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domenica 16 giugno 2019

La transizione energetica europea (Puntate 401-2 in onda il 18/6 e 2/7/19)

Giacomo Balla
Le quattro stagioni in rosso - Estate
Il 14 giugno 2019 è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale UE il cosiddetto “quarto pacchetto” delle norme che guideranno i mercati dell’energia europei dei prossimi anni. Norme che seguono un’evoluzione che anche i non addetti al settore si sono ormai abituati a sentirsi raccontare, in particolare riguardo all’accelerata transizione verso le fonti d’energia rinnovabili, alla maggiore importanza della generazione elettrica distribuita e di piccola scala, anche con l’arrivo di entità collettive (energy community) per ora descritte in modo un po’ generico ma che dovrebbero avere un ruolo nel futuro prossimo. Ruolo che si sovrapporrà potenzialmente con quello di produttori e venditori di energia e dei gestori delle reti elettriche locali.
Il “quarto pacchetto” si inserisce in un altro processo europeo fondamentale: gli obiettivi ambientali al 2030 e oltre, già condivisi nei mesi scorsi, che hanno evidentemente enormi rapporti con la regolazione del settore energia e non solo.
Questo processo prevede, tra le altre cose, che gli Stati Membri inviino piani energia-ambiente (cosa già avvenuta) che poi l’Unione valuterà in termini di coerenza rispetto agli obiettivi comunitari al 2030, obiettivi che ricordo qui:
  1. riduzione almeno del 40% delle emissioni di gas a effetto serra (rispetto ai livelli del 1990)
  2. una quota almeno del 27% di energia rinnovabile
  3. miglioramento almeno del 27% dell'efficienza energetica (rispetto allo scenario senza interventi).

Sorprendentemente, almeno rispetto alle attese riguardo al programma ambientale dei Cinque Stelle, il piano presentato dal Governo italiano è per molti versi più cauto degli stessi obiettivi europei. Uno studio della European Climate Foundation che mette a confronto i vari piani-bozza presentati (scaricabile sotto) dà un giudizio piuttosto negativo al piano italiano in termini di obiettivi e efficacia e chiarezza delle politiche proposte, con l’eccezione (ma sto inevitabilmente semplificando) delle politiche sull’efficienza energetica.


Efficienza energetica e minibot

Piccola digressione su questo: l’Italia, che già strutturalmente è un Paese con buona efficienza energetica (cioè un rapporto tra PIL e energia consumata relativamente alto) ha anche politiche rilevanti per l’efficienza, a partire dalle generose detrazioni fiscali per ristrutturazioni e investimenti sugli apparati energetici degli edifici, detrazioni che tra l’altro si stanno evolvendo per rendere più semplice cedere il credito fiscale a intermediari, in modo da poter fare gli interventi senza dover anticipare le somme necessarie. Sono quindi molto rilevanti in materia (a mio avviso potenzialmente esiziali) le idee sempre più insistenti sui “minibot”, cioè i titoli di Stato di piccola taglia cari al presidente della commissione economia leghista alla camera Claudio Borghi. Questi titoli, infatti, sia secondo un documento curato dallo stesso Borghi e diffuso nei mesi scorsi sia secondo una mozione passata in parlamento il 28/5/2019 anche con i voti dell’opposizione (alcuni dei cui esponenti hanno però dichiarato essersi trattato di errore) potrebbero essere usati per pagare crediti verso lo Stato. Ora, se lo Stato mi dicesse che le rate di detrazione della mia pompa di calore con cui ho reso elettrico ed efficiente il mio riscaldamento a fronte di un discreto sacrificio economico iniziale me le pagherà con un altro credito anziché con soldi, io avrei molto da ridire. E questo non aumenterebbe la mia fiducia verso lo Stato rispetto a possibili ulteriori investimenti. Se teniamo conto dell’importanza del settore edilizia per la crescita economica, credo si possa dire che renderne incerti gli investimenti sia molto pericoloso.


Verso l'autarchia energetica locale?

Torniamo alle comunità energetiche: esse dovrebbero permettere anche di instaurare veri e propri mercati di vicinato dell’energia. Un’idea che istintivamente piace quasi a tutti, perché suggerisce mutualismo e autosufficienza di zona, ma che tradurre in azioni pratiche è piuttosto difficile. Infatti, se le reti elettriche locali sono oggi gestite come monopoli non è per amore del monopolio in sé da parte del legislatore, ma perché, come spesso avviene nelle reti, una loro gestione unitaria, che preveda da un lato il divieto di duplicazione e dall’altro regole prestabilite sul livello di servizio e garanzia di tutti all’accesso a condizioni eque, è più efficiente per la comunità nel suo complesso. Quindi, se è vero che è carina l’idea di vendere il surplus di produzione del mio tetto fotovoltaico al vicino, non è chiaro per ora come dovrebbe essere disciplinato l’accesso alla capacità di trasporto – seppur per piccole distanze – di quell’energia. Passo un cavo dal balcone? Uso la rete condominiale come fosse una rete di distribuzione? Sarò io a far fattura al vicino? A che prezzo?


