“L’italiano non è l’italiano: è il ragionare”, diceva il professore al suo ex allievo diventato magistrato in un romanzo, Una Storia Semplice, di Leonardo Sciascia. Una sentenza che oggi risuona come un epitaffio per un paese che ha smarrito non tanto la grammatica, quanto la capacità di pensare. E, forse, anche la capacità di rimediare a questa situazione.
[…] A fine ottobre, Terna – il gestore della rete elettrica nazionale […] – ha recapitato ai propri manager […] una email dalla responsabile “Academy” che annunciava l’obbligo di recarsi a Roma per un test di italiano. Attenzione, non operai stranieri per cui i test linguistici sono previsti per legge. […]. Poi, una volta uscita la notizia, il dietrofront. L’imbarazzo. Il silenzio.
Questo è l’esordio
di un articolo del 3 novembre 2025 di Marco di Salvo, autore per la testata
“Gli stati generali” (link sotto).
Il fatto che Sciascia, e immagino anche qualche linguista
prima di lui, avesse già espresso il concetto non rende meno brillante il modo
in cui lo elabora uno scrittore contemporaneo, Matteo Galiazzo, nel suo Cargo
(Einaudi), che scrive:
Ogni tanto mi ritrovo a chiedermi […] quanta importanza abbia la grammatica all'interno delle attività del nostro cervello. E mi chiedo anche quanta della filosofia e della logica di tutti i tempi sia dipesa semplicemente dalle costruzioni grammaticali necessarie a sostenere tali pensieri […]. Cioè, quanta dell'analisi della realtà effettuata dalla filosofia sia veramente analisi della realtà e quanta semplicemente analisi grammaticale delle frasi necessarie a descrivere tale realtà.
Qui Galiazzo fa un passaggio ulteriore: suggerisce che la
lingua possa essere anche una costrizione dei ragionamenti, o almeno della loro
struttura.
Entrambi gli autori mi sembrano comunque sulla stessa linea
su questo: c’è un legame tra la padronanza della lingua e quella dei pensieri.
Io, che negli ultimi anni mi occupo un po’ di insegnamento,
più modestamente noto che se un allievo non sa usare, o evita di usare la
lingua è difficile valutare i suoi progressi. Gli esami a scuola e
all’università si basano su conversazioni, o sull’accoppiata di comprensione e
scrittura di testi, come con la tesi di laurea. Finché non avremo uno
spinotto-dati da attaccare a una porta nel cervello, sarà impossibile fare
altrimenti.
Le tesi di laurea nell’era dell’intelligenza artificiale
diventano a volte il frustrante continuo tentativo del docente di capire se
l’allievo sta effettivamente ragionando dietro alle cose che scrive, e se le ha
verificate con fonti attendibili. Nei casi peggiori anche le richieste del
docente di approfondire o sfidare qualche affermazione vengono gestite con un run
di riformulazione software. Con il prof. Fulvio Fontini, con cui collaboro a
Padova e che abbiamo già ospitato a questi microfoni, per prevenire il problema
recentemente abbiamo imposto che un elaborato fosse scritto con l’intelligenza
artificiale, ma redigendo in parallelo un diario delle interazioni con il
sistema, per responsabilizzare gli studenti riguardo all’uso dello strumento.
Per adesso, io credo di avere un certo occhio nel
riconoscere testi “scritti a macchina” almeno da parte dei sistemi meno
specializzati. Tendono a essere ripetitivi, piani, anziché strutturati, usano
spesso formule enfatiche stereotipate, traggono conclusioni tipiche del senso
comune anziché con caratteri di originalità foss’anche solo nella formulazione.
Quando lavoravo in azienda avevo sviluppato una mia modalità
di test di assunzione. Tra le prove c’era il dettato (sic) di italiano. Era un
testo di poche righe con una serie di parole-trappola in cui l’ortografia, pur
non sentendosi alla lettura, segnala il senso logico nella frase. Per esempio
il “fa” di “mi fa male la testa” si scrive in modo diverso da quello di “fa’
vedere dove sei”.
Ci credete?: il dettato si dimostrò tra le prove più
selettive tra i laureati che esaminavamo, quasi sempre già preselezionati sulla
base del voto di laurea. Chi l’ha superato a pieni voti, guarda caso, è poi
decollato in brillanti carriere. Alcuni ancora oggi ogni tanto li disturbo per
farmi aiutare a capire qualcosa.
Chiudiamo da dove eravamo partiti con Di Salvo: la polemica
contro la “Academy” di Terna, a cui va invece il mio plauso per averci almeno provato,
probabilmente l’ha fatta partire qualche dirigente che temeva il test non
perché fosse irrispettoso, ma per paura di non passarlo. In una puntata del
podcast “Ecoglossia”, scritto da me con Roberto Carvelli e Federico Platania,
insieme ad Andrea Terenzi raccontiamo di come in un’altra azienda dell’energia,
l’Eni, fu lo stesso amministratore delegato, Vittorio Mincato, a diffondere consigli
di scrittura in un vademecum che abbiamo recuperato e che trent’anni dopo è
ancora utilissimo.
Link
- "L'italiano in blackout" di Marco Di Salvo: https://www.glistatigenerali.com/rubriche/litaliano-in-blackout/
- La puntata di Ecoglossia dedicata al vademecu di Vittorio Mincato sulla scrittura all'Eni: https://youtu.be/aDN9umCcK5Q
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