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domenica 18 luglio 2021

Infrastrutture a go-go (Puntata 492 in onda il 20/7/21 e in replica il 17/8/21)

Spiaggia di marmo a Thassos
(Copyright Derrick)
I consumi di energia, malgrado il rimbalzo soprattutto nel gas nei mesi post Covid, sono in Italia pressoché stagnanti da anni, ma non lo sono di certo le infrastrutture del settore, su cui gli investimenti non si sono mai fermati in era recente e sembrano ora, anche per il PNRR, sull’orlo di una nuova ondata. Parliamo anche di reti. Nel gas nell’ultimo decennio si sono costruiti in Italia due nuovi (e gli unici grandi) porti di attracco di navi metaniere, stoccaggi, metanodotti, ed è anche proposta la metanizzazione della Sardegna attraverso un sistema di ricezione di gas liquido via nave e sua distribuzione con una rete di metanodotti che sostituirebbe quella molto parziale già esistente di distribuzione di GPL.

Quest'ultima è un'infrastruttura che visti i bassi consumi sardi non potrà che essere un bagno di sangue economico per chi ne usufruirà, se la pagheranno i consumatori locali, o per tutti gli utenti dell'energia o i contribuenti, se i costi verranno socializzati. E in generale costruire ex novo una rete gas insulare mentre si va verso la decarbonizzazione, cioè verso la generazione elettrica rinnovabile, lascia molto perplessi, e ha avuto gioco facile l’amministratore dell’Enel Starace nel dire che non ha senso farlo, a maggior ragione visto che Terna – il gestore della rete elettrica – ha appena riproposto di portare in Sardegna un cavo sottomarino da 1000 MW dalla costa tirrenica campana giù fino a quella siciliana del Nord, per poi staccarsi e raggiungere l'isola a Est di Cagliari.

Come dire: nelle reti energetiche si investe senza badare troppo a spese, in una cosa e nel suo contrario. Con soddisfazione di molti, visto che gl’investimenti sono remunerati lautamente (cioè con un ritorno predefinito molto soddisfacente per un’attività quasi senza rischi) nelle bollette energetiche, andando a remunerare gli azionisti di Snam e Terna ma anche le tante aziende coinvolte nella costruzione di cavi e tubi e nella loro posa.

Una sbornia di infrastrutture, utili sì ma forse con qualche rischio di ridondanza e soprattutto di costi fuori controllo in assenza di analisi costi/benefici accurate, e su cui chiedono di vederci meglio (come hanno scritto il 12 luglio 2021 Quotidiano Energia e un livido ma divertente Mauro Pili sull’Unione Sarda) il tavolo della domanda energia di Confindustria ma perfino associazioni di fornitori come AIGET e Energia Libera. Fornitori consapevoli che, se sulla frazione risicata e molto competitiva della componente energia delle bollette si abbatte una parte sempre più pesante per remunerare l’infrastruttura, sarà difficile che la bolletta energetica complessiva possa essere competitiva.

Con il Tyrrhenian Link (così si chiama il nuovo cavo progettato da Terna), sarebbe la prima volta in Italia – e se non sbaglio una rarità anche altrove – che si usa una dorsale elettrica sottomarina non solo per raggiungere isole o varcare mari attraverso il percorso più breve o più semplice, ma – in parte del tracciato – anche per evitare potenziamenti su terra molto più economici ma anche più difficili da autorizzare.

Una difficoltà, quella autorizzativa, che evidentemente diventa possibile eludere off-shore quando dalle bollette arrivano i miliardi necessari.


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lunedì 21 agosto 2017

Autorità per l'energia da oggi più cara (Puntata 324, in radio il 22/8/17)

Nello schema del mercato liberalizzato dell’energia, un ruolo fondamentale è quello dell’Autorità indipendente, che da noi recentemente ha acquisito anche le competenze sul servizio idrico, e che sulla base di una legge del ’95 ha compiti fondamentali di regolazione anche tariffaria e di vigilanza rispetto alle aziende del settore, e, insieme all’antitrust, di protezione dei consumatori. Come previsto dalle norme UE, l’Autorità dev’essere autonoma dal Governo (questo a maggior ragione è importante da noi dove l’esecutivo è azionista di controllo degli operatori più grandi, e quindi si pone in permanente e grave conflitto tra l’interesse d’azionista e la difesa della concorrenza).