Il nodo stoccaggio

Quel che è certo è che l’enorme quantità di rinnovabili che dovremo installare per raggiungere gli obiettivi ambientali renderà il sistema elettrico più distribuito e meno programmabile. Occorreranno quindi anche sistemi di stoccaggio dell’energia per spostarla dai momenti in cui gli impianti rinnovabili producono a quelli in cui in effetti l’energia serve. In assenza di stoccaggi sufficienti, secondo il Governo e secondo il gestore della rete ad alta tensione Terna, potrebbero servire più centrali programmabili a gas per fare da backup

Proprio in questi giorni il Governo sta infatti lanciando un sistema di remunerazione della capacità della generazione elettrica pensato soprattutto per le centrali programmabili (e i progetti per nuovi impianti di questo tipo sono tutti a gas) che vede l’opposizione di alcuni operatori in particolare delle fonti rinnovabili (tema che non approfondisco perché sarei in conflitto d’interessi con la mia professione).
E come si fa lo stoccaggio elettrico? Oltre che con le centrali idro a bacino, con le batterie di taglia industriale, per ora piuttosto costose e relativamente inefficienti.
Esistono altre alternative, come lo stoccaggio elettro-termico appena presentato da Siemens-Gamesa insieme all’università di Amburgo: un sistema che riscalda con una resistenza elettrica rocce vulcaniche che poi restituiscono il calore a un ciclo a vapore che produce elettricità quando serve. Efficiente sul piano energetico? Poco, così come è inefficiente una vecchia stufetta a resistenza. A meno che non si abbiano surplus di produzione inevitabili e si voglia ricorrere a sistemi di recupero che richiedano investimenti limitati.


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martedì 13 febbraio 2018

Nuovi rapporti di forza globali energetici (Puntata 346 in onda il 13/02/18)


Ho letto un interessante articolo di Walt Patterson sull’Energy Post in cui a partire da dati di un osservatorio del Chatham House Institute di Londra si ipotizzano scenari geopolitici legati alla rivoluzione energetica che il mondo sta imboccando con gli enormi investimenti in energie rinnovabili e quindi il progressivo previsto affrancamento dalle fonti fossili.

Ecco alcune tendenze citate nell’articolo.
Una bicicletta luminosa fotografata a Mondavio
Se risorse minerarie fossili perderanno importanza, verranno meno i vantaggi legati alla loro detenzione. Vantaggi che peraltro – aggiungo io - non necessariamente hanno portato a sviluppo i paesi ricchi di risorse. Con il termine “sindrome olandese” gli economisti chiamano proprio la tendenza dei paesi esportatori di risorse a perdere competitività in altri settori come il manifatturiero. A questo potrebbe aggiungersi che, se una ricchezza è concentrata in risorse
di proprietà pubblica, essa non facilita lo sviluppo di democrazie legate all’emergere di una classe imprenditoriale.

Ma a parte questo: diventeranno il sole e il vento i nuovi petrolio e carbone in termini di ruolo geopolitico di chi ne è ricco? Probabilmente no, o non del tutto: i sistemi elettrici in cui l’energia prodotta è convogliata sono molto meno globali dei mercati dei combustibili fossili. È anche vero però che le interconnessioni tra paesi stanno aumentando e che contratti internazionali di fornitura di elettricità verde si stanno sviluppando. Sempre più importanti le reti dunque, e sempre maggiori le opportunità di business per i giganti dei big data che potrebbero avere vantaggi nel gestirle, con i pericoli di concentrazione che conosciamo.
Sole, vento e acqua a parte, terre e metalli rari permetteranno a nuove potenze minerarie come la Cina di tenere sotto scacco il mondo dell’energia? Patterson ritiene di no. La bolla di molte materie prime del settore è già scoppiata, mentre il proliferare di tecnologie, per esempio nelle batterie, permette al sistema di non dipendere troppo da singoli elementi.
Infine una curiosità da un articolo di Adam Vaughan sul Guardian: nel 2017 la Brexit non ha frenato gli investimenti britannici in rinnovabili, visto che l’UK ha fatto la metà della nuova capacità eolica offshore di tutta l’Europa, mentre per il futuro si progettano pale eoliche marine alte il doppio del London Eye, da ben 15 MW di potenza l’una.


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domenica 4 febbraio 2018

Nuove rotte del gas (Puntata 345 in onda il 6/2/18)

La settimana scorsa abbiamo parlato di tendenze nel settore elettrico, oggi ci concentriamo sul gas, sfruttando in particolare due articoli degli scorsi giorni di una delle giornaliste italiane più specializzate nel settore petrolio e gas, Sissi Bellomo del Sole 24 Ore.

Il traghetto Chioggia-Venezia
fotografato da Derrick nel gennaio 2018
Dunque: una notizia riguarda l’Europa e l’area di produzione di gas naturale di Groningen, nel nord dell’Olanda, dove le autorità locali hanno imposto una nuova importante riduzione dell’estrazione dal giacimento. Il motivo, e ricorderete che a Derrick ne abbiamo parlato, per esempio qui, è che si ritiene che l’attività estrattiva abbia causato e possa nuovamente causare fenomeni sismici nella zona. La conseguenza della riduzione è il venir meno di un contributo rilevante della produzione europea, già in calo per fisiologico progressivo esaurimento dell’area del mare del Nord, con una maggiore dipendenza dalle importazioni dalla Russia, in particolare per i paesi del Nord. L’Italia come sappiamo ha rispetto a questi il vantaggio di essere interconnessa anche con le fonti algerina e libica, anch’esse peraltro non prive di problemi, e di avere in costruzione il gasdotto TAP per collegarsi alla produzione azera attraverso la Turchia.

