patrimonio.
Quindi se cala il valore di mercato dei titoli di Stato cala anche il credito dalle banche: una stretta che può avere effetti subito recessivi sull'economia.
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