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domenica 30 novembre 2025

COP 30 (Puntata 697 in onda il 2/12/25)

Illustrazione di Paolo Ghelfi
Questa puntata si può ascoltare qui:

È capitato anche a voi di lamentarvi con qualcuno di un errore o un cattivo servizio, e sentirvi dire “abbia pazienza, non vede che sto lavorando”?

Al che a me viene da rispondere che proprio perché stai lavorando ti ritengo responsabile di quel che fai e penso di avere il diritto, anzi in un certo senso il dovere, di lamentarmi. Il professionismo dovrebbe essere proprio questo, prendersi la responsabilità di ciò che si fa a prescindere dai drammi personali che ognuno di noi ha, presumo, e che possono apparire coinvolgenti o noiosi a seconda della nostra empatia del momento.

Non a caso le organizzazioni più serie sono quelle che sanno ascoltare i reclami. Ho già citato qui una volta il lavoro dell’economista un po‘ eterodosso Albert Hirshmann che nel 1970 notò come i consumatori possano esercitare il loro potere non solo abbandonando un fornitore, ma anche facendosi caparbiamente sentire da lui.

Ma torniamo a noi. L’incapacità durante il summit climatico di Belem di trattare la questione dei combustibili fossili mi ricorda un atteggiamento che ho sempre visto nei discorsi sulla politica del clima. L’atteggiamento dell’industria delle energie fossili appunto, che è lì, rappresenta interessi enormi e procede più o meno con il business as usual perché in fondo sta lavorando, non fa mica filosofia, deve pur mandare avanti la baracca rispetto all’”ideologia” di preoccuparsi del futuro.

Io in realtà motivi anche puramente economici di preoccupazione ne avrei. Tutti gli investimenti chiaramente ridondanti per esempio sullo sviluppo di nuova capacità di estrazione di idrocarburi come petrolio rischiano di rivelarsi insostenibili una volta che i consumi calino, sia che ciò avvenga perché le politiche del clima diventano stringenti (forse uno scenario ottimistico) sia perché qualche blocco economico rilevante (un tempo avremmo detto l’Europa, oggi vediamo che è la Cina) decide di investire in quella direzione con una nettezza di non ritorno.

La stessa Cina però a Belem si è confusa con i BRICS a difendere gli interessi dei produttori di energia, cosa che ha avuto come conseguenza l’assenza del tema dell’uscita dalle fonti fossili nell’accordo delle Parti.

Mi arrischio a prevedere che tra pochi anni invece, quando l’irrecuperabilità degli investimenti nelle energie convenzionali sarà evidente, saranno proprio i Paesi o investitori più esposti nel settore a chiedere che il tema sia incluso negli accordi in modo da prevedere compensazioni economiche a fronte dei tanti soldi buttati. La risposta a quel punto difficilmente potrà essere “potevi pensarci prima” (come mi piacerebbe) se il settore sarà ancora rilevante abbastanza da poter generare default a catena nell’economia.

A proposito di BRICS, trovo anche deprimente (per quanto legittimo immagino rispetto alle regole d’ingaggio della convenzione-quadro sui cambiamenti climatici) che la Russia, paria sanzionato nei mercati energetici di mezzo mondo, sia stata attiva a Belem proprio per cercare unità di vedute tra i Paesi forti produttori di energie fossili.

E com’è dunque l’accordo raggiunto? Pessimo, come notato da quasi tutti i commentatori. Privo di avanzamenti. Certo, sì, si menzionano gli impegni della COP di Parigi a dieci anni di distanza. Il punto 6 “riafferma l'obiettivo di contenimento del riscaldamento” e il 27 “riconosce la necessità di azioni urgenti per tornare in linea con il limite di 1,5°” in più rispetto all’era preindustriale.

Dopodiché cosa volete? Lasciateci in pace, noi qui stiamo lavorando, mica facciamo filosofia.

martedì 25 novembre 2025

IA e scuola (Puntata 696 in onda il 25/11/25)

Illustrazione di Paolo Ghelfi
Questa puntata si può ascoltare qui.

L’ultima volta ho chiuso parlando dell’uso dell’intelligenza artificiale nella didattica, e l’Economist cosa fa? Piazza subito dopo un articolo (link sotto) che riprende la questione e secondo me merita di essere riferito.

Parla di una sorta di riflusso di scuole e università, soprattutto nei paesi ricchi, contro l’uso delle tecnologie digitali in classe. Non solo per evitare che si bari agli esami scritti, ma anche per interrompere la continua distrazione che deriva dai dispositivi. Justin Reich, direttore all’MIT del Teaching Systems Lab, dice che da ampie ricognizioni negli USA emerge che sistematicamente nelle high school e perfino al college i compiti a casa sono fatti dagli studenti con sistemi automatici. Chi vi parla si arrischia a confermare che da noi è lo stesso.

Diverse scuole, scrive l’Economist, stanno riadottando per reazione perfino carta e penna e chiedono lavori scritti a mano. Almeno l’apprendimento dell’amanuense così dovrebbe arrivare, commento io.

Ma torniamo all’Economist: anche i genitori, scrive, sono spesso d’accordo sul ritorno a classi vecchio stile, ma talvolta sono gli istituti scolastici a non poterselo più permettere perché i metodi di verifica tradizionali, come gli esami orali, richiedono troppo personale docente, mentre cavarsela con prove scritte magari da fare a casa in forma di presentazioni Power Point è più semplice. Lo stesso vale per classi di dimensioni sufficientemente piccole a rendere l’interazione possibile e in grado di coinvolgere tutti gli allievi: richiedono più insegnanti, e capaci di farlo.

Insomma, nell’era dell’AI che efficientizza, tornare alla didattica tradizionale, diciamo così, significa spendere di più, e non tutti se lo possono permettere. Il che fa il paio alla triste tendenza, non difficile da osservare, per cui i genitori con meno risorse finiscono per abbandonare i figli a un uso più massiccio del cellulare. E il problema non è internet in sé, naturalmente, bensì il modo diabolico con cui le varie piattaforme, anche usando protocolli di intelligenza artificiale, ci imbottiscono di serie ininterrotte di minivideo che sembrano studiati per inertizzarci e farci bere uno spot pubblicitario ogni trenta secondi. (Tra parentesi, non ho mai capito perché le pubblicità, già infestanti di loro, debbano anche essere così idiote. Più volte io da utilizzatore ho accettato di far accedere i vari Google a informazioni più vaste sulle mie interazioni sperando poi di essere trattato non più come un cretino, ma non ha funzionato).

Tra i genitori, sono quelli più benestanti e istruiti a desiderare meno tecnologia in classe, afferma Anne Maheux dell'Università della Carolina del Nord a Chapel Hill. Un rapporto del Pew Research Centre di dicembre 2024 ha rilevato che negli USA il 58% degli adolescenti ispanici e il 53% di quelli neri dichiaravano di essere quasi costantemente connessi a internet, rispetto al 37% degli adolescenti bianchi.

Un digital divide al contrario, commenta l’Economist.

“Forse la cosa migliore che possiamo fare oggi in classe è dare ai giovani il dono di un tempo senza distrazioni”, chiosa Reich dell’MIT.

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domenica 16 novembre 2025

Lingua e pensiero (Puntata 695 in onda il 18/11/25)

Illustrazione di Paolo Ghelfi

Questa puntata si può ascoltare qui.

“L’italiano non è l’italiano: è il ragionare”, diceva il professore al suo ex allievo diventato magistrato in un romanzo, Una Storia Semplice, di Leonardo Sciascia. Una sentenza che oggi risuona come un epitaffio per un paese che ha smarrito non tanto la grammatica, quanto la capacità di pensare. E, forse, anche la capacità di rimediare a questa situazione.

[…] A fine ottobre, Terna – il gestore della rete elettrica nazionale […] – ha recapitato ai propri manager […] una email dalla responsabile “Academy” che annunciava l’obbligo di recarsi a Roma per un test di italiano. Attenzione, non operai stranieri per cui i test linguistici sono previsti per legge. […]. Poi, una volta uscita la notizia, il dietrofront. L’imbarazzo. Il silenzio.

Questo è l’esordio di un articolo del 3 novembre 2025 di Marco di Salvo, autore per la testata “Gli stati generali” (link sotto).

Il fatto che Sciascia, e immagino anche qualche linguista prima di lui, avesse già espresso il concetto non rende meno brillante il modo in cui lo elabora uno scrittore contemporaneo, Matteo Galiazzo, nel suo Cargo (Einaudi), che scrive:

Ogni tanto mi ritrovo a chiedermi […] quanta importanza abbia la grammatica all'interno delle attività del nostro cervello. E mi chiedo anche quanta della filosofia e della logica di tutti i tempi sia dipesa semplicemente dalle costruzioni grammaticali necessarie a sostenere tali pensieri […]. Cioè, quanta dell'analisi della realtà effettuata dalla filosofia sia veramente analisi della realtà e quanta semplicemente analisi grammaticale delle frasi necessarie a descrivere tale realtà.

Qui Galiazzo fa un passaggio ulteriore: suggerisce che la lingua possa essere anche una costrizione dei ragionamenti, o almeno della loro struttura.

Entrambi gli autori mi sembrano comunque sulla stessa linea su questo: c’è un legame tra la padronanza della lingua e quella dei pensieri.