Un'opera fotografata da Derrick
alla Tate Britain di Londra il 16/8/2015
Autonomia implica anche sostentamento senza trasferimenti dall’amministrazione centrale, per questo l’Autorità italiana per l’energia e l’acqua – come altre autorità indipendenti - è pagata da un contributo delle aziende dei settori soggetti alla sua giurisdizione, calcolato sulla base del loro fatturato. Base imponibile che comporta alcune distorsioni: per esempio le aziende integrate pagano complessivamente meno di quelle con tante entità legali che si scambiano energia tra le varie fasi, e in generale il contributo non tiene conto della capacità di produrre effettivamente utili, come ha notato in passato l'Aiget, associazione di trader e venditori indipendenti d'energia.
D’altra parte, se la logica è quella di far contribuire i soggetti sulla base del lavoro che causano all’Autorità, è corretto che paghino anche quelli (compresi i tantissimi piccoli dell’energia) che guadagnano poco o niente ma che vanno comunque vigilati. Ma proprio in questa logica dovrebbe anche tenersi massicciamente conto che i monopolisti nella gestione delle reti, i cui guadagni dipendono pressoché interamente dalle tariffe stabilite dall’Autorità, sono o dovrebbero essere i principali obiettivi del suo lavoro, e quindi dovrebbero contribuire di più e non di meno come invece il criterio del fatturato comporta su aziende tipicamente con alto rapporto redditività/fatturato come Terna, Snam e le utility cittadine.

Dopo un lungo periodo di aliquota di contribuzione fissa, quest’anno l’Autorità ne ha deliberato – in accordo col Governo come prevede la legge – un aumento clamoroso, di quasi il 20% medio per le aziende energetiche, rispetto al valore precedente che comportava un gettito di circa 55 milioni complessivi e, per la prima volta, ha differenziato l’aliquota per i soggetti che svolgono attività in monopolio, intervenendo positivamente, ma ancora poco, su quella distorsione cui accennavo sopra.

Si tratta di una decina di milioni in più di costo dell’Autorità, non poco, che sollevano secondo Derrick almeno tre quesiti:
  1. Visto che dal bilancio dell’Autorità del 2016 risultano 7 milioni di trasferimento a favore del bilancio dello Stato, non stiamo forse assistendo a una tassa di fatto in vista di maggiori trasferimenti futuri?
  2. Rispetto a uno Stato centrale soggetto a tagli di spesa ormai costanti da anni, è corretto che le Autorità indipendenti non ricevano altrettanta pressione all’efficienza? O meglio: evitando tagli lineari distruttivi, non potrebbero le Autorità essere remunerate anche sulla base di parametri di successo, come la qualità dei servizi oggetto di regolazione (generalmente in aumento nell’energia italiana liberalizzata) e la capacità di rendere efficienti i soggetti concessionari di attività in monopolio, per esempio premiando la riduzione dello spread tra remunerazione del capitale investito ammessa in tariffa e tassi d’interesse di mercato?
  3. La stessa Autorità nella delibera di aggiornamento del contributo motiva il maggiore fabbisogno anche con l’espansione di attività nel settore idrico, che però - sempre secondo l'Autorità - ha minore capacità contributiva di quello energetico. Stiamo assistendo dunque a un sussidio incrociato tra settori? L’”acqua pubblica” sussidiata – in questa voce - dall’energia privata?


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lunedì 12 giugno 2017

USA: accordo di Parigi e futuro del carbone (Puntate 316 e 318)

Come ricordano Marzio Galeotti e Alessandro Lanza su Lavoce.info (link sotto), l’accordo di Parigi di fine 2015, già ratificato da 147 paesi sui 197 rappresentati nella Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (UNFCCC) firmata a Rio de Janeiro nel 1992, è uno degli strumenti che traducono in azione l’obiettivo della Convenzione, cioè stabilizzare in tempo utile le concentrazioni di gas a effetto serra nell’atmosfera a un livello sufficiente a escludere effetti pericolosi delle attività̀ umane sul sistema climatico.

Notano sempre Galeotti e Lanza come Trump abbia scelto di recedere dall’ultimo patto operativo (l’accordo di Parigi) ma non dalla Convenzione quadro. Come mai? Forse perché uscire da una convenzione ratificata da un presidente repubblicano (Bush) e dal senato sarebbe stato difficile, o forse per accontentare il proprio elettorato senza in realtà avere effetti immediati, visto che l’uscita dall’accordo di Parigi, per come disciplinata dallo stesso accordo, richiede una procedura abbastanza lunga da prolungarsi fin verso la fine del mandato di Trump. Il quale, almeno per ora, non ha messo gli USA in un territorio di formale illegalità rispetto ai termini dei patti contratti, come io qui a Derrick invece prefiguravo sulla base delle dichiarazioni americane in seno al G7 energia qualche tempo fa.
Una sala per banchetti abbandonata, fotografata da Derrick