L’altra notizia è americana e riguarda Boston, in un cui terminal di rigassificazione è arrivata per la prima volta una metaniera con gas russo partito da un porto europeo. Ma come? Non ci siamo detti un sacco di volte che gli USA si stanno anzi attrezzando per esportarlo il gas? Vero, ma il gas trasportato in forma liquida via nave ha il vantaggio di poter andare dove decide di volta in volta il mercato, rispondendo a necessità locali temporanee dovute per esempio a temperature rigide come quelle viste recentemente nella costa nordorientale degli USA. Il senso della filiera tecnologica del gas naturale liquefatto è soprattutto questo: benché abbia maggiori costi di trasporto rispetto a quello via tubo, si affranca dalle rotte obbligate, e permette a paesi che sono sia forti produttori che forti consumatori, come gli USA, di flessibilizzare il proprio sistema in alternativa agli stoccaggi geologici, cioè serbatoi naturali in grado di fare da polmone rispetto alla fluttuazione della domanda.


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Puntata di Derrick: coltivazione di idrocarburi e terremoti: http://derrickenergia.blogspot.it/2014/04/coltivazione-di-idrocarburi-e-terremoti.html

mercoledì 13 dicembre 2017

Emergenza gas dichiarata in Italia il 12/12/17 (Puntata 340 in onda il 19/12/17)

Il 12 dicembre 2017 il ministero dello sviluppo economico ha dichiarato lo stato di "emergenza gas" (che comporta l'attivazione di una serie di misure atte a massimizzare le immissioni sulla rete italiana) in seguito all'incidente in un hub del più importante gasdotto d'importazione per l'Italia, quello su cui transita il gas russo. (Sulla congruità dell'attivazione dello stato di emergenza c'è qui sotto un approfondimento tecnico di Fabio Pedone).
L'evento austriaco si aggiungeva a una parziale indisponibilità dei flussi dal nord Europa (altro gasdotto che passa dalla Svizzera), a una generale scarsa affidabilità e consistenza dei flussi dal gasdotto libico e, negli ultimi anni, a una tendenza al declino dei flussi algerini (quarto corridoio) a causa di scarsi investimenti nei siti produttivi locali. Già nella sera del 12 l'attività del gasdotto austriaco ha iniziato a ripartire e la criticità è rientrata progressivamente fino alla dichiarazione di fine emergenza del 15 dicembre (link sotto).

L'Italia per fortuna è già oggi uno dei sistemi gas più interconnessi d'Europa e uno dei più dotati in termini di capacità di stoccaggio (siti geologici in grado di ricevere gas d'estate e restituirlo in inverno).
L'emergenza però è stata determinata dal fatto che anche a stoccaggi pieni il flusso che essi possono erogare nel breve periodo ha limiti tecnici e potrebbe non bastare in caso di freddo molto acuto, che aumenterebbe i consumi per riscaldamento.
Il sistema, sulla base di dichiarazioni di Snam, che gestisce la rete italiana ad alta pressione, è sempre rimasto bilanciato, anche se il venir meno del gasdotto attraverso l'Austria è sicuramente una situazione critica.
Peraltro il mercato ha risposto correttamente: l'impennata dei prezzi del gas in Italia ha comportato un minore utilizzo del gas a fini termoelettrici, esattamente come deve succedere in un mercato efficiente. 
Anzi proprio il mercato potrebbe forse essere fatto funzionare di più, riducendo alcuni vincoli al flusso in uscita dagli stoccaggi, oggi legati a regole del MiSE che potrebbero essere allentate senza pregiudizio alla sicurezza.

Il valore dell'interconnessione gas

L'episodio, come molti hanno fatto notare, è comunque utile a mostrare la nostra dipendenza ancora alta dalle forniture russe, che si aggiunge a capacità produttiva nazionale in declino, e l'interesse nazionale per la costruzione del TAP, gasdotto transadriatico di iniziativa privata e con successivo ingresso nel capitale della stessa Snam, che permetterà di portare in Italia gas di origine azera, rendendo ancora più diversificato il nostro sistema e dando all'Italia la possibilità di diventare un "hub" del gas per l'Europa, come nella visione della strategia energetica nazionale del 2013.



Approfondimento tecnico: un'"emergenza" dubbia e distorsiva per il mercato
di Fabio Pedone


Il livello di emergenza viene dichiarato, tra le altre cose, al verificarsi “dell’interruzione non prevista di una delle principali fonti di approvvigionamento e nel caso in cui tutte le misure di mercato siano state attuate ma la fornitura di gas sia ancora insufficiente a soddisfare la domanda” (art. 2.3). Di conseguenza il Piano prevede l’attuazione delle misure NON di mercato. In tali circostanze si applica un prezzo di bilanciamento amministrato, pari a 82,5 €/MWh, come stabilito dall’art. 5.4 del Testo Integrato del Bilanciamento (link sotto).

Al contrario di quanto dichiarato dal MiSE, durante la giornata del 12 dicembre sembra proprio che le misure di mercato, come abbiamo visto sopra, abbiano funzionato. Il prezzo del mercato all’ingrosso è salito rappresentando la situazione di scarsità, i consumi termoelettrici si sono ridotti in virtù del prezzo del combustibile eccessivamente oneroso, sono aumentate le importazioni in virtù di spread di prezzo favorevoli. Fortunatamente in serata sono ripresi i flussi di importazione da Tarvisio ma nonostante ciò, al termine del giorno gas il sistema era “corto” di 31 milioni di metri cubi, che il responsabile del bilanciamento ha dovuto fisicamente estrarre dagli stoccaggi e che, nella sessione di mercato (ex-post) MGS del 13 dicembre, ha poi acquistato dagli utenti dello stoccaggio. Se il responsabile del bilanciamento non avesse reperito tali risorse tramite MGS, avremmo potuto affermare che quel gas era stato “tirato fuori” dalle riserve strategiche. E l’utilizzo dello stoccaggio strategico è proprio una misura non di mercato di cui all’art. 4.2.3 del Piano di Emergenza che avrebbe giustificato la dichiarazione di emergenza.