Io, che negli ultimi anni mi occupo un po’ di insegnamento, più modestamente noto che se un allievo non sa usare, o evita di usare la lingua è difficile valutare i suoi progressi. Gli esami a scuola e all’università si basano su conversazioni, o sull’accoppiata di comprensione e scrittura di testi, come con la tesi di laurea. Finché non avremo uno spinotto-dati da attaccare a una porta nel cervello, sarà impossibile fare altrimenti.

Le tesi di laurea nell’era dell’intelligenza artificiale diventano a volte il frustrante continuo tentativo del docente di capire se l’allievo sta effettivamente ragionando dietro alle cose che scrive, e se le ha verificate con fonti attendibili. Nei casi peggiori anche le richieste del docente di approfondire o sfidare qualche affermazione vengono gestite con un run di riformulazione software. Con il prof. Fulvio Fontini, con cui collaboro a Padova e che abbiamo già ospitato a questi microfoni, per prevenire il problema recentemente abbiamo prescritto che un elaborato fosse scritto con l’intelligenza artificiale, ma redigendo in parallelo un diario delle interazioni con il sistema, per responsabilizzare gli studenti riguardo all’uso dello strumento.

Per adesso, io credo di avere un certo occhio nel riconoscere testi “scritti a macchina” almeno da parte dei sistemi meno specializzati. Tendono a essere ripetitivi, piani anziché strutturati, usano spesso formule enfatiche stereotipate, traggono conclusioni tipiche del senso comune anziché con caratteri di originalità foss’anche solo nella formulazione.

Quando lavoravo in azienda avevo sviluppato una mia modalità di test di assunzione. Tra le prove c’era il dettato (sic) di italiano. Era un testo di poche righe con una serie di parole-trappola in cui l’ortografia, pur non sentendosi alla lettura, segnala il senso logico nella frase. Per esempio il “fa” di “mi fa male la testa” si scrive in modo diverso da quello di “fa’ vedere dove sei” (nel senso di fammi vedere).

Ci credete?: il dettato si dimostrò tra le prove più selettive tra i laureati che esaminavamo, quasi sempre già preselezionati sulla base del voto di laurea. Chi l’ha superato a pieni voti, guarda caso, è poi decollato in brillanti carriere. Alcuni ancora oggi ogni tanto li disturbo per farmi aiutare a capire qualcosa.

Chiudiamo da dove eravamo partiti con Di Salvo: la polemica contro la “Academy” di Terna, a cui va invece il mio plauso per averci almeno provato, probabilmente l’ha fatta partire qualche dirigente che temeva il test non perché fosse irrispettoso, ma per paura di non passarlo. In una puntata del podcast “Ecoglossia”, fatto da me con Roberto Carvelli e Federico Platania, insieme ad Andrea Terenzi raccontiamo di come in un’altra azienda dell’energia, l’Eni, fu lo stesso amministratore delegato, Vittorio Mincato, a diffondere consigli di scrittura in un vademecum che abbiamo recuperato e che quarant’anni dopo è ancora utilissimo.

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martedì 11 novembre 2025

Il clima di Roma (Puntata 694 in onda l'11/11/25)

Questa puntata si ascolta qui.

Si è aperta il 10 novembre a Belem, città brasiliana alle porte della foresta amazzonica, la trentesima conferenza per il clima nell’ambito della convenzione-quadro sui cambiamenti climatici dell’ONU.

Capita ancora di sentire politici dalla debole logica argomentativa affermare che una comunità piccola rispetto al mondo intero non può assumersi responsabilità rilevanti su una questione globale. Invece l’azione per il clima mostra come tutto conti, dalle scelte di tecniche agricole o forestali in luoghi remoti, alle politiche di investimenti pubblici, alle iniziative dimostrative di singoli soggetti, passando per laboratori e sperimentazioni di comunità anche piccole.

Relativamente piccole sono le singole città, ma rilevanti in termini di effetti climatici subìti, e anche di sviluppo di nuove forme di convivenza ed efficienza soprattutto se nell’ambito di un coordinamento internazionale. Efficienza in cui le città partono avvantaggiate perché rispetto ai villaggi isolati usano meno risorse logistiche ed energetiche in rapporto all’emancipazione professionale e culturale che permettono a chi ci vive, da cui deriva la loro inarrestata capacità di attrazione.

Parliamo di clima e città oggi con Edoardo Zanchini, direttore dell’ufficio Clima del comune di Roma. Gli ho chiesto anzitutto di introdurci il rapporto tra città e clima.

[Zanchini 1 - Link in alto per l'ascolto]

Nello specifico di Roma ho chiesto poi a Zanchini come il clima colpisce la capitale e in quali settori è necessario lavorare, in particolare in termini di adattamento.

[Zanchini 2 - Link in alto per l'ascolto]

Sul portale romaperilclima.it ci sono i vari documenti su questo lavoro, tra cui il rapporto del monitoraggio degli effetti climatici, dove leggo per esempio che nel 2024 a Roma la temperatura non è mai stata sotto zero (mentre tra il ’91 e il 2020 ci sono stati in media 6 giorni all’anno con gelate notturne), che la necessità di riscaldamento (misurata in gradi giorno, cioè la somma dello scostamento tra 20 gradi e la media di temperatura del giorno) si è quasi dimezzata, mentre è più che raddoppiata quella di raffrescamento.

Riguardo alle strategie di adattamento, è interessante il lavoro su come aumentare l’ombra urbana, e la capacità delle superfici di non assorbire i raggi solari. Da uno dei tanti grafici del portale, che mostra l’incidenza delle cosiddette onde di calore, si vede come da un lato queste onde siano temibili, dall’altro quanto i romani siano fortunati per la disponibilità di parchi in cui rifugiarsi. Molti dei quali, aggiungo io, hanno ancora aree in abbandono restituibili all’uso, così come in grandi zone verdi di fatto inaccessibili (per esempio il parco agricolo di Casal del Marmo e le zone della riserva dell’Insugherata più vicine a via Trionfale) c’è da lavorare per acquisire servitù pubbliche per il passaggio di bici e pedoni.

Ne parleremo ancora magari sempre con Zanchini, che intanto ringrazio.


lunedì 3 novembre 2025

La manetta del gas (Puntata 693 in onda il 4/11/25)

Illustrazione di Paolo Ghelfi
Questa puntata si può ascoltare qui.

Capita di prendere una decisione, iniziare a comportarsi di conseguenza e poi temere di aver sbagliato.

Quando ha senso tornare indietro e quando no? La mente umana è nota per alcune famiglie di comportamenti irrazionali frequenti, per esempio non voler accettare di aver usato inutilmente risorse, con la conseguenza di insistere su decisioni anche quando con le nuove informazioni disponibili queste appaiono irrazionali.

Ma un errore opposto è quello di dimenticare i fondamenti della decisione precedente solo perché alcuni segnali sembrano in contraddizione con quanto ci saremmo aspettati, e farsi prendere quindi dal panico quando è troppo presto per valutare che la strategia non funziona.

Nell’aviazione civile ci sono protocolli per aiutare un pilota a decidere in quali casi è ammissibile modificare una manovra in una fase critica delle operazioni come il decollo. Si ritiene per esempio che oltre una certa velocità, detta di non ritorno, sia quasi sempre da evitare un rigetto del decollo, sebbene la discrezione del pilota permetta di farlo in condizioni eccezionali se lui si convince che l’aereo non sia in grado di staccarsi da terra. In tal caso perfino la certezza di non potersi più fermare entro la fine della pista è preferibile a un tentativo di decollo. Decisioni da prendere nel giro di secondi e la cui esecuzione corretta richiede perfetto coordinamento e rispetto delle gerarchie nel cockpit.

Alla fine di quest’anno l’AD di Porche Oliver Blume lascerà il comando a Michael Leiters, come reazione al crollo nella redditività dell’azienda dovuto al fatto, scrive l’Economist, che l’interesse dei clienti di auto sportive per le versioni elettriche non è sufficiente a mantenere il livello di vendite e di margini precedente. Leiters dovrà quindi decidere per esempio se reintrodurre una versione a benzina per la nuova Macan, un SUV, che al momento è previsto solo elettrico.

Reintrodurne una versione a benzina, scrive l’Economist, comporterebbe almeno un paio d’anni di ritardo sul lancio. Che, tornando all’esempio aeronautico, equivale a dire che la rinuncia al decollo della strategia precedentemente impostata potrebbe comportare di finire fuori pista, subendo danni potenzialmente superiori ai rischi di tirare dritto.

A me in realtà non stupisce che i clienti di auto sportive siano affezionati ai motori tradizionali e a tutto l’immaginario relativo. Mi preoccupa invece che il nuovo CEO di Stellantis Antonio Filosa dichiari in pubblico che il problema dell’azienda è la decisione europea di vietare di vendere motori tradizionali nel 2035. Se davvero Stellantis pensa di fare una quota rilevante di profitti tra dieci anni con motori a combustione interna, vuol dire che non si sente in grado di decollare sull’elettrico nemmeno in tempi più che ragionevoli, nemmeno con una pista molto lunga davanti. E magari ci fosse tutto questo spazio: sappiamo che la concorrenza cinese invece è già in volo e che i suoi modelli elettrici, un po’ per l’attuale eccesso di capacità e aiuti pubblici, un po’ per il fatto di essere partiti prima, sono clamorosamente competitivi sui nostri mercati.

Insomma, spero tanto che i segnali che si vedono dall’industria automobilistica europea non siano quello che sembrano: panico rispetto al futuro. Paura di portare la manetta dei motori al massimo e giocarsela sui nuovi prodotti e le nuove tecnologie.