In che modo possiamo osservare se le economie mondiali si stanno o non stanno preparando a un futuro a basse emissioni-serra? Guardando gli investimenti e le scelte delle aziende, che sono solo in parte determinate da politiche vincolanti degli Stati, visto che chi prende decisioni economiche di lungo termine deve farsi un’idea di come sarà il futuro anche anticipando le decisioni politiche. E abbiamo visto a Derrick che sono state anche le aziende, perfino del settore petrolifero come Exxon, a chiedere ai politici segnali più coerenti verso la decarbonizzazione.
Negli USA del resto si sta massicciamente investendo in infrastrutture per l’esportazione di gas naturale allo stato liquido e forse non è molto credibile che il loro presidente danneggi il settore del gas (veicolo nel medio termine di una filiera energetica meno carboniosa) a vantaggio dell’industria del carbone.
Carbone per il quale la domanda mondiale è calata per due anni di seguito secondo l'outlook di BP, iniziando un trend che, per usare le parole di Sissi Bellomo del Sole 24 Ore, è difficilmente invertibile.

Non serve quindi una politica internazionale di indirizzo nel contenimento delle emissioni serra? Certo che serve. Secondo Christian de Perthuis, che ne ha scritto su Les Echos del 7 giugno 2017 (ringrazio la preziosa rassegna stampa di Aiget) la politica di decarbonizzazione dev’essere rafforzata puntando sui sistemi di disincentivo economico alle emissioni. E il principale di questi sistemi, l’europeo Emission Trading Scheme, necessita secondo De Perthuis di essere rivitalizzato, come in effetti prevede la proposta della Commissione UE contenuta nel cosiddetto “quarto pacchetto” clima-energia, che nei prossimi mesi passerà al vaglio del Consiglio e del Parlamento UE.
Ne potrebbero essere perfino gli stati americani più sensibili in materia, come la California, scrive De Perthuis, i futuri membri o emulatori.


La crisi del carbone statunitense

Scrivevano Jon Camp e Kris Maher il 20 giugno 2017 sul Wall Street Journal che negli Stati Uniti in 5 anni sono state chiuse 350 centrali elettriche a carbone, sostituite perlopiù da altre a gas, la fonte ormai più diffusa negli Stati Uniti e che ha scalzato il primato che era proprio del carbone come fonte di 1/3 dell’elettricità totale prodotta.
Ne derivano e deriveranno problemi occupazionali non solo alle miniere degli Appalachi, ma alle comunità di vari Stati dell’Est e centro Est come Ohio, Pennsylvania, New Jersey, Tennessee, Michigan.
Come abbiamo visto sopra e in altre puntate (link sotto), la causa di questo è l’accresciuta competitività del gas naturale americano, resa possibile dagli enormi investimenti in nuove tecnologie di estrazione. Ma anche da limitazioni di emissioni inquinanti pericolose (regole indipendenti da quelle sui gas-serra) e dalla migliore flessibilità delle centrali a gas per compensare l’intermittenza delle rinnovabili.

Foto trovata da Giovanna Milner
Ci sono organizzazioni che negli USA chiedono alla politica di fermare questa tendenza, per salvare l’occupazione della filiera del carbone (link sotto).
Ed è comprensibile e inevitabile che ci siano, com’è successo altre volte in relazione a tanti settori che venivano scalzati dal progresso tecnologico. Che ne è stato dell’indotto delle macchine a vapore, dei calcolatori a schede perforate, della fotografia chimica? Molte aziende sono fallite, altre si sono riconvertite, di sicuro il tipo di competenze richieste ai loro lavoratori è almeno in parte cambiato.
Per il mondo dell’energia, l’innovazione di informatica e telecomunicazioni, degli apparecchi di generazione e stoccaggio d’elettricità e delle tecniche – di cui a Derrick già anni fa abbiamo parlato – su ricerca e coltivazione di idrocarburi stanno portando e porteranno cambiamenti enormi. Non è credibile fermarli per garantire continuità agli occupati del carbone.


Reddito minimo e innovazione?

Questo episodio, come tanti altri, secondo me mostra come un paracadute al reddito di chi perde il posto sia importante per aiutare l’innovazione.
Se un’innovazione rischia di buttarmi sul lastrico perché dovrei appoggiarla?
Posso farlo solo se il sistema di welfare mi riduce i danni e aiuta a riconvertirmi.
Se questo è vero, è uno degli argomenti per sostenere che un reddito minimo garantito ben disegnato aiuta ad accelerare l’innovazione e, quindi, a rendere la comunità nel complesso più competitiva e ricca.



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lunedì 15 maggio 2017

Monopoli dell'energia nell'interesse di chi? (Puntata 313)

C'è una novità che rende necessario riprendere un tema che, stando ai contatti su questo blog, ha suscitato molto interesse: i comportamenti scorretti di alcuni venditori di energia.