Allora perché dichiarare lo stato di emergenza e non lo stato di allarme?
Il Piano di Emergenza cita al punto 2.2 che lo stato di allarme si può realizzare “in modo improvviso, come nel caso di un’interruzione di una delle principali fonti di approvvigionamento e/o nel caso di eventi climatici sfavorevoli di eccezionale intensità”. Il livello di allarme prevede l’attuazione di una serie di misure nella “responsabilità” del mercato, così come accaduto nella giornata del 12 dicembre, senza che si adotti alcuna misura non di mercato.
Il MISE, diversamente, ha dichiarato lo stato di emergenza ma ha aggiunto che, non essendo stata adottata alcuna misura non di mercato il prezzo di bilanciamento non sarà amministrato.

Ma delle due l’una: o si tratta di emergenza e si applica il prezzo amministrato oppure non si tratta di emergenza. Nel secondo caso, non può non applicarsi il prezzo amministrato. È evidente, infatti, che la dichiarazione del MISE ha creato aspettative di prezzo e di conseguenza delle distorsioni di mercato che non si ci sarebbero state se fosse stata dichiarata, più correttamente, la situazione di allarme.



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domenica 5 novembre 2017

Esportiamo elettricità (Puntate 291, 300, 334)

Qualche luogo comune sull’energia sta per essere sovvertito.

Il presidente di Confindustria chiudendo col suo intervento a Capri la convention dei giovani industriali 2016 ha detto che le aziende italiane continuano a pagare l’energia più di quelle tedesche.
Rispetto alle grandi aziende manifatturiere energivore, non è vero. Esse hanno prezzi perlopiù allineati e sia da noi sia in Germania sono sussidiate: in Italia prevalentemente a spese delle bollette delle aziende più piccole e non manifatturiere (e quindi se mettiamo insieme tutte le imprese Boccia ha ragione), in Germania a spese delle bollette domestiche.

Un altro luogo comune, questo fino a ora fondato, è che l’Italia sia un paese fortemente importatore di elettricità.
Un motivo importante per cui è stato a lungo così è che la Francia, a cui siamo molto interconnessi, produce prevalentemente da nucleare. Una tecnologia complessivamente costosa ma i cui costi sono perlopiù fissi e non legati al volume della produzione, con prezzi per unità d’energia quindi di norma competitivi sul mercato all’ingrosso rispetto a quelli italiani.
(Un cittadino francese potrebbe chiedersi perché con le sue tasse debba mantenere centrali che sono servite a lungo ad abbassare il prezzo dell’energia in Italia).


Inverno 2016-2017

Il guaio è che le centrali nucleari francesi sono sempre più vecchie. Molte andranno sostituite, e molte in questo periodo sono sottoposte a interventi di manutenzione massicci, anche in seguito alla sconcertante scoperta della falsificazione di documenti sulla resistenza dei materiali da parte di fornitori di parti delle macchine. Il risultato, all'inizio di ottobre 2016, è stata una capacità produttiva transalpina mai così bassa dal 1998.
Il prezzo all’ingrosso dell’elettricità oltralpe ne ha risentito passando nell'autunno 2016 in pochi mesi da 30 a 70 €/MWh, superando quindi quello italiano che prima si aggirava sui 40 € e che, trascinato dalla Francia, ha poi avuto fiammate fino a 60. Nell'inverno successivo la situazione si è esacerbata a causa dei consumi elettrici per il riscaldamento francese, portando spesso i prezzi d'oltralpe oltre 100 €/MWh e i nostri oltre 80.

Traliccio elettrico sulle montagne di Cogne
fotografato da Derrick
Cosa succede tra due mercati collegati?
Succede che quello con i prezzi interni più bassi esporta. E così, il flusso dell’energia tra Italia e Francia si è recentemente spesso invertito rispetto al solito, rendendo l'Italia esportatrice.

Un altro effetto dell'interconnessione tra mercati è che i prezzi tendono ad allinearsi, alzandosi nel mercato che esporta e abbassandosi in quello che importa.
E così anche la battuta che facevo prima riguardo ai francesi s’inverte: chi normalmente da noi si lagna del fatto che importiamo elettricità sarà felice di pagarla più cara nei periodi in cui la esportiamo

I Radicali dai tempi della prima strategia energetica nazionale (ora in procinto di essere aggiornata), ma soprattutto da quelli di Chernobyl con Marco Pannella, sostengono che il nucleare non è una soluzione conveniente per produrre elettricità, e l’esperienza recente sembra dar loro ragione. Centrali con enormi costi di investimento, poco flessibili e scarsamente gestibili in una logica di mercato, e pressoché mai finanziabili senza garanzie pubbliche.
La Francia e i suoi consumatori stanno pagando care le difficoltà tecniche ed economiche di rinnovare il proprio parco, che è vecchio e può continuare a funzionare solo a fronte di verifiche severe da parte della locale autorità per la sicurezza nucleare.
(Una parte importante dei problemi di adeguatezza produttiva francese è emersa anche a causa della rigidità dell'inverno 2017, che ha aggiunto alla domanda elettrica quella da riscaldamento. La punta di consumo transalpina avviene infatti in inverno e non a luglio come da noi per i condizionatori, con un picco di domanda complessivo quasi doppio del nostro, che senza riscaldamento elettrico sarebbe invece più o meno allineato).

