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domenica 3 aprile 2016

Referendum "trivelle": cosa votare? - D271

Votare sì o no al referendum impropriamente detto "trivelle" del 17 aprile 2016?

Farsi un’idea non è facile, perché le risorse informative che si trovano sono tipicamente a tesi. Anche quelle con dati affidabili. Ma uno che cerca di farsi un’idea tende a diffidare di chi vuole convincerlo ancor prima di informarlo. Io per distinguermi mi limiterò a invitare ad andare a votare, e a fornire alcune informazioni e considerazioni che mi sembrano rilevanti per decidere se sì o no.


Le concessioni all'attività di sfruttamento degli idrocarburi

In Italia le concessioni per estrarre idrocarburi le dà un’unità del ministero per lo Sviluppo Economico (ne abbiamo già parlato per esempio qui). La norma principale che le regola è del ’91 ed è stata modificata varie volte, tra cui con il DL 83/12, lo “Sbloccaitalia” del 2014 e la legge di Stabilità 2016 (al comma 239).

Le concessioni hanno di norma una durata di 30 anni prorogabile più volte attraverso apposita istanza, e prevedono impegni anche di ripristino ambientale a fine concessione stabiliti dal MiSE caso per caso, all'interno di norme generali tra cui propri decreti direttoriali. Stando a quanto Derrick ha trovato, le norme non prevedono tassativamente bonifiche in tempi perentori.

Recentemente il divieto di nuove concessioni in mare in aree protette è stato esteso a tutta la zona entro le 12 miglia dalla costa e dalle aree protette, con l'eccezione delle concessioni in corso. Questa eccezione, per com'è scritta (in modo purtroppo sibillino) nella Stabilità 2016, introduce anche, secondo l'Ufficio centrale del referendum, una proroga per tutta la vita produttiva delle concessioni a cui si applica. Proprio le parole che introducono tale proroga sono oggetto del quesito abrogativo.

Vari altri quesiti cosiddetti sulle trivelle erano stati presentati prima della legge di Stabilità, che li ha resi secondo l’ufficio centrale del Referendum e la Corte Costituzionale superati, a differenza di quello per cui si vota il 17 aprile.


Cosa succede se vince il sì

Secondo l'Ufficio centrale del referendum la vittoria del sì comporterebbe due effetti:
  1. la cancellazione dell’esenzione per le concessioni già rilasciate dal divieto di attività entro le 12 miglia (con effetto alla scadenza)
  2. la cancellazione della proroga automatica delle concessioni.

Dunque se passa il sì i giacimenti in mare entro le 12 miglia potranno essere coltivati solo fino alla scadenza della concessione in corso.

E poi?
La piattaforma "Luna B", a 8 Km dalla costa di Crotone,
collegata a 12 dei pozzi del giacimento con la maggiore
produzione di gas tra quelli che non potrebbero

continuare la produzione a fine licenza (in questo
caso 2017) se vince il sì. (Copyright Ionica Gas)
  • Si lascerebbero il gas (in gran parte dei casi) e il petrolio dei giacimenti sotto costa inutilizzati a fine concessioni? Sì.
  • È irrazionale bloccare la produzione di giacimenti già sviluppati? Sì, decisamente. A peggiorare le cose c'è che, una volta chiusi i pozzi attivi a fine concessione, lo sfruttamento delle risorse residue del giacimento richiede nuovi pozzi (e quindi: trivelle).
  • Si tratta di tanto gas? No: una volta scadute tutte le concessioni sotto costa perderemmo una produzione che oggi vale meno del 3% del fabbisogno nazionale (e che a fine licenze sarà ulteriormente scemata).
  • Il sì aumenterebbe le navi per far arrivare da fuori il gas e il petrolio? Verosimilmente no, checché ne dicano in molti: il gas è oggi di norma più economico importarlo via metanodotti, dove c’è un sacco di capacità disponibile. Riguardo al petrolio e ai suoi prodotti, non solo l’importazione ma anche l’esportazione e i transiti di semilavorati alimentano il traffico via nave. Per esempio il progetto petrolifero lucano di Tempa Rossa prevede elevato traffico navale in uscita dai depositi portuali di Taranto (dove arriverebbe via oleodotto).
  • Importare di più ci farebbe pagare un prezzo più alto per gas e petrolio? No, salvo la componente del costo di trasporto. Il prezzo del gas e del petrolio di un medesimo tipo in sé sono quelli dei mercati internazionali e non dipendono dalla loro origine. Ci sarebbe però un effetto negativo sulla bilancia commerciale nazionale (e quindi su quella che impropriamente molti chiamano "bolletta energetica" nazionale. Che però non corrisponde alla spesa per l'energia dei consumatori nazionali, visto che quest'ultima include anche la spesa per l'energia non importata).