Una tecnica scorretta tipica, come abbiamo visto anche in una serie di puntate recenti, è alimentare la confusione tra gestore in monopolio della rete locale e fornitore, affermando o lasciando intendere che un venditore d’energia che appartiene allo stesso gruppo societario del gestore della rete sia più affidabile o abbia vantaggi, quando invece la rete dovrebbe interfacciarsi con tutti i venditori nello stesso identico modo, così come un’autostrada fa passare chiunque paghi il pedaggio alle stesse condizioni.
Passerella pedonale nei pressi della stazione Campi Sportivi,
a Roma, sulla linea ferroviaria regionale piazzale Flaminio-Viterbo.
(Foto di Derrick)

Ma c’è di peggio che millantare vantaggi da parte dei gruppi societari presenti su entrambi i fronti, ed è sfruttarli davvero. Per esempio usare le informazioni possedute in quanto gestore di rete per fare offerte mirate a clienti serviti da altri. È come se TIM, l’ex Telecom, che deve assicurare accesso alla parte condivisa di infrastruttura a tutte le compagnie telefoniche, e quindi in possesso di informazioni su quale cliente è servito da chi, chiamasse i clienti di altri gestori usando queste informazioni per convincerli a farsi servire da TIM.

In più nell’energia c’è un altro monopolio, quello della fornitura della tariffa regolata di “tutela”, affidata per legge in esclusiva al venditore dello stesso gruppo societario del distributore locale.
Se il fornitore di questo servizio, regolato e in monopolio, usa il contatto col cliente per proporgli un’altra sua offerta nel mercato libero, sfrutta un suo vantaggio monopolistico.

Comportamenti, quelli qui sopra, che si configurerebbero come abuso di posizione dominante secondo le norme antitrust.

Ebbene: l’Autorità antitrust italiana ha appena aperto tre procedure d’infrazione proprio per gli abusi che ho elencato, a carico di Enel, A2A e Acea, ritenendo degne d’attenzione numerose segnalazioni di clienti e concorrenti.
Gli illeciti presunti di Enel, in particolare, sono documentati da registrazioni di telefonate come quelle pubblicate da La Notizia, che colgono venditori nell'atto di sfruttare illegittimamente i vantaggi informativi del monopolio di rete locale della stessa Enel.
E se questi casi possono essere iniziative di venditori esterni che violano le direttive della stessa azienda (ma la complicità con qualcuno che ha i dati è necessaria per farlo), è clamoroso che proprio l’Enel sia stato l’unico venditore di energia in Italia a compiere una battaglia legale contro l’obbligo di chiara separazione dei marchi tra distribuzione e vendita. Obbligo che peraltro ha rispettato in modo elusivo, così come Acea, con marchi per la società di distribuzione che richiamano incontrovertibilmente quelli del gruppo.

Seguiremo naturalmente come andrà a finire e se gli addebiti verranno confermati dall’antitrust.
Intanto una riflessione: cos’hanno in comune queste tre aziende?
Sono tutte controllate dall’amministrazione pubblica, oltre a essere anche quotate.

Vuoi vedere allora che il controllo pubblico non è garanzia di correttezza nel rispetto delle norme?
Recentemente il presidente della commissione Attività Produttive della Camera, Massimo Mucchetti, spesso molto critico con privatizzazioni e liberalizzazioni, ha auspicato in seduta plenaria che si valuti, in relazione a possibili privatizzazioni di aziende pubbliche, non solo l’introito dalla vendita, ma anche il valore dei mancati dividendi futuri per lo Stato.
Economicamente non fa una piega.

Ma quella del fare utili con le partecipate è una motivazione a doppio taglio per i fan delle partecipazioni pubbliche, perché sottende che non c’è motivazione prevalente di perseguimento di un qualche bene pubblico nell’avere lo Stato azionista di aziende, bensì quella di mettere le mani in settori remunerativi, comprando azioni coi soldi dei cittadini (i quali, per inciso, con società quotate in borsa se vogliono possono farlo da soli con tre clic sul sito della propria banca).

Il guaio è che dove l’azionista di controllo è lo stesso che stabilisce le regole del gioco sul mercato di riferimento la concorrenza rischia di essere falsata.
Si sarebbe permesso un operatore indipendente di mercato uno spregio delle regole e un senso di impunità pari a quello di cui stiamo parlando dell’Enel?