Ebbene, come reagisce il nostro sistema elettrico, fortemente interconnesso a oltralpe, a questo scenario?
Usando le flessibilità che a differenza di altri ha a disposizione: centrali a gas che possono accendersi usando la notevole capacità di importazione del gas di cui l’Italia dispone e di cui disporrà sempre di più stando agli investimenti già in corso di attivazione. La conseguenza è come abbiamo visto un incremento dei prezzi italiani di breve periodo sia dell’elettricità sia del gas, non però quanto quelli francesi nei momenti di scarsità. Addirittura il 24 gennaio 2017 perfino in Germania i prezzi hanno per un po’ superato i 100 Euro al MWh, mentre in Italia la media nazionale si è assestata in quel periodo poco sopra gli 80 Euro/MWh.

Insomma, i fatti dell'autunno-inverno 2016-2017 sembrano dar ragione alla strategia energetica italiana, che ha puntato su gas e flessibilità, oltre che sulle rinnovabili.
Ci si può aspettare che anche in futuro ci sia spazio perché l’Italia operi come esportatrice d'elettricità? Guardando i prezzi a termine (cioè dei contratti finanziari o fisici riferiti all'elettricità in Italia nei prossimi anni) si direbbe, al momento di questo articolo, di no.
Il motivo è che almeno per un po' il sistema produttivo elettrico italiano continuerà ad avere costi variabili (che non vuol dire totali) più alti rispetto a quelli dei Paesi vicini.

D'altra parte è vero che i prezzi a termine nel periodo di questo articolo continuano a essere bassi per l’Italia, per esempio nella principale borsa elettrica europea (la tedesca EEX), indicando aspettative di scarsa domanda futura per la produzione italiana. E prezzi a termine bassi sono un'opportunità di arbitraggio che qualcuno dall'estero potrebbe cogliere di qui ai prossimi anni comprando contratti d'energia in Italia. Ma si tratta di indicazioni di prezzi futuri basate su piccoli volumi scambiati, che potrebbero quindi rivelarsi poco significative.

Di certo, i tempi del blackout (quello nazionale intendo, e non mi riferisco al recente disastro delle reti abruzzesi sotto la neve) sono molto, molto lontani.


Aggiornamento: verso l'inverno 2017-2018


Gl’indizi per l’inverno 2017-18 sembrano andare nella stessa direzione del precedente, anzi peggio, a causa della siccità non solo estiva, ma anche fino a tutto il mese di ottobre 2017, che affligge i bacini idroelettrici alpini e ancora di più quelli appenninici. A settembre i primi, come ha scritto Jacopo Giliberto sul Sole 24 ore il 2 novembre 2017 riportando dati Terna, erano riempiti a poco più della metà della loro capacità idrica, e i secondi a poco più di un terzo, record negativo dal 1970.

Questo significa che al possibile picco di importazione da parte della Francia nel 2018 l’Italia potrebbe essere meno preparata a causa della minore capacità idroelettrica.
Va molto meglio nel settore della generazione a gas, dove le centrali termoelettriche, così come tutti gli utilizzatori di gas naturale in Italia, possono contare su una batteria di stoccaggi geologici pressoché pieni fino all'autunno 2017, cioè all’inizio della stagione di erogazione, quella in cui i serbatoi iniziano a dare gas anziché riceverlo come in estate.
E sarà capacità di cui c’è bisogno, visto che in Francia gli interventi ad alcune delle centrali nucleari al momento di questo articolo ferme stanno prendendo più tempo del previsto, compresi quelli in una diga nei pressi dell’impianto di Tricastin, a nord di Avignone. Un impianto di un migliaio di MW di potenza costruito negli anni ’70 e operativo dagli ’80, già teatro di due incidenti relativamente gravi nel 2008, con perdita nell’ambiente di uranio e di particelle radioattive. In seguito ai quali un consorzio viticolo della zona ottenne di togliere il toponimo “Tricastin” dal suo vino per contrastare il calo delle vendite successivo agli incidenti.

domenica 3 aprile 2016

Referendum "trivelle": cosa votare? - D271

Votare sì o no al referendum impropriamente detto "trivelle" del 17 aprile 2016?

Farsi un’idea non è facile, perché le risorse informative che si trovano sono tipicamente a tesi. Anche quelle con dati affidabili. Ma uno che cerca di farsi un’idea tende a diffidare di chi vuole convincerlo ancor prima di informarlo. Io per distinguermi mi limiterò a invitare ad andare a votare, e a fornire alcune informazioni e considerazioni che mi sembrano rilevanti per decidere se sì o no.


Le concessioni all'attività di sfruttamento degli idrocarburi

In Italia le concessioni per estrarre idrocarburi le dà un’unità del ministero per lo Sviluppo Economico (ne abbiamo già parlato per esempio qui). La norma principale che le regola è del ’91 ed è stata modificata varie volte, tra cui con il DL 83/12, lo “Sbloccaitalia” del 2014 e la legge di Stabilità 2016 (al comma 239).