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martedì 28 ottobre 2025

Pasticcio al carbone (Puntata 692 in onda il 28/10/25)

Illustrazione di Paolo Ghelfi
(riutilizzata, perché l'autore
batte la fiacca ultimamente)
Questa puntata si può ascoltare qui.

Torniamo sulla retromarcia del Governo sulla chiusura degli impianti di produzione elettrica a carbone che sarebbe invece prevista alla fine di quest’anno in Italia dalla strategia energetica e dal piano per il clima.

Il ministro Pichetto ha addirittura dichiarato al recente convegno di AIGET (associazione grossisti e trader di energia) che non darà mai l’ordine di chiudere le poche restanti centrali, riferendosi al fatto che il Governo deve autorizzare le disconnessioni di impianti elettrici rilevanti, sentito il parere di Terna, il gestore della rete di trasmissione nazionale.

Il ministro ha anche ammesso che c’è in corso una negoziazione tra Enel (che gestisce tre delle centrali ancora operative) su quanto l’azienda dovrebbe essere remunerata per lasciare gli impianti disponibili in “riserva fredda”. Termine che è curioso come venga ripetuto pur non essendo definito nell’ordinamento italiano. Ci sono paesi che in effetti approvvigionano capacità elettrica di lungo termine come “riserva strategica” ma non è il nostro caso, in cui gli strumenti per garantire che il mercato fornisca capacità di sicurezza includono invece un sistema di remunerazione dei costi fissi chiamato capacity market e un mercato in cui nel breve periodo Terna si approvvigiona della potenza di riserva che permette di gestire le deviazioni dall’equilibrio previsto tra domanda e offerta elettrica.

E i riflettori sono ora inevitabilmente accesi su Terna, che non dichiara nei suoi rapporti che le centrali continentali a carbone (per quelle sarde è invece già previsto un ritardo di un paio d’anni) debbano restare in condizioni funzionali e che, salvo clamorose smentite, non ha motivo di dirlo.
Infatti le ragioni per cui il Governo vuole una riserva a carbone non hanno a che fare con la sicurezza del sistema elettrico, bensì con una fiducia evidentemente ora incerta sulla competitività futura delle forniture internazionali di gas. Sfiducia un po’ intempestiva dopo che l’intera strategia di conversione energetica è stata accompagnata da parte del Governo dal mantra del gas come backup alle rinnovabili, strategia che ha implicato investimenti notevolissimi in porti di rigassificazione e tubi.

Enel dal canto suo prima della riapertura della questione aveva dichiarato pubblicamente di aver chiesto il permesso alla dismissione degli impianti a carbone come da programma, cosa che a norme attuali le conviene visto che in condizioni normali di mercato tali centrali non sono competitive e infatti sono già spente di fatto da tempo, e pesano con i loro costi fissi.

Ora, pur nella nuova era di dirigismo arbitrario dei Governi, non solo il nostro, anche in contrasto al legittimo affidamento degli operatori di mercato e, direi, dei cittadini, le istituzioni dovranno pur comunque riempire di un contenuto giuridico e regolatorio la definizione di “riserva fredda” per quantificare e giustificare i soldi di fatto pubblici che andranno ai gestori degli impianti coinvolti. E anche per chiarire quanto emergenziale sarebbe l’uso di questa riserva, visto che accendere effettivamente gli impianti prevederebbe senz’altro la violazione di norme ambientali su inquinamento (su cui già siamo in mora con Bruxelles) e sul clima. Su quest’ultimo punto il commissario UE competente, Hoekstra, si è detto in attesa di elementi.

La mia impressione è che il ministro Pichetto stia preparandosi la strada a qualche mal di testa. Derrick farà il possibile per contribuirvi.


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martedì 21 ottobre 2025

Calenda e i guadagni delle reti energetiche (Puntata 691 in onda il 21/10/25)

Illustrazione di Paolo Ghelfi
Questa puntata si può ascolare qui.

In un contesto in cui quasi mai qualcuno manifesta in pubblico criticismo su chiunque abbia un po' di potere, l'invettiva di Carlo Calenda di qualche giorno fa contro Flavio Cattaneo mi è parsa una piccola boccata d'ossigeno.

Calenda però la chiude buttando sul personale una cosa che invece (come lui stesso anticipa) ha una valenza pubblica.

Vediamo di cosa si tratta per chi non ha seguito il battibecco: Calenda nota come Enel Distribuzione, gruppo Enel, faccia utili notevolissimi, e menziona un 40% che potrebbe essere compatibile con dati recenti del rapporto tra risultato operativo o netto dell’azienda e il fatturato. In effetti nel 2024 Enel Distribuzione aveva un risultato operativo netto di oltre 3 miliardi e mezzo per un fatturato di poco più di 9.

Si tratta in effetti di una redditività notevolissima, ed è comune in Italia nelle aziende che gestiscono reti dell’energia. Aziende che come dice Calenda hanno un rischio limitato, visto che la struttura delle tariffe che le remunera, stabilita dall’ARERA, è disegnata per garantire un ragionevole ritorno sugli investimenti e rifusione dei costi operativi. In più, i clienti sono captive, cioè non possono scappare a meno che non smettano di consumare energia, visto che i gestori delle reti sono monopolisti nella loro area di competenza.

Non ha senso però prendersela con Cattaneo che amministra una delle aziende beneficiarie, e men che meno Cattaneo dovrebbe "stare zitto" (come gli suggerisce Calenda nel suo attacco) sui suoi risultati economici. Anche perché una società quotata cosa dovrebbe fare? Nascondere gli utili? Introdurre sussidi interni da business regolati ad altri in concorrenza?

Piuttosto, se il punto sollevato è fondato (e io credo di sì) c'è un problema delle istituzioni dello Stato che evidentemente non riescono a regolare come dovrebbero questi settori. Leggo che Calenda correttamente ha sollevato la questione anche in Parlamento e che il ministro Pichetto ha girato la responsabilità su ARERA, reazione comprensibile visto che l’Autorità è tenuta a essere indipendente dal Governo e che il disegno di dettaglio delle tariffe di rete le compete.

La questione politica in ogni caso c’è, ed è particolarmente importante, visto che non c'è membro del Governo o del Parlamento che non invochi bollette più basse, e visto che dopo alcuni mesi dalla scadenza Governo e Parlamento non sono ancora riusciti a esprimere i nuovi vertici di ARERA.

Ma attenzione, sulla remunerazione delle reti energetiche non c'è solo la questione del quanto, ma anche del cosa. Quali parti dell’infrastruttura hanno effettivamente bisogno di investimenti urgenti che magari giustificano (piccoli) premi economici? Quali invece al contrario devono smettere di spendere soldi collettivi in nuovi asset perché incoerenti con la strategia energetica e climatica? (Spoiler: la risposta a quest'ultima domanda è: le reti gas).

Di sicuro sovraremunerare indiscriminatamente o quasi ogni euro investito nei settori regolati non è una buona idea né per la competitività né per la transizione energetica.


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martedì 14 ottobre 2025

Bici e lotta di classe (Puntata 690 in onda il 14/10/25)

Illustrazione di Paolo Ghelfi
Questa puntata si può ascoltare qui

Si direbbe che l’Economist mi ascolti, soprattutto quando mi trovo nella sua patria. Nella penultima puntata parlavo dell’uso crescente delle bici a Londra, osservando il quartiere di Chelsea e notando come un mezzo così tradizionale, semplice, umile, stia tornando a far parte della routine anche – anzi: soprattutto, e questa è la cosa un po’ strana e interessante – delle classi urbane privilegiate.

Un ricco articolo del secondo numero di ottobre 2025 dell’Economist riprende il tema, innanzitutto con qualche dato.

Se è vero che le nuove tecnologie, come le auto elettriche e i robotaxi, stanno accompagnando le città nella nuova era, è anche vero che il ritorno alle semplici bici è quantitativamente più significativo. Se i robotaxi di Waymo (gruppo Google) sono arrivati a dare 250 mila passaggi alla settimana, solo a New York, scrive l’Economist, in tre giorni si fanno lo stesso numero di corse di bike sharing.

Io osservavo in particolare Chelsea, ma leggo che anche nella City muoversi in bici è ormai il doppio più frequente che in auto. Altro caso di grande successo delle politiche di limitazione alle auto è Parigi, dove in tutta la metropoli ci si muove ora più in bici che in auto, mentre le tradizionali città ciclabili d’Europa, Copenaghen e Amsterdam, si sono spinte ancora più avanti nell’intensità di pedalata, anche grazie alla diffusione delle bici elettriche.

Pechino, che 30 anni fa aveva di fatto tolto spazio ai ciclisti per darlo alle auto, sta anche lei tornando indietro, mentre i tuktuk elettrici stanno diventando la norma a Dakhra, capitale del Bangladesh (chissà com’è la situazione invece a Delhi: quando ci sono stato 4 anni fa gran parte dei tuktuk erano convertiti a gas metano, chissà se sono stati nel frattempo elettrificati).

La pedalata assistita sta però creando qualche problema di sicurezza a causa della maggiore velocità delle bici elettriche rispetto alle muscolari, soprattutto quelle illegalmente modificate per andare forte come motorini, che tendono a violare i limiti di velocità delle piste ciclabili mettendone a rischio la sicurezza.

Mentre le recenti elezioni politiche in Repubblica Ceca hanno visto i populisti-reazionari prevalere anche grazie al partito dei motoristi, a Montreal, la metropoli più ciclabile d’America, le prossime elezioni municipali vedono la contrapposizione tra i supporter delle bici e quelli delle auto che lamentano la crescente limitazione cui sono soggetti, benché, scrive l’Economist, solo il 2% dello spazio stradale cittadino sia riservato alle bici, contro l’80% alle auto e il resto ai pedoni.