Inconvenienti della norma così com'è e considerazioni di strategia energetica

  • Il prolungamento "a vita" delle concessioni previsto con la Stabilità è preoccupante? Sì, perché potrebbe ledere il principio generale della determinatezza e della congruità della loro durata (articolo 4 della direttiva UE 22/1994) e ridurre le possibilità del Governo di porre nuove condizioni ai concessionari al momento dei rinnovi, e di valutare l'opportunità stessa dei rinnovi.
  • In generale, ha senso in termini di patrimonio nazionale accelerare l’estrazione di idrocarburi? Ai prezzi molto bassi attuali no. Probabile che queste stesse risorse, che finché sono sotto terra sono un patrimonio pubblico, varranno di più in futuro. Comprese le royalty, che in Italia già sono piuttosto basse in termini di aliquota e il cui gettito è proporzionale al prezzo dell’idrocarburo. (È irrazionale che il bilancio dello Stato non includa un vero stato patrimoniale delle risorse ambientali da approvare con le sue variazioni ogni anno dal Parlamento con la legge di bilancio).

E ancora più in generale: ci conviene puntare a uno sviluppo basato su petrolio e gas? In Derrick ne abbiamo parlato varie volte.
Se la risposta è no, come io credo, non è però automatico che convenga votare sì a questo quesito. E quindi?


Una possibile conclusione

Credo che una ragione solida per il sì sia contrastare la durata "a vita" delle concessioni (punto 1 sopra, peraltro controverso). Credo anche che una vittoria del sì sarebbe compatibile con una successiva modifica alle norme che permetta l’estrazione delle risorse dai giacimenti già sviluppati. Cioè che riqualifichi l'eccezione al divieto delle 12 miglia ormai consolidato, ma in modo più restrittivo, con maggiori tutele, tempi certi per le bonifiche e non certo concessioni ad libitum, in modo simile a come già era nel DL 83/2012 (link sopra).


Altri riferimenti (oltre ai link sul testo)

Anagrafe di concessioni, giacimenti, piattaforme e pozzi di petrolio e gas in Italia (UNMIG - Ministero dello Sviluppo Economico): http://unmig.sviluppoeconomico.gov.it/unmig/pozzi/pozzi.asp

Dati di produzione oil e gas off shore entro le dodici miglia (di Dario Faccini per Aspo): http://aspoitalia.wordpress.com/2016/03/07/le-bufale-sul-referendum-del-17-aprile/

Sentenza 17/2016 della Corte Costituzionale che sancisce l’ammissibilità del quesito come riformulato dall’Ufficio centrale per il Referendum della Corte di Cassazione:
http://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2016&numero=17

martedì 10 settembre 2013

D172 – Il punto sullo shale gas - Parte 2

Seconda puntata di un ciclo dedicato agli idrocarburi non convenzionali e in particolare allo shale gas (gas di scisti).