Le concessioni hanno di norma una durata di 30 anni prorogabile più volte attraverso apposita istanza, e prevedono impegni anche di ripristino ambientale a fine concessione stabiliti dal MiSE caso per caso, all'interno di norme generali tra cui propri decreti direttoriali. Stando a quanto Derrick ha trovato, le norme non prevedono tassativamente bonifiche in tempi perentori.

Recentemente il divieto di nuove concessioni in mare in aree protette è stato esteso a tutta la zona entro le 12 miglia dalla costa e dalle aree protette, con l'eccezione delle concessioni in corso. Questa eccezione, per com'è scritta (in modo purtroppo sibillino) nella Stabilità 2016, introduce anche, secondo l'Ufficio centrale del referendum, una proroga per tutta la vita produttiva delle concessioni a cui si applica. Proprio le parole che introducono tale proroga sono oggetto del quesito abrogativo.

Vari altri quesiti cosiddetti sulle trivelle erano stati presentati prima della legge di Stabilità, che li ha resi secondo l’ufficio centrale del Referendum e la Corte Costituzionale superati, a differenza di quello per cui si vota il 17 aprile.


Cosa succede se vince il sì

Secondo l'Ufficio centrale del referendum la vittoria del sì comporterebbe due effetti:
  1. la cancellazione dell’esenzione per le concessioni già rilasciate dal divieto di attività entro le 12 miglia (con effetto alla scadenza)
  2. la cancellazione della proroga automatica delle concessioni.

Dunque se passa il sì i giacimenti in mare entro le 12 miglia potranno essere coltivati solo fino alla scadenza della concessione in corso.

E poi?
La piattaforma "Luna B", a 8 Km dalla costa di Crotone,
collegata a 12 dei pozzi del giacimento con la maggiore
produzione di gas tra quelli che non potrebbero

continuare la produzione a fine licenza (in questo
caso 2017) se vince il sì. (Copyright Ionica Gas)
  • Si lascerebbero il gas (in gran parte dei casi) e il petrolio dei giacimenti sotto costa inutilizzati a fine concessioni? Sì.
  • È irrazionale bloccare la produzione di giacimenti già sviluppati? Sì, decisamente. A peggiorare le cose c'è che, una volta chiusi i pozzi attivi a fine concessione, lo sfruttamento delle risorse residue del giacimento richiede nuovi pozzi (e quindi: trivelle).
  • Si tratta di tanto gas? No: una volta scadute tutte le concessioni sotto costa perderemmo una produzione che oggi vale meno del 3% del fabbisogno nazionale (e che a fine licenze sarà ulteriormente scemata).
  • Il sì aumenterebbe le navi per far arrivare da fuori il gas e il petrolio? Verosimilmente no, checché ne dicano in molti: il gas è oggi di norma più economico importarlo via metanodotti, dove c’è un sacco di capacità disponibile. Riguardo al petrolio e ai suoi prodotti, non solo l’importazione ma anche l’esportazione e i transiti di semilavorati alimentano il traffico via nave. Per esempio il progetto petrolifero lucano di Tempa Rossa prevede elevato traffico navale in uscita dai depositi portuali di Taranto (dove arriverebbe via oleodotto).
  • Importare di più ci farebbe pagare un prezzo più alto per gas e petrolio? No, salvo la componente del costo di trasporto. Il prezzo del gas e del petrolio di un medesimo tipo in sé sono quelli dei mercati internazionali e non dipendono dalla loro origine. Ci sarebbe però un effetto negativo sulla bilancia commerciale nazionale (e quindi su quella che impropriamente molti chiamano "bolletta energetica" nazionale. Che però non corrisponde alla spesa per l'energia dei consumatori nazionali, visto che quest'ultima include anche la spesa per l'energia non importata).


Inconvenienti della norma così com'è e considerazioni di strategia energetica

  • Il prolungamento "a vita" delle concessioni previsto con la Stabilità è preoccupante? Sì, perché potrebbe ledere il principio generale della determinatezza e della congruità della loro durata (articolo 4 della direttiva UE 22/1994) e ridurre le possibilità del Governo di porre nuove condizioni ai concessionari al momento dei rinnovi, e di valutare l'opportunità stessa dei rinnovi.
  • In generale, ha senso in termini di patrimonio nazionale accelerare l’estrazione di idrocarburi? Ai prezzi molto bassi attuali no. Probabile che queste stesse risorse, che finché sono sotto terra sono un patrimonio pubblico, varranno di più in futuro. Comprese le royalty, che in Italia già sono piuttosto basse in termini di aliquota e il cui gettito è proporzionale al prezzo dell’idrocarburo. (È irrazionale che il bilancio dello Stato non includa un vero stato patrimoniale delle risorse ambientali da approvare con le sue variazioni ogni anno dal Parlamento con la legge di bilancio).

E ancora più in generale: ci conviene puntare a uno sviluppo basato su petrolio e gas? In Derrick ne abbiamo parlato varie volte.
Se la risposta è no, come io credo, non è però automatico che convenga votare sì a questo quesito. E quindi?


Una possibile conclusione

Credo che una ragione solida per il sì sia contrastare la durata "a vita" delle concessioni (punto 1 sopra, peraltro controverso). Credo anche che una vittoria del sì sarebbe compatibile con una successiva modifica alle norme che permetta l’estrazione delle risorse dai giacimenti già sviluppati. Cioè che riqualifichi l'eccezione al divieto delle 12 miglia ormai consolidato, ma in modo più restrittivo, con maggiori tutele, tempi certi per le bonifiche e non certo concessioni ad libitum, in modo simile a come già era nel DL 83/2012 (link sopra).