L’ignoranza probabilmente gioca un ruolo determinante, come nel caso dei commercianti che continuano a ritenere che la ciclopedonalizzazione delle loro strade sia un danno al business, mentre i dati osservati mostrano costantemente il contrario.

Come dicevo nella puntata a Chelsea, se non è difficile immedesimarsi in una lotta di classe dove i meno abbienti vedono malvolentieri lo sfoggio di supercar a bordo strada, è un po’ curioso quando l’invidia sociale prende come simbolo negativo la bici, cioè il mezzo più economico e meno impattante sugli altri, quello che tutti possono permettersi.

Ma tu guarda questi fighetti privilegiati che pedalano anziché fare il pieno, inquinare e girare con una tonnellata e dieci metri quadri di ferraglia attorno a sé.


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sabato 11 ottobre 2025

Srilanka (Puntata 689 in onda il 7/10/25)

Tuktuk al forte olandese di Galle
Una serie di clip registrate durante un viaggio in Srilanka tra il 29/9 e il 7/10/2025.

La puntata si può ascoltare qui.


Tempio a Dambulla



Stazione di Liyanagemulla


martedì 30 settembre 2025

Vita da ZTL (Puntata 688 in onda il 30/9/25)

Foto fatta a Londra
nei pressi di Battersea
Puntata registrata in presa diretta per il ciclo Le camminate (im)possibili. Si può ascoltarla qui. Segue una trascrizione un po' aggiustata.

È un sabato mattina di inizio autunno. Sto passeggiando nel quartiere di Chelsea, a Londra.

C'è molta calma, parchi con famiglie, auto di lusso parcheggiate davanti alle case vittoriane e tantissime bici. Bici dei circuiti a noleggio con pedalata assistita, bici pieghevoli, private, bici anche usate visibilmente per fare sport.

I lampioni sulla strada hanno quasi tutti una presa alla base per ricaricare le auto elettriche, non solo a Chelsea che è un quartiere molto ricco.

Londra da anni ha introdotto uno dei sistemi di disincentivo economico più forti al mondo all'utilizzo dell'auto privata, tassando sia l'inquinamento sia la congestione. Avere un'auto e usarla a Londra costringe oggi a contribuire notevolmente al bilancio dell'amministrazione cittadina.

E da quello che posso vedere rispetto ai viaggi di anni fa, di auto ce ne sono meno. La città è più bella, più silenziosa, meno inquinata. È piacevole andare in giro a piedi.

Ci sono le piste ciclabili, soprattutto quella spettacolare sul Tamigi, ricavata alla base degli edifici sul fiume oppure alta panoramica sull’argine. C'è l'eccezione per le bici rispetto al divieto di accesso nelle strade a senso unico (non solo a Londra). Sempre più genitori girano con le cosiddette cargo bike coi bimbi nel cassone, un uso che sa sempre meno di ostentazione di famiglia sana e felice e più di praticità.

Un bimbo intanto sta commentando una Ferrari parcheggiata.

E passeggiando qui, vedendo la trasformazione della città da un quartiere chiaramente di privilegiati, mi stavo chiedendo questo: se è vero che la fortuna di spostarsi quotidianamente in bici forse non è ancora accessibile a tutti, magari per la mancanza di mezzi pubblici adatti all’interscambio, credo che il passo successivo sia rendere disponibile ovunque l’assetto ciclabile, anziché prendersela con le cosiddette ZTL privilegiate.

Se l'aspirazione di avere tutti una Ferrari parcheggiata davanti casa non è verosimile, e magari nemmeno tanto desiderabile, quella di potersi muovere in bici in una città che diventa per questo più bella, beh, io credo che sia alla portata di molte città che non l’hanno ancora fatto, almeno in Europa.

sabato 20 settembre 2025

Alcamo Diramazione (Puntata 687 in onda il 23/9/25)

Il percorso a piedi dalla stazione
di Alcamo Diramazione ad Alcamo città
Questa puntata si può ascoltare qui.

Chi segue Derrick forse ricorderà un reportage insieme a Paolo Ghelfi da Cina e Laos in cui notavamo come le stazioni delle nuove linee ferroviarie fossero lì spesso lontane dai centri abitati principali. Questo non vale di solito in Europa, ma ci sono pur sempre anche da noi casi in cui una stazione urbana richiederebbe tracciati troppo difficili, per esempio a causa dei dislivelli. Se un secolo fa o prima si progettavano ancora eroiche ferrovie di montagna – molte purtroppo dismesse e solo alcune trasformate in percorsi ciclabili – simili tracciati difficilmente oggi sarebbero economicamente competitivi con il trasporto stradale.

Quindi è normale che alcuni centri di collina abbiano la stazione in basso, un po’ lontana, ma la mia esperienza recente da quella di “Alcamo Diramazione” è stata particolarmente western e impegnativa, e credo meriti un episodio delle nostre Camminate (im)possibili.

Era un primo assolatissimo pomeriggio di settembre e io giungevo con un treno regionale diesel nella tratta non elettrificata Trapani-Piraineto che visita tra l’altro Marsala e Mazzara del Vallo e passa vicinissima al tempio di Segesta.

Sceso nell’ampia stazione dall’aria un po’ trascurata, ho notato di essere stato l’unico a farlo. Il posto era deserto. Mentre uscivo sul piazzale esterno alla ricerca di un bus, ho sentito con un accenno di rimorso il mio treno dare gas accelerando via. Probabilmente un bus di linea per Alcamo dalla stazione esiste, ma io non sono stato in grado di localizzare una fermata, e non c’era nessuno a cui chiedere. Solo il rumore delle cicale e il sole inclemente. E le auto veloci ogni tanto.

Mi sono incamminato verso sud sulla Statale 773 che segue la linea ferroviaria in disuso per Calatafimi e solo dopo un po’ mi ha permesso di svoltare sulla Statale Settentrionale Sicula verso un’area industriale, finalmente in direzione di Alcamo. Ho attraversato la ferrovia in un punto in cui ero passato in treno venti minuti prima e poi son passato sotto all’autostrada sempre camminando sulla banchina polverosa e arsa della Statale. Dopodiché finalmente la mappa mi ha indicato di lasciare le strade trafficate e inerpicarmi per una strada secondaria a tratti sterrata che collega tra loro curiosi terrazzamenti protetti da enormi massi forse di granito ognuno dei quali ospita un capannone o un piazzale che domina il precedente lungo la salita verso Alcamo.

[Registrazione durante la salita].

Questa era la mia voce mentre camminavo.

Entrato ad Alcamo, le vie strette e lunghissime erano ancora avvolte dalla controra estiva. Alla fine ci sono voluti più di sette chilometri dalla stazione. L’afa avrebbe lasciato spazio a temporali e piogge torrenziali la notte stessa.

martedì 16 settembre 2025

I sentieri-fantasma di Marettimo (Puntata 686 in onda il 16/9/25)

Il sentiero verso Cala Bianca
lungo la costiera N dell'isola di Marettimo
Questa puntata può essere ascoltata qui.

Questa è una puntata in diretta differita: reportage dall'isola di Marettimo, nelle Egadi, la più distante da Trapani.

La consideriamo nel ciclo camminate impossibili, forse dovrei dire camminate difficili. Sto tornando all'unico villaggio dell'isola dove passerò la notte dopo circa 5 ore di cammino, quasi completamente in solitaria, dove ho cercato, oltre che di raggiungere la sommità dell'isola, abbastanza facile, scarpinando un po', anche di andare nel suo estremo nord-occidentale dove c'è una caletta che si chiama Cala Bianca, che mi è stata consigliata dagli isolani con cui ho chiacchierato, che però mi hanno anche messo in guardia rispetto a tentare di raggiungerla a piedi, perché è pericolosa, perché i turisti non capiscono che l'isola si vede bene solo dalla barca, cose del genere.

Naturalmente mi è venuta curiosità di tentare questo sentiero verso Cala Bianca. Solo raggiungere l'inizio del tratto più spettacolare richiede un'ora e mezza di cammino almeno. Poi inizia la parte chiusa ufficialmente per una frana. Dall'inizio del sentiero ufficialmente chiuso prima di arrivare alla frana si cammina per almeno una mezz'oretta e ci si avvicina molto a questa Cala Bianca in uno scenario davvero spettacolare, di solitudine estrema. (Ho però incontrato un cervo, forse, che se n’è scappato).

Il sentiero è abbandonato non so da quanti anni, ci cresce la vegetazione, ho dovuto mettere i calzoni lunghi per non strisciarmi tutto e a un certo punto, purtroppo, mentre ci si alza, restando comunque a mezza costa a picco sul mare con a sinistra delle guglie bellissime che qui chiamano le Dolomiti isolane, purtroppo sì: si attraversa un calanco con uno smottamento che ha reso un po' pericolosi alcuni metri del sentiero.

Niente che non si possa mettere in sicurezza facilmente anche solo aggiungendo una corda. Nessuno però l'ha fatto, il sentiero è stato abbandonato e sembra quasi definitivamente.

Eppure si tratta di una via che ha evidentemente una lunga storia, fatto originariamente con un certo investimento di fatica. Alcune parti addirittura sono costruite a forma di scale per aiutare i passaggi più aerei ed è di una panoramicità favolosa. Può creare forse qualche problema a chi soffre gravemente di vertigini, ma è un sentiero fatto per essere alla portata di tutti, purché si abbia voglia di camminare.