Auguro all’AGCM la forza per svolgere con autonomia questa indagine malgrado tocchi, oltre all’interesse dei cittadini-clienti dei servizi energetici, anche lauti dividendi del Tesoro, del comune di Milano e di quello di Roma.

mercoledì 1 aprile 2015

Intervista per Nuova Energia 2/2015

Intervista a Michele Governatori apparsa su Nuova Energia 2/2015

Tempo fa in Italia, nell’energia si parlava di colli di bottiglia che ne frenavano una vera liberalizzazione. A che punto stiamo?
Se parliamo di colli di bottiglia fisici, e in particolare di vincoli alle interconnessioni con l’estero di gas ed elettricità, direi che la situazione per quanto riguarda l’Italia continua a migliorare non solo per il trend di aumento, anche in prospettiva, della capacità fisica, ma anche perché i prezzi italiani all’ingrosso, oggi più vicini a quelli europei, hanno reso più bassa la perdita di benessere economico dovuta ai vincoli residui. Inoltre, nell’elettricità il market coupling partito quest’anno permette uso più efficiente della capacità disponibile.
Le cose vanno meno bene internamente, dove è sempre complicato fare nuove linee elettriche e dorsali gas. Se guardiamo alla nuova interconnessione elettrica Calabria-Sicilia, ancora bloccata, è triste dover constatare che i prezzi dell’isola e del continente si sono sì avvicinati molto rispetto al passato (e questo è un bene per i consumatori), ma attraverso un intervento dirigistico che ha reso sostanzialmente amministrata la remunerazione delle centrali siciliane.
E poi ci sono i colli di bottiglia nel disegno di mercato, ancora più gravi, ma ne parliamo dopo.

È davvero iniziata una ripresa dei consumi energetici nel nostro Paese? E questo significa che possiamo stare tutti più tranquilli, oppure...
I dati recentissimi di ripresa nell’elettrico sembrano mostrare aumenti di consumi simili a quelli del PIL. Quindi probabilmente siamo di fronte a un effetto fisiologico di ripresa indotta da quella dell’economia. Quest’ultima però è una ripresa debole, soprattutto se confrontata con l’eccezionalità delle misure di politica monetaria per stimolarla (il QE) e del contesto favorevole (petrolio a buon mercato, Euro deprezzato).
Dubito poi che vedremo un aumento dell’intensità energetica del sistema (cioè del rapporto tra consumi di energia e PIL), credo anzi che gli effetti permanenti della crisi, che corrisponde a un’evoluzione dolorosa ma per certi versi anche sana dell’economia, stabilizzeranno al ribasso l’intensità energetica a causa della selezione di aziende a maggior valore aggiunto e quindi con minore incidenza degli acquisti energetici in rapporto al valore della produzione. A questo si aggiungono gli effetti delle politiche di efficienza che credo soprattutto nei consumi domestici e del terziario stiano dando risultati strutturali. Io stesso consumo in modo molto diverso rispetto a quando avevo lampade a incandescenza, una caldaia senza condensazione dei fumi e finestre a maggiore trasmittanza, e non tornerò indietro.
C’è, per l’altro verso, una prospettiva rilevante di concorrenza tra fonti di energia, che potrebbe avvantaggiare l’elettrico (soprattutto grazie a pompe di calore e auto elettriche) a meno che non prendano piede tecnologie di microgenerazione diffusa a gas.
Per finire la risposta: un’azienda di mercato credo non possa stare mai tranquilla. O “imbrocca” la sua visione del futuro e vi trova uno spazio coerente, o non guadagnerà.

L’Europa dell’energia non sembra procedere a passo spedito…
Siamo abituati a sentirci dire che il mercato unico non è completo e che tanti Paesi sono in ritardo nell’applicazione delle direttive mercato. Che è per molti versi vero. Ma è anche vero che l’UE, pur in una fase di debolezza della Commissione rispetto ai Governi e che spero si superi con la gestione Juncker, è ancora il motore principale delle istanze pro mercato. Basta vedere la procedura d’infrazione in corso nei confronti dell’Italia riguardo all’applicazione del terzo round di direttive mercato, che tocca aspetti decisivi come l’unbundling tra gestione delle reti e vendita di energia anche a livello locale e l’autonomia dell’Autorità di settore.
E ancora: il coupling dei mercati del giorno prima ormai compiuto in gran parte dell’Europa occidentale (e non solo) è un risultato importante di integrazione. Certo ci sono incognite riguardo all’integrazione dei mercati del bilanciamento e di quelli – nascenti – della capacità, e c’è stata la resa molto grave proprio di Juncker riguardo all’armonizzazione della fiscalità energetica.
Ma nel complesso ho l’impressione che sia ancora l’UE a dare il “la” ai mercati liberalizzati.