Altri riferimenti (oltre ai link sul testo)

Anagrafe di concessioni, giacimenti, piattaforme e pozzi di petrolio e gas in Italia (UNMIG - Ministero dello Sviluppo Economico): http://unmig.sviluppoeconomico.gov.it/unmig/pozzi/pozzi.asp

Dati di produzione oil e gas off shore entro le dodici miglia (di Dario Faccini per Aspo): http://aspoitalia.wordpress.com/2016/03/07/le-bufale-sul-referendum-del-17-aprile/

Sentenza 17/2016 della Corte Costituzionale che sancisce l’ammissibilità del quesito come riformulato dall’Ufficio centrale per il Referendum della Corte di Cassazione:
http://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2016&numero=17

martedì 29 settembre 2015

Autonomia elettrica domestica: quanto costa? - D251/2

L’ultima volta abbiamo parlato di riforma delle tariffe elettriche di contribuzione agli oneri generali di sistema, e abbiamo visto che si pagherà più in base alla dimensione del collegamento alla rete che ai consumi.
E se io mi stacco dalla rete? Posso risparmiare? Domanda che gli ascoltatori di Derrick si fanno (e mi fanno) sempre più spesso.

Per rispondere ci è prezioso uno studio dell’RSE, l’istituto pubblico di ricerca energetica già altre volte ospitato qui a Derrick, che confronta, per alcune tecnologie oggi disponibili, il costo dell’energia acquistata dalla rete alle attuali tariffe di riferimento domestiche con quello che si avrebbe producendo (e stoccando) energia elettrica da soli, in totale autarchia.
Lo studio integrale non è ancora pubblicato ma Derrick ne ha preso visione, e ce ne parla Luigi Mazzocchi (ingegnere, direttore del dipartimento tecnologie di generazione e materiali di RSE SpA):



La soluzione più economica tra quelle esaminate dal RSE prevede l’abbinamento di un microcogeneratore, cioè un piccolo motore a gas naturale che muove un generatore elettrico da 1,5 kW (sufficiente a far funzionare una lavatrice) e produce calore per gli usi domestici, più pannelli fotovoltaici e una batteria al litio di capacità di 3,5 kWh (sufficiente a un paio di cicli di lavatrice).

Mazzocchi, l’abbiamo sentito, ci ha spiegato che per ora ai consumatori domestici staccarsi non conviene, se non a clienti con consumi molto al disopra di quelli di una famiglia normale. Il maggior costo rispetto a comprare dalla rete potrebbe però essere ridotto non solo dai miglioramenti tecnologici, ma anche dall’eventuale peggioramento delle bollette in caso di aumento ulteriore degli oneri parafiscali. Come dicevamo la volta scorsa, questo è un punto fondamentale: una buona parte dell’incentivo all’autarchia viene non dal livello dei costi di una simile scelta, ma dalla possibilità di non pagare la parafiscalità delle bollette (costi evitati).


Comuni energetiche: quanta autonomia avrebbero?

Mi scrive Lorenzo Busciglio, sindaco di Beinette in provincia di Cuneo, che chiede se sia immaginabile il distacco dalla rete elettrica nazionale di un’intera comunità locale.

Domanda non facile e riguardo alla quale occorrono dei distinguo: per servire una comunità locale di clienti elettrici occorre una rete di distribuzione su cui i venditori di energia possano farla transitare. La gestione di questa rete (cioè l’attività di distribuzione) è affidata per legge in concessione dal Governo e poi regolata dalle norme di settore dell’Autorità per l’Energia. Concessione che quindi la comunità, se volesse essere autonoma, dovrebbe acquisire, sostituendosi nell’area interessata al concessionario uscente non si sa bene come, visto che nuove gare di affidamento non sono all’orizzonte.

E non ritengo che il semplice fatto di non essere collegati alla rete di trasmissione nazionale (cioè il fatto di autoprodursi e stoccarsi l’energia) permetta a una rete locale di considerarsi estranea alle norme sulla distribuzione elettrica. Infatti anche le isole non interconnesse con il continente sono oggi concessionarie del servizio di distribuzione locale (anche se lo operano in deroga a molte delle regole di assetto di mercato che valgono nelle grandi reti locali interconnesse).

Potrebbe essere diverso il caso di una vera comune energetica ad isola: cioè di un unico soggetto che produca e porti energia a vari punti di consumo su una propria rete non collegata ad altre e senza vendere o misurare l’energia. In altri termini: se un comune producesse e fornisse energia ai suoi cittadini senza un corrispettivo ma ripagandosi con le tasse, sarebbe trattato come un distributore elettrico dalle norme? Forse no.


Qualità dell'autofornitura

Tornando al caso di un singolo cliente, abbiamo visto la volta scorsa che l’autonomia costa per ora di più. Ma costi a parte, un sistema autonomo di generazione e stoccaggio di elettricità garantisce la stessa affidabilità? Di sicuro è più complicato e impegnativo avere questi apparecchi in casa che essere un semplice cliente del sistema elettrico.
Sentiamo su questo ancora Luigi Mazzocchi:





Fascino dell'autonomia e rifiuto del mercato?