Qui nell'isola si usa uno smottamento come scusa per abbandonare uno dei suoi sentieri più belli, chiuderlo e diffidare i turisti dall'usarlo. Immagino perché una giornata sui sentieri evita una giornata passata a fare (e pagare) i giri in barca. Ma non credo che questo atteggiamento sia particolarmente utile dal punto di vista degli introiti turistici.

La maggior dei visitatori oggi viene in giornata da Favignana o addirittura da Trapani o Marsala e quindi effettivamente si: deve scegliere tra giro in barca o escursioni a piedi. Ma se io appassionato di camminate so che c'è un sentiero riaperto che va a Cala Bianca, e invece che vederlo cancellato dai cartelli lo vedo promosso, magari vengo a Marettimo per esplorarlo insieme agli altri dell’isola, esplorazione che richiede certo più giorni rispetto alla toccata e fuga del giro in barca diurno.

Marettimesi, barcaioli inclusi: prendetevi cura dei vostri sentieri. Credo vi convenga.

Un minivideo dal sentiero verso Cala Bianca è qui.

Tutte le "Camminate (im)possibili" di Derrick, in ordine anticronologico, sono qui.

martedì 9 settembre 2025

Propaganda e tecnologia nell'energia (Puntata 685 in onda il 9/9/25)


Questa puntata si può ascoltare qui.

Illustrazione di Paolo Ghelfi
Nel disegno di legge delega nucleare è stata inserita spesa pubblica per una campagna informativa in materia per 7,5 milioni di Euro nei soli 2025 e 2026.

Un comunicato del presidente di coordinamento FREE, Attilio Piattelli, ingegnere nucleare e imprenditore del settore, ha fatto notare che nulla di questa entità si è mai visto per comunicare altre tecnologie dell’energia o per l’efficienza energetica. Eppure sarebbe ben più immediata l’utilità di sapere come fare una pergola fotovoltaica in balcone o come usare i nuovi contatori elettronici e diventare più efficienti o come legare i propri consumi alle sole energie rinnovabili liberandosi dai costi del gas. Energie che oggi esistono, si costruiscono e costano meno di altre.

La strana miopia politica di focalizzarsi su applicazioni enormi e costose e di tralasciare quelle diffuse spesso più rilevanti e utili è un tema che qui copriamo spesso. Facciamo il ponte sullo stretto ma non le ferrovie regionali in Sicilia e altrove. L’alta velocità ma non la capillarità e l’intermodalità. A Roma da anni piazza Venezia è brutalizzata dai lavori della metro, ma la città non è stata finora in grado non dico di organizzare, ma nemmeno di ospitare sistemi di mobilità condivisa di dimensioni rilevanti. Operatori come la spagnola Acciona coi suoi scooter elettrici sono dovuti scappare dall’Italia, ci avete fatto caso? Ma anche il campione Eni sta zitto zitto ritirando dalle strade le sue EnJoy, avete notato? Il Governo intanto alloca i nostri soldi per la propaganda nucleare.

Un numero di qualche tempo fa dell’Economist definiva “greenhushing” quel fenomeno per cui le tecnologie della transizione energetica non si fermano affatto, ma nemmeno si sbandierano, per non contraddire la retorica ufficiale oggi dominante, quella del rientro dal green deal, del gas di cui ci sarà sempre bisogno e del nucleare. E a proposito di una transizione diffusa che malgrado tutto non si ferma, gli ascoltatori di Derrick più antichi ricorderanno Ecofuturo, una rete di operatori di tecnologie e applicazioni fondata e diretta da Fabio Roggiolani, che organizza ogni anno un convegno ma anche un vero e proprio mondo virtuale, che si chiama Ecofuturo World. Un mondo parallelo, si direbbe, rispetto alla retorica del momento. In tre dimensioni con città, uffici, installazioni energetiche e no, e anche fiere. Ce ne parla Gianni Girotto, già senatore per il M5S e presidente della commissione industria del Senato.

[Audio Girotto]

Grazie Gianni Girotto. Il sito è https://world.ecofuturo.eu/it ma, se posso permettermi, forse il nome giusto sarebbe: ecopresente.


martedì 26 agosto 2025

Sicurezza dei ciclisti su strada, con Omar Di Felice (Puntata 684 in onda il 26/8/25)

Illustrazione di Paolo Ghelfi
Questa puntata si può ascoltare qui.

144. Sono i morti di ciclisti in incidenti stradali nel 2025 in Italia fino al 17 agosto secondo il rapporto che ASAPS fa con dati SAPIDATA (grazie all’associazione amici della polizia stradale per questo lavoro ed è curioso che non sia un organo istituzionale pubblico a fornirne i dati bensì – e ringrazio anche a loro – un’azienda di servizi sanmarinese, SAPIDATA appunto).

Il dato di 144 morti in meno di 8 mesi – 12 dei quali da cosiddetti pirati della strada poi scappati - è in aumento rilevante rispetto all’anno scorso di oltre il 20% se si confrontano i primi sei mesi. È un indicatore che diventerebbe ancora più impressionante se lo si parametrasse ai pochi chilometri fatti in bici rispetto all’auto in Italia, dato che al momento non sono riuscito a reperire.

Ho chiesto un commento a un campione di ciclismo di cui sono anche fan: Omar Di Felice, credo l’atleta italiano che ha vinto di più a livello internazionale nella disciplina dell’ultracycling, che consiste in gare su strada di lunghezze e dislivelli impressionanti.

Sentiamolo:

https://on.soundcloud.com/sCoNPwUAukYBHBfAp0

Grazie a Omar Di Felice. Che sui suoi social del tema scrive in modo dettagliato. Per esempio consiglia ai ciclisti di non buttarsi sul ciglio della strada, ma di occupare la corsia normalmente, come prevede il codice, per evitare di incoraggiare sorpassi delle automobili senza spazio di sicurezza.

Se non conoscete ancora questo atleta vi consiglio di seguire in particolare i suoi viaggi in solitaria in luoghi remoti e a volte estremi del mondo, tra cui uno recente in Tibet. Di Felice è anche autore di quattro libri. Io per prepararmi a questa puntata ho letto il suo “Pedalando nel silenzio di ghiaccio”, Rizzoli 2019, in cui parla della sua crescita come atleta e persona attraverso le imprese in bici della prima parte della sua carriera.

Ringrazio anche Valeria Galli già del team di comunicazione di Di Felice per averci messo in contatto.
 

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martedì 5 agosto 2025

Prolunghiamo il carbone? (Puntata 683 in onda il 5/8/25)

Illustrazione di Paolo Ghelfi
Questa puntata si può ascoltare qui.

Il 31 luglio 2025 Azione e Forza Italia hanno presentato un ordine del giorno per proporre di modificare la strategia energetica rimandando di 13 anni la chiusura delle centrali a carbone che il Governo ha previsto per quest’anno (impegnandosi anche nel piano energia-clima approvato dall’Unione Europea). E il Governo che parere ha dato? Positivo!

I proponenti motivano la richiesta con la necessità di attendere l’arrivo dei primi impianti nucleari.

Ora, quando il piano energia-clima è stato mandato a Bruxelles già prevedeva il fantanucleare entro il 2040, eppure non ravvisava nessuna necessità di mantenere gli impianti a carbone, che del resto in gran parte sono già chiusi e anche i 4 attivi funzionano pochissimo perché non competitivi sommando i costi del carbone e dei permessi ad emettere la tanta CO2 che producono.

Dunque da dove deriva l’improvviso timore per la sicurezza energetica da parte dei proponenti l’OdG?

Vediamo: l’elettricità in Italia, al netto delle importazioni, si fa con gas (sempre meno) e con le rinnovabili (sempre di più). Quest’anno potrebbe essere quello del sorpasso di queste ultime sul primo. Difficilmente le rinnovabili installate verranno smontate o sole vento e piogge si spegneranno nel giro di pochi anni. Riguardo al gas, per garantirne la disponibilità e quella di centrali per bruciarlo sono in campo da anni forme di sussidio ai costi fissi delle centrali, e in seguito alla crisi Ucraina si sono fatti investimenti per alcuni miliardi (a spese di tariffe e temo in futuro tasse) per diversificare gli approvvigionamenti con nuovi rigassificatori e tubi. Inoltre, già prima dell’impegno scozzese di Von Del Lyen di comprare più energia americana di quella che l’America è in grado di vendere, l’Eni aveva già siglato un contratto di lungo termine di acquisto di gas liquefatto statunitense.

Ora, evidentemente per il Governo tutto questo, fatto in nome della sicurezza, non garantisce più la sicurezza. Implicitamente, veniamo a sapere da un ordine del giorno agostano che malgrado ci stiamo svenando sul gas, temiamo di non avere abbastanza energia e dobbiamo richiamare in servizio centrali che tutti i paesi avanzati d’Europa stanno chiudendo o hanno già chiuso (l’ha fatto perfino il Regno Unito, che di carbone ne sa qualcosa).

Se poi aggiungiamo che tra tredici anni non avremo nessuna centrale nucleare (questa è una previsione di Derrick), se l’OdG diventasse legge avremmo legiferato il mantenimento a tempo indeterminato del carbone.

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mercoledì 30 luglio 2025

Riprendiamoci lo spazio (Puntata 682 in onda il 29/7/25)

Questa puntata si può ascoltare qui.