Ripartiamo, approfondendo, da dov'eravamo rimasti l'ultima volta. I dati dell'agenzia statunitense per le statistiche sull'energia indicano una quadruplicazione delle riserve certe USA di shale gas tra il 2007 e il 2010, con un livello a fine 2010 già di quasi 3000 miliardi di metri cubi, pari a oltre 40 anni di consumi italiani attuali. E anche la produzione è aumentata tanto da deprimere il prezzo spot a inizio 2012 sotto i 7 centesimi di dollaro al metro cubo (recentemente risalito fino a raddoppiare, ma ancora molto basso rispetto agli anni precedenti e pari a solo un terzo del prezzo italiano nel frattempo quasi allineatosi a quello centroeuropeo).

Da un lato quindi gli USA, che secondo l'International Energy Agency di Parigi hanno un futuro di autosufficienza petrolifera, potrebbero azzerare o invertire anche il proprio import di gas, dall'altro però il crollo così violento del prezzo sta portando a una riduzione pesante dell'investimento in estrazione da parte di aziende come BHP e Shell, come riporta recentemente tra gli altri Bloomberg.

Questo rallentamento negli investimenti secondo i più critici potrebbe essere l'inizio dello scoppio di una bolla: la bolla della filiera della prospezione ed estrazione dello shale gas. Questo accadrebbe se gli investimenti fatti fin qui si rivelassero di colpo non sostenibili in termini di ritorno per producibilità dei giacimenti e prezzo del prodotto. Va in direzione di questa tesi un lavoro dello scorso febbraio di David Hughes del Post Carbon Institute, che afferma che il declino di produzione più veloce del previsto dei giacimenti non convenzionali americani, e la veloce necessità di metterne in produzione degli altri, rendono più alti del previsto i costi fissi per gl'idrocarburi non convenzionali.

Ma qui siamo alle solite: se gli investimenti si fermano, la produzione cala e il prezzo torna in fretta su livelli più sostenibili in termini di ritorno degli investimenti. Detto diversamente: le riserve dipendono dagli investimenti in prospezione ed estrazione, che a loro volta dipendono dal livello e dalla stabilità del prezzo degli idrocarburi. Se il prezzo del gas scende molto, è normale che crollino temporaneamente gli investimenti. In generale, delle variabili macroeconomiche, gli investimenti sono una delle più volatili.
Va in questa direzione, di criticismo alla teoria del picco, per esempio David Blackmon nel blog di Forbes.

Per quanto mi riguarda, mi pare che la contrapposizione tra picchisti e non picchisti sia sterile in termini di conseguenze di politica energetica. Nel senso che le conclusioni a cui arrivano i picchisti (in primis la necessità di abbandonare gli idrocarburi) restano corrette anche se il picco non c'è ancora. Perché gli idrocarburi, non rinnovabili, diventeranno sempre più rari e quindi relativamente costosi da estrarre, oltre che costosi per l'ambiente in termini di danni e di costi di moderazione degli effetti negativi. Quindi affrancarsi il prima possibile dai combustibili fossili è meglio.

La prossima volta ripartiamo dal boom americano del gas di scisti e dagli scambi commerciali di gas tra USA e resto del mondo.

Ringrazio Luca Pardi di Aspo Italia per alcuni dei riferimenti.

martedì 3 settembre 2013

D171 - Il punto (per non addetti) sul boom dello shale gas - 1

Torno dopo la pausa di agosto, e come prima cosa ricordo Dino Marafioti, recentemente scomparso, che centinaia di volte ha introdotto Derrick in versione radiofonica su Radio Radicale il martedì mattina.

Inizia oggi un piccolo ciclo dedicato agli idrocarburi non convenzionali e in particolare allo shale gas (gas di scisti).
Tema non certo nuovo per chi segue Derrick, ma che voglio riprendere alla luce tra le altre cose della ricerca che ho fatto per la redazione di un articolo su Toscana Energia Box, la rivista di Toscana Energia, e di alcuni scambi con Luca Pardi di Aspo Italia, che ringrazio.