Il crollo del prezzo del barile sta mettendo in difficoltà il settore shale. Che cosa sta cambiando?
Credo stia avvenendo, in modo particolarmente repentino, una cosa fisiologica nel settore oil&gas: l’alternanza di momenti in cui il prezzo della commodity giustifica investimenti massicci con altri in cui accade il contrario. A questo si aggiunge il cambio del trend della domanda dovuto credo in parte a cambi tecnologici nell’uso dell’energia e, soprattutto, al rallentamento della crescita globale, dovuta all’andamento dei Paesi che ci avevano abituati a uno sviluppo più rapido. È un sistema che si autoregola ma che richiede spalle larghe da parte degli investitori. Le risorse minerarie sono destinate a diventare scarse e scarsissime nel lungo periodo, ma questo ha poco a che fare con la loro scarsità di breve che dipende dalla capacità produttiva installata in un determinato momento (una cosa che incredibilmente i fan della teoria del picco del petrolio non afferrano). Mi aspetto che la produzione di shale per qualche tempo resterà alta, perché il boom di investimenti (eccessivo secondo i critici che parlano di “bolla shale”) ha portato a una capacità estrattiva che conviene far funzionare finché i prezzi della commodity sono superiori ai soli costi operativi di estrazione. Per questo ci potrebbe volere del tempo prima che i prezzi oil&gas inizino a fornire di nuovo un segnale di scarsità.

Torniamo nel nostro Paese. Il settore dell'energia, almeno in Italia, sembra essere piuttosto conflittuale. Qualsiasi provvedimento, delibera, decisione, venga annunciato... c'è sempre qualcuno che si sente danneggiato. Ma è davvero così difficile mettere d'accordo le varie componenti?
Non credo che la conflittualità sia necessariamente un problema. Che ci siano interessi contrastanti è normale, il punto discriminante piuttosto è con quanta efficacia e trasparenza un sistema riesce a contemperarli. La definizione diritti acquisiti l’ho sempre trovata poco utile, e qualche volta viene usata a sproposito intendendo la più vasta categoria delle aspettative acquisite. Tecnicamente un contratto o una convenzione a tempo determinato sono sì diritti acquisiti, ma non lo è per esempio l’aver confidato nell’immutabilità delle norme. Uno che investe deve avere un’idea del futuro, e se questa gli potesse essere garantita non chiameremmo “di rischio” il capitale che lui ci mette: gli investimenti possono andare male.
Se mi consenti di allargarmi un po’ nella risposta, io credo che in Italia noi abbiamo un concetto di politica industriale fatta di stampelle alle aziende in crisi anziché di idee strategiche di futuro e aiuto alle imprese che devono nascere per realizzare quel futuro. Einaudi diceva che un’economia di mercato ha bisogno della sanzione (il fallimento) per le imprese “male gerite”. Io aggiungerei anche per quelle che hanno sbagliato le scommesse. Solo così le loro risorse (persone, capitali) possono liberarsi e rientrare nel circolo dell’economia.
Tornando all’energia: il legislatore e l’Autorità hanno il dovere di cambiare le regole quando ritengono sia necessario, condividendo quando è possibile in anticipo le direttrici strategiche con cui lo fanno. Condivisione che l’Autorità dell’energia fa nei documenti di consultazione, ma con un piglio che trovo troppo burocratico, e che il Governo ha fatto con un documento importante ma poi apparentemente snobbato e quasi abbandonato: la strategia energetica nazionale. Infine: probabilmente non ha molto senso che norme di settore vengano sfidate da tribunali amministrativi e con esiti che derivano da ragioni spesso formali. Un altro sistema, una sorta di arbitrato istituzionale di settore, magari sarebbe meglio, ma come?

Oggi sembra che tutto ciò che ruota attorno al mondo dell'energia debba essere preceduto dal prefisso smart, altrimenti è da buttare. Ha davvero senso parlare di smart energy?
È vero! Non se ne può più. Se io avessi il coraggio di fare l’imprenditore in questo settore (uno dei sogni irrealizzati della mia vita, come quello di diventare un bravo jazzista) sceglierei una ragione sociale, tanto per distinguermi, del tipo Energia Gonza. Scherzi a parte: se una cosa è davvero intelligente non dovrebbe servire autodichiararla tale perché ce ne si accorga.
Poi, lo scrive anche l’Autorità in una sua recente consultazione: se li dobbiamo pagare in tariffa, bisogna valutare analiticamente dove stanno i vantaggi dei progetti “smart”. Se sono progetti di mercato, invece, dovrebbe valere quella sana selezione naturale di cui dicevo prima.
Una cosa che si sente di continuo preconizzare è l’opportunità di stoccare energia di fonte rinnovabile verde per superare i vincoli di dispacciamento. Magari facendone idrogeno, o addirittura nei casi più fantasiosi molecole di sintesi in grado poi di ri-liberare energia. Peccato che a volte si consideri l’obiettivo di produrre tutto il producibile come un postulato indipendente dai costi. Ricordo l’analisi costi-benefici che fece Terna anni fa per giustificare l’investimento in batterie sulla rete di trasmissione elettrica: partiva dal presupposto che si dovesse azzerare subito l’energia verde non dispacciata (che oltretutto era già poca). Una dichiarazione di missione costi quel che costi, più che un’analisi costi-benefici. Per fortuna l’Autorità poi si è attivata per correggere almeno in parte l’impostazione.