Illustrazione di Paolo Ghelfi

Come sarebbero le nostre città senza automobili? È un tema già toccato in diverse puntate, una dell’aprile 2020 (link sotto) quando osservavo le auto inutilizzate per il covid impolverate parcheggiate sulle strade del mio quartiere, lì inutili a occupare almeno metà della carreggiata disponibile. Sarebbero mai più state usate? In quel clima di incertezza sembrava possibile che ci aspettassero novità radicali, che si potesse approfittare della crisi per liberarci di alcuni ferri vecchi.

Delle cose sono cambiate, ma non – perlomeno in Italia – l’invasione di scatolette metalliche perlopiù ferme in città o in lento movimento a intasarne e inquinarne le strade.

Senza le auto private i trasporti pubblici di superficie avrebbero bisogno di meno mezzi a parità di persone spostate, perché le corse sarebbero più brevi grazie all’assenza del traffico. Camminare o andare in bici sarebbe ancor più piacevole rapido e sicuro. Avremmo un’infinità di spazio in più da usare per attività più intelligenti rispetto a un immenso parcheggio. Io vivo a Roma nel quadrante sud della città e mi sposto spesso nella parte opposta. Coi mezzi ci metto più di un’ora, in bicicletta la metà. Ma se non dovessi schivare le principali arterie automobilistiche impiegherei ancora meno tempo e sarebbe più bello (già ora, malgrado tutto, lo è).

Se anche continueremo a usare un po’ di auto private, con la guida autonoma sarà possibile sfruttare ogni veicolo di più e condividerlo anziché lasciarlo fermo a occupare spazio.

Il capitale e lo spazio allocati in città nelle automobili private (e nel caso di quelle a combustione la loro tecnologia così arcaica) mi sono sempre sembrati così incongrui. Eppure tanto connaturati nelle nostre abitudini e nella nostra economia tanto che proporre di sbarazzarsene sembra una bestemmia.

Non a Giovanni Mori, ingegnere, già portavoce italiano dei Fridays for Future e candidato europarlamentare che sta promuovendo questa e altre innovazioni nell’ambito di un’iniziativa chiamata Italia Impossibile (link sotto). (Si noti l’assonanza con le “Camminate Impossibili” di Derrick in cui ho provato a muovermi a piedi o in bici in zone urbane dove sembra che questa opzione non sia stata nemmeno lontanamente presa in considerazione nel disegno urbanistico).

Sentiamo allora proprio Mori:

https://youtu.be/EJvfsJef8KY?si=GzLgfOuc1eLjoGsv&t=130

Grazie Giovanni Mori.


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venerdì 25 luglio 2025

Dov'è finito il "train manager"? (Puntata 681 in onda il 22/7/25)

Questa puntata si può ascoltare qui.

Illustrazione di Paolo Ghelfi

La volta scorsa grazie a una segnalazione di Manuele Aufiero abbiamo indagato il fatto che un punto vendita Bricocenter di Milano si fosse rifiutato di ritirare per il riciclo una batteria auto esausta contestualmente all’acquisto di una nuova. Ci sembrava strano e quindi abbiamo raggiunto via mail Adriano Aureliano Ciarletti, direttore generale di Bricocenter in Italia, il quale immediatamente ha risposto che quanto successo non è quel che loro prevedono, e che tutti i negozi devono ritirare le batterie usate. Ottima notizia, siamo grati a Ciarletti per questa interazione. Per favore ascoltatori o lettori di Derrick avvisatemi se capitassero altri casi in cui la promessa, diciamo così, non è rispettata, o casi che riguardano negozi di altre ditte..

La questione batterie al piombo non si è esaurita, perché nel punto vendita di un’altra azienda, Bricofer, a Roma in via di Donna Olimpia, mi è stato detto che il ritiro viene fatto solo di batterie effettivamente vendute dal negozio. Che di fatto equivale a negarlo nella generalità dei casi. Sto cercando di mettermi in contatto con Massimo Pulcinelli, amministratore unico e verosimilmente proprietario o comproprietario di Bricofer, figlio se ho capito bene del fondatore. Appena ho notizie ne parleremo.

C’è poi un altro disservizio su cui avevo promesso aggiornamenti, riguardo alle condizioni vessatorie dei biglietti elettronici regionali di Trenitalia che anche per i treni metropolitani permettono l’ingresso solo nello specifico treno acquistato almeno cinque minuti prima dell’orario di partenza, e non nei successivi o precedenti, cosa che impedisce di prendere un treno all’ultimo momento o di prenderne uno in ritardo ma che ci torna comodo (per esempio in caso di ritardi a catena su una linea il biglietto non ci permette di salire sul precedente in ritardo. Cos’è se non un dispetto ai clienti?).

Pochi giorni fa viaggiavo (col biglietto giusto) su un regionale partito e arrivato con più di un’ora di ritardo, e nel gelo dell’aria condizionata io e gli altri seccati passeggeri ci chiedevano dove fosse il cosiddetto “train manager” (Trenitalia si esprime così) che secondo un’ulteriore vessazione dei biglietti regionali deve necessariamente vidimare il biglietto elettronico per dar diritto alla compensazione in caso di grave ritardo. Guarda caso però il train manager non c’era. Come succede spesso, quando ci sono disservizi nei regionali i controllori, o capitreno che siano, si nascondono. Mi sono allora improvvisato rappresentante dei viaggiatori vessati e ho iniziato a bussare nell’unica porta dove il soggetto (mai visto in un’ora e mezza di viaggio) poteva essersi ficcato: la cabina del macchinista.
La train manager a quel punto è uscita, e alla mia domanda di perché fosse scomparsa ha avuto il coraggio di dirmi che si era messa lì dentro proprio per farsi trovare. Ora alle domande da fare al management Trenitalia si aggiunge questa:  perché un biglietto che si può usare in un solo treno e non modificare dopo la sua partenza ha bisogno di una vidimazione per ricevere il pur magro (vedremo quanto) rimborso?

Comunque, volevo riferirvi che anche Giampiero Strisciuglio, amministratore delegato di Trenitalia, e il suo ufficio stampa stanno facendo come la nostra train manager: si sottraggono per ora alle mie richieste di spiegazioni da condividere su Derrick. Speriamo ci siano novità positive in futuro.


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martedì 15 luglio 2025

Riciclo batterie al piombo (Puntata 680 in onda il 15/7/25)

Illustrazione di Paolo Ghelfi
Questa puntata si può ascoltare qui.

Le batterie al litio sono diventate molto popolari. Alimentano anche i veicoli elettrici e l’industria del riciclo si prepara a quando i volumi di quelle esauste diventeranno rilevanti. Ma che ne è stato delle classiche batterie al piombo che abbiamo in ogni auto tradizionale? Nulla: sono sempre lì e – sorpresa – sono ancora anche in gran parte delle auto elettriche moderne per alimentarne i circuiti a bassa tensione. (Curiosità: la Panda Elettra del 1990 usava le batterie al piombo anche per la trazione).

Su queste batterie l’industria del riciclo è matura e profittevole, il che ne rende la dispersione nell’ambiente, ma anche il conferimento coi rifiuti urbani, non solo vietati perché dannosi (il piombo e gli acidi usati come elettroliti sono tossici), ma anche insensati economicamente. Tant’è che oltre al consorzio obbligatorio esiste almeno un’azienda (Rebat) che le ritira su appuntamento e le paga anche (attenzione: non ho provato, mi baso su quanto scrive il sito che metto sul blog di Derrick).

Qualche giorno fa ricevo questo vocale da Manuele Aufiero, ingegnere nucleare e imprenditore milanese nel campo dell’energia che conosco per una collaborazione su un altro tema.

[Vocale di Manuele Aufiero e parte successiva della puntata]

Aufiero poi racconta che il punto vendita si è rifiutato di ritirare la sua vecchia batteria e che il responsabile presente in quel momento lo ha motivato sulla base di una direttiva interna. Io ho provato in un altro punto vendita milanese di Brico, quello in via Corsica, dove l’addetto del reparto ha detto che invece sì le batterie le ritirano, ma non ne avevo una per metterlo alla prova. Aufiero ha fatto un’ulteriore verifica nel punto vendita di via Washington a giorni di distanza e un diverso dipendente gli ha ripetuto che no: hanno ricevuto istruzioni di non ritirare batterie esauste.

Ora, la legge, in Europa e in Italia, prevede l’obbligo di chi le vende di ritirare le batterie al piombo usate e di conferirle correttamente per lo smaltimento. Per questo l’episodio raccontato da Aufiero è rilevante e preoccupante.

Derrick sta cercando di mettersi in contatto con Barbara Casartelli e Adriano Ciarletti [in precedenza avevo scritto erroneamente il nome di un precedente incaricato, mi scuso con entrambi], rispettivamente capa della sostenibilità e direttore generale di Brico Italia, entrambi invitati alla futura puntata con cui chiuderemo spero positivamente il caso. Nel frattempo, ascoltatori e lettori cui sia stato negato il ritiro di batterie al piombo da negozi che le vendono sono invitati a scrivere a derrick.energia@gmail.com.

Per ora oltre a Manuele Aufiero ringrazio per la consulenza alla puntata Silvia Bodoardo, ordinaria di elettrochimica al Politecnico di Torino e già nota a questi microfoni, e Attilio Piattelli, un altro ingegnere nucleare e imprenditore dell’energia, oggi presidente di Coordinamento FREE. Eventuali errori, naturalmente, sono mia responsabilità ed è importante per Derrick riceverne notizia.

Ciarletti ci ha poi risposto. Ne abbiamo parlato in questa puntata.