Negli USA il boom dello shale gas ha ormai raggiunto anche l'immaginario dei non addetti, tanto che lo scorso maggio era in programmazione a New York un musical critico, intitolato Marcellus Shale dal nome di una vastissima riserva di idrocarburo di scisti nella zona del New England ben visibile in questa mappa.

L'abusato acronimo NIMBY ("non nel cortile dietro casa mia", in inglese) per simboleggiare l'avversione a insediamenti industriali in questo caso ha una rilevanza quasi letterale, visto che negli Stati Uniti ci sono casi di pozzi di idrocarburi shale realizzati molto vicino a insediamenti abitati, anche perché per sfruttare queste risorse serve un numero maggiore di pozzi rispetto a quanto occorra per gli idrocarburi convenzionali, e ciò è più compatibile con la conformazione geografica e con il diritto degli Stati Uniti che con quelli europei. Negli USA infatti vaste aree superficiali possono essere utilizzate dai proprietari dei terreni (o da chi ne abbia acquistato da loro il diritto) che hanno anche la facoltà di forarli, diversamente da ciò che avviene di norma in Europa.

Perché estrarre idrocarburi non convenzionali richiede più pozzi? Perché il gas o l'olio si trovano intrappolati in rocce scarsamente permeabili e non porose come invece nei giacimenti convenzionali. Una conseguenza è che, per usare le parole dell’esperto Massimo Nicolazzi, nel gas non convenzionale “ogni pozzo è un piccolo giacimento a sé”. Quindi i tanti fori servono per andarsi a prendere direttamente tutto l'idrocarburo, che non arriva per pressione da altre zone della riserva.

Altra caratteristica distintiva dello sfruttamento degli idrocarburi di scisti è la necessità di frantumare le rocce contenenti l’idrocarburo al fine di liberarlo. Questa tecnica, detta fracking, utilizza un’azione idromeccanica con liquidi ad altissima pressione, che una volta recuperati e filtrati restituiscono il petrolio o il gas.

L'esistenza di scisti ricchi di idrocarburi in molte aree del mondo non è una scoperta recente. La novità degli ultimi anni però è che le tecniche di fracking, introdotte per la prima volta negli USA negli anni Quaranta, si sono sviluppate su larga scala a costi più competitivi e con aggiornamenti tecnici, come la capacità di perforare più facilmente in orizzontale.
Il termine "rivoluzione" mi sembra giustificato se non altro per gli effetti di mercato globali che sta comportando.

La prossima volta ne vedremo i dettagli, ma una possibile sintesi è che nel 2012 più di un terzo del gas estratto negli Stati Uniti era shale, contro il 2% nel 2000.

Le conseguenze sono state il crollo del prezzo locale fino a un minimo nel 2012, e la riduzione costante delle importazioni USA con effetti a cascata sul mercato dei combustibili, incluso il mercato del carbone, diventato più economico e più utilizzato in Europa, come conseguenza dell'essere stato spiazzato dal gas in America.

(Curioso, no?, che il continente paladino della lotta ai cambiamenti climatici consumi il carbone che gli USA non vogliono più).

martedì 2 aprile 2013

D155 - La strategia energetica nazionale è decreto - parte 3


Terza puntata sulla Strategia Energetica Nazionale, per semplicità SEN, emanata per decreto del Governo quasi un mese fa dopo una consultazione pubblica, e sulle modifiche rispetto alla sua bozza iniziale.

Con la SEN, per ottenere sostenibilità ambientale, sicurezza degli approvvigionamenti, riduzione della bolletta energetica e crescita economica, i ministeri dello Svilupo Economico e dell'Ambiente propongono una serie di linee guida integrate dell'energia, di cui una settimana fa all'apertura del master SAFE a Roma il sottosegretario Claudio De Vincenti ha rivendicato con passione il valore e l'importanza. È in effetti uno sforzo storico, assente in questa forma da parte dei governi precedenti che pure l'avevano continuamente promesso. Sforzo che però non ha avuto sanzione parlamentare e che quindi resta un atto di indirizzo non cogente, per quanto utile.