Questo è anche l'anno dell'EXPO. Qualcuno ha detto che il tema energia – salvo soprese – è stato considerato solo di sponda e senza lo spazio che avrebbe meritato. Dunque, un'occasione persa? Cosa ne pensi?
Io credo che il tema cibo sia un bel tema, non concordo con i detrattori che lo vedono come un settore troppo tradizionale o “arretrato”. Ho l’impressione che stiamo assistendo a un cambio economico-culturale, per cui gli strumenti di frontiera oggi percepiti come più utili ad aumentare il nostro benessere siano da un lato più immateriali, e dall’altro più legati alla salute e alla sostenibilità in generale, e il cibo di qualità richiama questo concetto. Anche l’energia è influenzata da questo trend e il “consumare meglio”, almeno in alcune fasce di clienti, sta diventando un’esigenza sempre più percepita. È una moda? In parte forse sì, ma non per questo è meno rilevante. Una moda è pur sempre il segno di un desiderio da soddisfare e per cui si è disposti a pagare. Io, per esempio, pagherei per un sistema di domotica energetica, e pagherei probabilmente più soldi rispetto ai risparmi che mi comporterebbe. Sono sciocco? Può darsi, embè? Sono un consumatore libero: il portafogli è mio e me lo gestisco io…

Lo scorso 13 aprile si è svolto a Milano il convegno annuale di AIGET. Quali sono gli spunti più interessanti che sono emersi? C'è stata qualche proposta, qualche idea o qualche intervento che ti hanno colpito in particolare?
In Aiget stiamo facendo uno sforzo pazzesco per portare avanti le istanze del mercato, in un contesto di arroccamento (comprensibile ma dannoso al sistema) degli operatori con business regolati e di quelli con posizioni di dominanza. Noi crediamo che se vogliamo tenere basse le bollette e alta la qualità del servizio al cliente l’unica risposta che funziona è la concorrenza efficace. Al convegno, che è corrisposto al lancio del position paper 2015 disponibile sul sito dell’Aiget, abbiamo posto l’accento soprattutto sulla necessità di far funzionare i mercati organizzati a pronti e a termine del gas e di realizzare un unbundling efficace tra distribuzione e vendita di elettricità e gas. Quest’ultima è una condizione indispensabile a garantire una concorrenza equa tra tutti i venditori, e deve passare attraverso una terziarizzazione delle informazioni utili all’acquisizione dei clienti (tramite il Sistema Informativo Integrato di Acquirente Unico) e attraverso un network code che regoli in modo corretto il livello di servizio dei distributori in modo che ne aumenti la qualità e soprattutto che sia omogenea rispetto a tutti i venditori e senza vantaggi impropri per gl’integrati. Oggi, paradossalmente, per alcuni versi i venditori, che fanno un business libero, sono più regolati dei gestori di rete che fanno un business regolato. Per esempio: le bollette di un venditore ad alcune categorie di clienti sono dettate dalle norme, mentre non lo sono i sistemi informatici con cui i distributori forniscono i dati di consumo.
Tra le cose più interessanti uscite nel convegno mi sembra ci siano la convergenza tra i presidenti dell’Autorità Energia e di quella Antitrust riguardo alla necessità dell’unbundling funzionale e di brand a livello retail, e le rassicurazioni da parte di GME e Snam Rete Gas riguardo allo stato di avanzamento del nuovo mercato del bilanciamento gas.