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martedì 8 luglio 2025

Nomine collegio ARERA 2025 (Puntata 679 in onda l'8/7/25)

Illustrazione di Paolo Ghelfi
Questa puntata si può ascoltare qui.

Scade ad agosto [2025] il collegio dell’ARERA, l’Autorità indipendente su energia, rifiuti, servizio idrico. È un organo della Repubblica il cui collegio è nominato su indicazione del Parlamento, e ha il dovere di essere indipendente dal Governo e dai soggetti che regola o vigila.

Perché è importante questa indipendenza, oltre all’efficacia, di ARERA?

Partiamo da un episodio. A inizio luglio [2025] l’ARERA ha pubblicato uno studio sulla competitività del mercato all’ingrosso dell’elettricità che – in modo a mio avviso fin troppo paludato ma con indubbia rilevanza – afferma l’esistenza di indizi di comportamenti anticompetitivi dei produttori elettrici che potrebbero aver determinato nel 2023 e 2024 un prezzo più alto dell’ordine di grandezza della decina di euro medi (e del dieci per cento del totale). Elettricità Futura, principale associazione dei produttori associata a Confindustria, ha immediatamente reagito con un attacco alla stessa Autorità.

Senza commentare lo stile della reazione, è buon segno se i soggetti regolati o vigilati temono gli interventi dell’Autorità e se il Governo non si sente in grado di influenzarli nell’ambito delle prerogative dell’Autorità stessa.

Per molti motivi. Provo a enunciare solo i primi che mi vengono in mente:

1) Il Governo è azionista di maggioranza di Eni ed Enel, due colossi dell’energia. Questo lo pone in conflitto di interessi tra massimizzazione del dividendo economico e promozione della concorrenza, e quindi dell’economicità dell’energia. È un problema in una democrazia liberale che Eni e il Governo, per esempio, si muovano tipicamente insieme in politica estera, a meno di ipotizzare che quel che è bene per l’Eni lo sua per l’Italia, cosa che si può probabilmente escludere riguardo a qualunque singola azienda e ancor più a una che si occupa di energie fossili mentre il Paese deve raggiungere gli obiettivi di transizione stabiliti nel piano energia-clima.

2) Bollette: sono un oggetto complicato. Un po’ esito di mercati competitivi, un po’ di redistribuzione di partite regolate sui cui s’incanala una quota rilevante di welfare e di politica industriale (due esempi: il bonus energia e gli aiuti ai consumatori energivori). Mentre sulla parte di mercato abbiamo come consumatori l’interesse all’effettiva concorrenza, sulla parte regolata, di natura pubblicistica ma al difuori della legge di Bilancio, serve un organo indipendente che controlli queste partite per evitare che diventino una specie di bilancio-ombra (economicamente rilevantissimo peraltro) gestito dal Governo senza trasparenza.

3) Le infrastrutture. Le reti dell’energia sono un elemento critico di sicurezza e competitività e un settore economicamente sempre più rilevante. Se ne occupano monopolisti regolati locali e nazionali, questi ultimi malgrado il controllo pubblico posseduti prevalentemente da fondi internazionali il cui interesse non è che le reti siano efficienti, ma che vi si investa il più possibile ribaltando in bolletta il più possibile. È compito dell’ARERA trovare il giusto equilibrio tra incentivo agli investimenti necessari ed efficienza, e vigilare affinché gli operatori di sistema non sfruttino le proprie prerogative di concessionari per avere vantaggi in settori attigui ma in concorrenza. Su questo non direi che ARERA abbia sempre brillato fino a ora, ma a maggior ragione non possiamo permetterci niente di meno che collegi forti per limitare investimenti inutili (per esempio sulle nuove infrastrutture gas), rendere efficienti e selettivi quelli sull’elettrificazione e arginare le ambizioni di Snam e Terna di determinare la politica energetica che spetta a Parlamento e Governo.

4) Clima. Se un politico ha il diritto di sparare boiate in materia, e vediamo quanto per alcuni di loro questo sia tristemente il fulcro del marketing elettorale, un’Autorità della Repubblica che si occupa di settori per il clima così rilevanti può e deve vigilare sulla coerenza della politica di questi settori rispetto agli accordi internazionali e agli obiettivi nazionali di transizione e in generale alla tutela dell’ambiente prevista in Costituzione.

Per il nuovo collegio di ARERA servono persone sia competenti sia autorevoli, capaci da un lato di usare con impatto il potere regolatorio in settori così tecnici, dall’altro di resistere quando serve alle lusinghe di operatori e Governi. A maggior ragione per le forze parlamentari di opposizione, in un contesto ormai annoso di ridotta agibilità parlamentare a fronte di Governi-legislatori per decreto, si tratta di una partita fondamentale.

Successivamente alla pubblicazione di questo testo è arrivato il commento di Luca Lo Schiavo, già dirigente ARERA, che ringrazio. Lo riporto anche qui di seguito:

C'è anche un altro motivo importante per assicurare che i componenti del nuovo Collegio abbiano le elevate competenze di settore previste dalla legge 481/95: [...] il confronto con le altre autorità europee in sede Acer [l'autorità di coordinamento UE delle autorità energia] [...]. Il rappresentante di Arera nel BoR di Acer non può balbettare. Ne abbiamo scritto, con Diego Gavagnin (ex dirigente Arera come me) qui: ARERA: a Che Serve l’Indipendenza | l'Astrolabio https://share.google/V7FbL4JpTeIcg1Nd1

martedì 17 giugno 2025

Viaggio in Armenia e Georgia (Puntate 676-8 in onda il 17 e 24/6/2025 e 1/7/2025)

Disegno di Paolo Ghelfi
Paolo Ghelfi e Michele Governatori hanno viaggiato in Armenia e Georgia dal 7 al 16 giugno 2025, anche con uno sguardo alle infrastrutture dell'energia incontrate lungo la strada.

La puntata su Yerevan, Armenia, è ascoltabile qui.

Qui la prima delle due in Georgia (9-11 giugno 2025), tra la capitale Tiblisi e l'estremo Nord dei monti caucasici al confine con la Russia.

Qui la puntata successiva, tra Mzkheta, Ureki sul mar Nero e Kutaisi, con registrazioni fino al 15 giugno 2025.

I minivideo di questo e altri viaggi di Derrick sono qui.

domenica 8 giugno 2025

Trenitalia e lo zen dei biglietti regionali (Puntata 675 in onda il 10/6/25)

Illustrazione di Paolo Ghelfi
Questa puntata si può ascoltare qui.

Immaginiamo di doverci muovere in città coi mezzi pubblici, bus o metro. Abbiamo un biglietto da convalidare, o magari una carta di credito o la app di pagamento sul telefonino, convalidiamo o passiamo la carta e facciamo la nostra corsa.

Immaginiamo ora che il percorso comprenda un treno regionale – recentemente quelli cittadini si sono chiamati anche treni metropolitani ma non mi pare sia più così, la tassonomia dei treni è una materia affascinante e molto cangiante, ricordo ancora per esempio gli espressi con gli scompartimenti con i sedili in finta pelle, le copie di paesaggi italiani in bianco e nero in cornicette d’ottone. Oppure gli “interregionali” che dichiaravano con precisione nel nome di varcare il confine amministrativo ora invece anche loro definiti regionali - ma sto divagando e diventando troppo sentimentale.

Dicevo immaginiamo che il nostro spostamento in città includa un treno regionale. A Roma per esempio sono preziosi perché sopperiscono alle poche linee di metro. Un paio di giorni fa ne ho preso uno a Mandela, una stazione sulla Tiburtina, e nei 45 chilometri circa fino a Roma si è fermato 14 volte: un servizio di prossimità analogo a quello di una metropolitana.

Rispetto a una metropolitana o a un bus urbano, però, il modo in cui funziona il biglietto è completamente diverso. Nei primi nessuno pretende che tu sappia in anticipo quale convoglio prenderai e che compri il biglietto almeno cinque minuti prima, con il biglietto elettronico regionale Trenitalia invece sì: il biglietto è specifico per un solo treno. Puoi cambiarlo dalla app prima dell’orario previsto di partenza, ma se mancano meno di cinque minuti alla partenza prevista non puoi comprare il biglietto, e quindi a maggior ragione se il treno è in ritardo secondo la logica Trenitalia non ci puoi salire. Devi aspettare nella banchina il successivo, così, per dispetto.

Per quale motivo avranno deciso che i treni regionali siano l’unico mezzo di trasporto locale dove improvvisare è vietato?

Fino a un paio di settimane fa ho sempre constatato come regole così vessatorie fossero bilanciate dalla ragionevolezza del personale. Per esempio nella tratta da Roma Trastevere all’aeroporto di Fiumicino, un treno ogni 15 minuti, se il primo treno disponibile non è più acquistabile per ritardo o imminenza ho sempre comprato il biglietto per il successivo prima di salire, spiegandolo al personale di bordo che ha puntualmente constatato la buona fede (visto che ho già pagato per un treno successivo che materialmente non potrei prendere dopo aver già preso il precedente, in nessun modo sto pagando meno del dovuto) e non ha mai obiettato.

Questo è stato vero fino a un treno dall’aeroporto di Cagliari Elmas a Cagliari. Biglietto da 1,2 euro mi pare, corro sul primo convoglio disponibile col biglietto già fatto sul primo treno acquistabile, cioè il successivo, e il capotreno Nicola O. mi commina una multa di cinquanta euro e rotti, oltre all’acquisto del nuovo biglietto. Gli chiedo se non sia una regola stupida quella dei cinque minuti. Ammette che lo è, e accetta perfino di verbalizzarlo, giuro, ce l’ho scritto, ma non di comportarsi come tutti i suoi colleghi fino a ora in modo più ragionevole della regola a suo dire stupida.