Oggi della SEN vediamo il capitolo sull'industria degli idrocarburi.

Il documento descrive la situazione di grande eccesso di capacità produttiva di raffinazione che riguarda l'Italia e altri paesi OCSE, che stanno sperimentando un calo di uso di carburanti per il trasporto su gomma, che si aggiunge in Europa all'impegno a sviluppare combustibili di origine non petrolifera. In Italia, aggiunge Derrick, stiamo vedendo cali nei consumi di combustibili petroliferi dell'ordine dell'8% rispetto a un anno fa, mentre il 2012 si era chiuso con un calo dello stesso ordine di grandezza rispetto all'anno prima.
In questo contesto il Governo auspica da un lato una ristrutturazione del settore raffinazione – con investimenti che temo possano ipotizzarsi pubblici – per una transizione a tecnologie più competitive per le stesse produzioni, dall'altro l'istituzione di un marchio di qualità ambientale per i prodotti raffinati italiani. Soluzioni di contenimento, a cui manca mi pare il coraggio di parlare di necessità di massicce riconversioni, in un settore che è abbastanza impensabile (e nemmeno auspicabile) che possa avere un revival futuro in Italia.

E andando indietro nella filiera del petrolio veniamo a uno dei punti più controversi della SEN: lo sviluppo della produzione di idrocarburi nazionali. Il Governo propone di più o meno raddoppiare la produzione italiana di gas e pertrolio, e dice che è fattibile farlo riducendo il numero di pozzi e quindi di suolo occupato.
Nello stesso tempo, ma qui senza dare spiegazioni, la SEN chiude la porta allo shale gas, cioè alle riserve di gas naturale non convenzionali che hanno rivoluzionato il mercato americano e il cui possibile sfruttamento in Europa è invece molto discusso soprattutto per ragioni ambientali.
La maggiore estrazione di gas e petrolio convenzionali italiani (i cui giacimenti si è invece smesso anche di cercare, scrive il Governo) potrebbe "mobilitare investimenti per circa 15 miliardi di euro coinvolgendo circa 25.000 posti di lavoro, e consentire un risparmio sulla fattura energetica di circa 5 miliardi di euro l’anno per la riduzione di importazioni di combustibili fossili".

Vi soddisfa un'analisi economica del genere? A me no. Perché dà per scontato che ridurre l'import sia di per sé positivo. Il che dal punto di vista del welfare economico è invece un'affermazione apodittica. Infatti, se è del consumatore che ci preoccupiamo, allora importare meno conviene se i costi di approvvigionamento interno alternativi sono più bassi rispetto a quelli dell'import, cosa di cui non si dà evidenza nell'analisi, e che anzi è piuttosto improbabile.
Oppure il discorso è diverso. È un discorso di autarchia energetica e protezione delle imprese nazionali. E la confusione tra i due piani (interessi dei consumatori da un lato e sviluppo, quando non protezione, delle imprese nazionali dall'altro) è purtroppo diffusa in questa strategia come lo è quasi sempre in ciò che bolle sotto a quel coperchio di cui Derrick ha imparato a diffidare. Quello che viene chiamato "politica industriale".

Tornando all'energia, sono molte le critiche di natura più ecologica delle associazioni ambientaliste e di Aspo Italia al rilancio dell'upstream petrolifero italiano previsto nella SEN, e di cui già Derrick dava conto mesi fa in fase di consultazione della bozza di Strategia, e di sul blog troverete i riferimenti.

Meno interessante, a mio parere, l'attacco alla legittimità di questo atto di indirizzo del Governo (per esempio questo), visto che, come dicevo all'inizio, lo stesso Governo non mi sembra attribuisca alla SEN alcuna cogenza se non il valore di analisi che il documento apporta in eredità ai futuri esecutivi.

Martedì prossimo continua su Derrick l'analisi della Strategia Energetica Nazionale.