Il tema dell'incontro è stato: “clienti, concorrenza e regole”. Prova a dare un voto ai primi, come ai tempi della scuola. Li promuoveresti?
Ai clienti di sicuro do 10, perché senza di loro non ha senso nulla del nostro lavoro in questa e altre filiere. Però, lo ammetto, è un voto con una componente di adulazione. Magari direi anche loro, benevolmente, che devono accettare un po’ di impegno in più nella difesa attiva, e non passiva e troppo delegata, dei propri interessi. Nello stesso tempo noi fornitori dobbiamo imparare a non abusare della loro disponibilità e dobbiamo cooperare perché ci siano regole del gioco che rendano i più difficili possibile i comportamenti commerciali scorretti.
Senti questa: qualche settimana fa a colle Oppio a Roma ero a una festa in una bella casa tra intellettuali del mondo della scrittura narrativa (un mondo in cui ho avuto la fortuna di affacciarmi in una fase precedente della mia vita) e mi trovavo in un poggiolo dove alcuni si erano assiepati per fumare. Lì chiacchieravo tra gli altri con lo scrittore modenese Ugo Cornia (Sellerio, Feltrinelli) che si ricordava vagamente di me come narratore di scarso successo e mi chiedeva come mi pagassi oggi da vivere. Quando gliel’ho detto, lui mi ha raccontato subito il fastidio con cui rifugge i venditori di energia e telefonia che lo ammorbano di continuo per fargli cambiare contratto. La sua reazione mi ha colpito e fatto riflettere: ai clienti dobbiamo chiedere sì più attenzione e consapevolezza, ma nemmeno possiamo pensare di bombardarli, men che meno se con scarsa qualità informativa.

La soluzione non saranno mica le tariffe di tutela?
Giammai! Quelle ritardano la maturazione del mercato, perché producono sussidi incrociati e deresponsabilizzano i clienti. È il mercato stesso – con le regole giuste certo – che può fornire forme di intermediazione tali da rendere comunque semplice l’accesso a un prodotto/servizio complesso da parte di clienti senza ricorrere a nessuna forma di tariffa amministrata (quand’anche basata su indicatori di mercato). Pensiamo ai mutui o alle assicurazioni. È facile sceglierli? No, sono prodotti relativamente complessi la cui valutazione richiede informazioni riguardo alle quali il cliente patisce uno svantaggio rispetto a fornitore. Però esistono servizi di confronto nati spontaneamente proprio per colmare la necessità informativa e di semplificazione. Simili strumenti, uniti all’eventuale aggregazione non forzosa dei clienti e a obblighi informativi efficaci da parte dei fornitori, anche basati su benchmark o indicatori obbligatori, possono essere la risposta per rendere facile e sicura la scelta di un prodotto complesso come quello dell’energia.
Certo, il mercato sottostante deve essere competitivo, altrimenti il cliente non risparmia. Stando al decreto Competitività, abbiamo quasi tre anni per sistemare le cose che non vanno, e fare in modo che i clienti dell’energia, tutti sul mercato libero, guadagnino ulteriormente dal mercato.

Una domanda di carattere più aziendale, legata al tuo ruolo di direttore affari istituzionali e regolatori in Axpo Italia. La vostra è una delle poche realtà straniere che sembra non essersi pentita della scelta di investire sul mercato italiano. Quale il segreto?
Le multinazionali sono entità complesse e non certo costituite da una sola anima tra Paese e Paese. Hanno all’interno culture diverse e il loro successo dipende anche dalla capacità di farle dialogare, cosa in cui la mia casa madre credo abbia in generale fatto bene grazie a un atteggiamento poco “coloniale” come in altri casi invece capita, e anzi puntando sull’autonomia dei manager dei vari Paesi e mercati. E anche in Italia i risultati in termini di redditività sono arrivati, anche se poi messi a dura prova dalle perdite sulla generazione elettrica. Io credo che il segreto, che naturalmente non è tale, è assumere e far crescere gente bravissima. Punto. Nessun investimento paga quanto essere selettivi nella scelta dei collaboratori (e di conseguenza dei capi, se il sistema di carriere interne è agile come è stato in Axpo Italia dove l’attuale direttore generale mercato è arrivato a questa posizione dall’interno grazie alle sue capacità). Io stesso, nel mio piccolo team, se ho ottenuto dei risultati di cui essere contento è perché ho avuto con me persone piene di qualità, e quando ho a che fare con i colleghi del business (quasi tutti a Genova nel caso di Axpo Italia), di norma giovanissimi e con CV di studi di eccellente livello, capisco perché siamo una bella azienda. Quindi per me la prima capacità che serve a un manager è promuovere la meritocrazia tra i suoi collaboratori, assumendosene la responsabilità. Non è affatto una cosa facile e scontata: bisogna scontrarsi con una mentalità diffusa del “vogliamoci bene” che inevitabilmente diventa anche protezione della mediocrità.
Il che si lega, in riferimento alla discussione politica, a quello che per me è un fraintendimento della nostra stessa Costituzione: diritto al lavoro non può voler dire diritto al posto di lavoro indipendentemente dalle proprie capacità. Certo che dobbiamo realizzare la solidarietà a livello sociale e aiutare chi non ce la fa, ma per progredire come economia e avere un futuro di benessere non possiamo fare sconti alla concorrenza tra professionisti, così come tra aziende.