Mi prendo la briga di fare pazientemente un reclamo ponendo tutte le considerazioni fatte qui, e invece di rispondere al quesito (perché fate regole vessatorie senza senso?) Trenitalia mi ripete la regola.

Ho provato a parlarne scrivendo a Gianpiero Strisciuglio, recentemente nominato amministratore delegato di Trenitalia, ma non mi ha risposto. Né lo ha fatto l’ufficio stampa. Ma io non mollo l’osso, cercherò ancora di contattare Strisciuglio per chiedergli cosa ci guadagna Trenitalia a rendere i biglietti regionali così farraginosi e multare viaggiatori rei di comprare il primo biglietto disponibile per un treno che parte entro cinque minuti. Sarà che Trenitalia vuole instillare lo zen della pianificazione e della lentezza a normali pendolari stressati? Ing. Strisciuglio, venga a raccontarcelo, è il benvenuto a Derrick.

martedì 27 maggio 2025

Il vento giusto (Puntate 673-4 in onda il 27/5 e 3/6/2025)

Illustrazioni di Paolo Ghelfi
Questo testo è apparso in una forma simile su QualEnergia, che ringrazio.

Il testo si può ascoltare qui (prima parte) e qui (seconda).

Il 18 agosto 2021, con 43 minuti di ritardo rispetto ai piani di volo, è atterrato al Pinal Airpark un Airbus A330 registrato in Canada come C-GITS.

Non si sarebbe più alzato da quella pista. Pinal Airpark è un deposito nel sud dell’Arizona per aerei destinati allo smantellamento. Grazie all’aria secca del deserto, i metalli dei velivoli parcheggiati si degradano più lentamente. E perché il sole non disintegri le plastiche e gomme degli interni, alcuni parabrezza vengono oscurati e i portelli di cabine e stive lasciati socchiusi per ventilarle un po’. La pioggia non è un problema al Pinal Airpark.

L’estate successiva, con mia figlia, nei pressi del forte Santa Catarina abbiamo atteso a lungo il traghetto che dall’isola Terceira, nell’arcipelago portoghese delle Azzorre, ci doveva portare all’isola Graciosa. Era in ritardo a causa del vento impietoso e del mare grosso.

Appena a bordo mi sono sistemato in una poltrona e ho aperto il laptop in vista delle molte ore di navigazione, ma dopo due minuti l’avevo già richiuso in preda alla nausea. Sono arrivato a Graciosa distrutto malgrado il soccorso di una coppia di attempati lusitani che ci ha regalato due compresse per il mal di mare.

Vent’anni prima del suo ultimo volo, il C-GITS era stato battezzato “Azores Glider” (aliante delle Azzorre) dopo le riparazioni in seguito a un atterraggio molto duro a Terceira. Aveva subito danni per la violenza del contatto con la pista e letteralmente grattugiato via le gomme e perfino i cerchioni dei carrelli posteriori. Era arrivato molto più veloce del normale, di punta, senza gli ipersostentatori che normalmente permettono di rallentare prima del touch down, senza gli spoiler che aumentano l’aderenza alla pista, senza il sistema antibloccaggio dei freni. Senza motori. Planando fino all’impatto in un silenzio che dev’essere apparso surreale a chi fosse alle prime luci del giorno d’estate sulla pista di Lajes, Terceira, Azzorre.

I cerchioni ormai privi di pneumatici hanno tagliato per un lungo tratto l’asfalto come avrebbe fatto un apriscatole.

Ai comandi c’era un canadese del Québec con discutibili capelli lunghi e un passato da contrabbandiere di marjuana con aerei da turismo che gli era costato negli anni Ottanta sedici mesi di carcere negli Stati Uniti. Il suo nome era Robert Piché.

Piché aveva appena pilotato per 120 km a motori spenti un aereo intercontinentale con 306 persone a bordo. Un record mai battuto su un aereo del genere, e con manovre non previste nemmeno in simulatore. Il carburante, disperso da un tubo sbagliato montato in uno dei motori, si era esaurito all’alba sopra l’oceano Atlantico. A bordo si erano spente tutte le luci e tutte le apparecchiature elettriche tranne gli strumenti minimi per la navigazione e il controllo dell’aereo. Gli assistenti di volo avevano preparato i passeggeri a un ammaraggio senza dire quel che molti intuivano: sarebbe stato potenzialmente letale.

Per 20 minuti i passeggeri hanno assaporato la fine.


La terraferma nel porto di Praia a Graciosa è stata una liberazione. Era ormai tardo pomeriggio, il vento incalzava. Era così bello avere i piedi sul suolo che anziché prendere un taxi ci siamo inerpicati per chilometri sulla strada alta sul mare verso il capoluogo Santa Cruz, tra costruzioni rurali e un paesaggio curiosamente simile a torbiere scozzesi o irlandesi. Il caldo dell’estate continentale sembrava lontanissimo, eppure proprio in quei giorni gl’incendi divampavano nei dintorni di Lisbona, mentre in Italia il governo Draghi si preparava a soccombere alle successive elezioni anticipate.

Passato un valico e percorso un lungo rettilineo in discesa, finalmente si vedevano da lontano le prime case di Santa Cruz, mentre alla nostra destra sfilava una rada zona industriale in cui si notava un capannone più grosso degli altri con una scritta: Central da baterias, Graciolica. Poco dietro, all’interno dello stesso recinto, un parco fotovoltaico.

L’Azores Glider sarebbe potuto arrivare con un motore funzionante da Toronto all’arcipelago portoghese malgrado la perdita di carburante, se solo Piché e il suo giovane copilota avessero seguito le procedure corrette dopo che gli strumenti di bordo molto prima dell’alba li avevano avvertiti del consumo anomalo. Avrebbero potuto spegnere il motore con la perdita e far passare il carburante residuo nell’ala senza perdita. Invece hanno fatto il contrario: per bilanciare i pesi hanno spinto il carburante verso il buco, fino a trovarsi completamente a secco sopra l’oceano.

Senza la spinta dei motori si è fermata anche la pressurizzazione della cabina. Sono scese le maschere per l’ossigeno mentre Piché iniziava la discesa in planata. L’unica fornitura elettrica residua del bestione intercontinentale era affidata a un piccolo generatore eolico d’emergenza sotto alla carlinga, sceso automaticamente per forza di gravità.

La mattina dopo l’arrivo a Santa Cruz mia figlia e io abbiamo preso due bici a noleggio per esplorare l’isola. Un’ora più tardi, alla fine di un ripidissimo strappo di salita, eravamo sul punto più alto di Graciosa tra aerogeneratori in funzione. Un sentiero faceva il periplo di un antico cratere vulcanico. Ma il vulcano attivo dell’isola è la caldeira do Enxofre, più a Ovest, dove in una grande grotta echeggiano bolle di fanghi sulfurei.

Le indagini dopo l’incidente AirTransat 236 hanno acclarato che il potenziale disastro è stato causato prima da un errore di manutenzione e poi dalla reazione sbagliata dei piloti alla perdita di carburante. Questo non ha impedito a Robert Piché di essere da allora considerato un eroe, di ricevere un premio dall’associazione internazionale dei piloti e di iniziare una carriera parallela di conferenziere. Il giorno del suo ultimo volo prima della pensione ancora i passeggeri gli chiedevano selfie e autografi. Che cosa strana la vita, ha detto in un’intervista: un giorno finisci in galera, un altro temi di morire e dopo un’ora ti chiamano eroe. Su di lui, oltre a decine di video di ricostruzione dell’incidente più o meno accurati, è stato prodotto un film biografico (Piché entre ciel et terre, disponibile su YouTube nella versione originale in québécois).

Nel 2018 la società energetica Graciolica ha ordinato a Wartzila e altre aziende tecnologiche le macchine per creare a Graciosa un sistema di generazione elettrica e batterie in grado di funzionare al 100% con fonti rinnovabili.

All’inizio del 2020 la nuova configurazione ha iniziato a ridurre le ore di attivazione dei vecchi generatori diesel. Nel novembre dello stesso anno l’intera isola ha funzionato per 150 ore consecutive al 100% con eolico e fotovoltaico.

Chissà se l’Azores Glider è ancora intero, a parte i motori e gli strumenti più preziosi che saranno stati subito cannibalizzati. Le sue capacità di volare a vela come fosse un aliante di pochi quintali, testate per la prima volta da Piché per salvare la vita sua e dei passeggeri, hanno contribuito al prestigio di Airbus, oggi di gran lunga il più grande produttore di aerei civili al mondo e un caso di successo di un’azienda globale pianificata e incubata dall’Unione Europea. La sua divisione ZeroE dal 2020 sviluppa soluzioni per aerei a zero emissioni dannose con celle a combustibile e motori elettrici, o con turbine direttamente alimentate a idrogeno.

Il villaggio di Santa Cruz a Graciosa è fresco anche a luglio, spazzato dal vento dell’Atlantico. Non è il posto giusto per imparare il portoghese a causa del dialetto che si mangia ancora più vocali che nel continente. Trovare una bici senza la catena corrosa dalla salsedine è difficile. Nel piccolo porto di pescatori hanno tirato su un muro bianco in alcuni punti, credo per difendersi dalle mareggiate che il nuovo clima sta rendendo più aggressive. Ma a Graciosa, riguardo al clima, non si limitano all’adattamento.