A me sembra che in questo desiderio diffuso di autonomia energetica ci sia anche una componente per così dire sentimentale: voglia di libertà e autonomia, e anche po’ di avversione (forse ingenua) per le transazioni economiche esplicite e intermediate, come se invece il baratto e l’autonomia ci rendessero più puri. Razionale o no, però, una cosa è abbastanza certa: l’autonomia energetica è già fattibile, e tra qualche anno potrebbe diventare abbordabile.

martedì 9 dicembre 2014

Aspetti economici della coltivazione di idrocarburi nazionali - Parte 1 - D221

Ha senso tirare fuori il petrolio e il gas del nostro sottosuolo?

Questo tema è tornato molto d’attualità dopo che prima la Strategia Energetica Nazionale del marzo 2013, poi il decreto Sbloccaitalia nell'autunno 2014 hanno rilanciato lo sfruttamento di queste risorse.
Sempre del 2014 è un protocollo tra la Regione Sicilia e Assomineraria, in rappresentanza dell’Eni e di altre aziende petrolifere, per favorire lo sfruttamento di pozzi vecchi e nuovi, in particolare al largo delle coste meridionali siciliane, di cui parlerò in dettaglio nella prossima puntata.

Dunque torniamo al quesito iniziale: il senso economico (inteso in modo olistico, dove anche gli effetti su ambiente e attività alternative sono valutabili economicamente) dello sfruttamento delle risorse nazionali di petrolio e gas.
Nei regimi concessori, come da noi, il petrolio appartiene allo Stato. Le sue riserve sono quindi una posta attiva in un ipotetico stato patrimoniale delle risorse pubbliche, che però non viene redatto o almeno non con la completezza e facilità d'accesso che dovrebbe avere un bilancio almeno nei confronti degli azionisti (in questo caso: noi).
Quando le riserve geologiche vengono consumate, la posta attiva dell'ipotetico stato patrimoniale si riduce e produce redditi privati, parte dei quali tornano allo Stato sotto forma di royalty e di tasse.

Uno studio di Nomisma Energia del 2012 mostra che le royalty nei paesi OCSE dove sono applicate sono generalmente più alte che in Italia, ma in qualche caso nel nord Europa (Norvegia, Irlanda, Danimarca) sono state abolite e sostituite da imposte sul reddito ad hoc. Il risultato generale secondo Nomisma è comunque che da noi la tassazione specifica per le attività di coltivazione degli idrocarburi è relativamente bassa, mentre si torna a livelli più allineati solo includendo tutte le imposte sul reddito delle aziende.
Un favore alle aziende petrolifere operanti in Italia? Proprio Davide Tabarelli, direttore di Nomisma Energia, in una conversazione a margine di un convegno mi diceva che parte di questo gap tra le nostre royalty e quelle di altri Paesi potrebbe invece spiegarsi con la necessità di compensare, rispetto agli investitori, la maggiore incertezza e inefficienza dell’apparato burocratico italiano rispetto ad altri.

Resta il fatto che più basse sono le royalty meno della rendita di estrazione il nostro Stato si riprende. E perché la riduzione delle riserve di idrocarburi sia più sostenibile almeno dal punto di vista economico occorrerebbe destinare le royalty a investimenti che aumentino il valore di altre parti di questo patrimonio.
Un’operazione di compensazione di questo tipo il Ministero dello Sviluppo Economico aveva previsto con il ministro Zanonato, attraverso un “fondo investimenti per i territori interessati” al quale destinare tra il 15 al 30% dell’IRES pagata da aziende di coltivazione di idrocarburi per i nuovi progetti. Fondo che credo desse attuazione all’articolo 16 del decreto-Legge del 24 gennaio 2012 come convertito, che prevede la destinazione a “progetti  infrastrutturali  e  occupazionali  di crescita” dei territori interessati. Definizione, che, ne converrete, è piuttosto generica e si presta a scelte arbitrarie.
Chiarimenti arrivarono però con un decreto del Ministero dell’Economia del 12 settembre 2013, art. 1 comma 3, che completa la definizione così (la riporto com’è scritta):
“L'intervento  del  Fondo  e'  finalizzato  al  finanziamento  di progetti  strategici,  sia  di  carattere  infrastrutturale  sia   di carattere immateriale, di rilievo regionale, provinciale  o  locale, aventi natura di grandi progetti  o  di  investimenti  articolati  in singoli interventi di consistenza progettuale ovvero realizzativa tra loro funzionalmente connessi, in relazione a  obiettivi  e  risultati quantificabili e misurabili, anche  per  quanto  attiene  al  profilo temporale.”

Il discorso continua qui

martedì 6 maggio 2014

Pro e contro dell'energia da biogas - Parte 1 - D201

È sempre più frequente, soprattutto nella pianura padana, imbattersi in zone agricole occupate da larghe calotte circolari. Si tratta di contenitori destinati alla digestione anaerobica di biomasse. Scarti agricoli, oppure prodotti agricoli coltivati apposta, letame, scarti della lavorazione alimentare o altro, che attraverso la trasformazione chimica di batteri producono gas combustibili e un residuo utilizzabile come fertilizzante.

I gas combustibili alimentano motori a combustione interna, derivati da motori diesel o a ciclo Otto, accoppiati a generatori elettrici. Il risultato è la produzione di elettricità e il recupero del calore residuo (cogenerazione in gergo), quest’ultimo in parte riutilizzato attraverso reti apposite nel processo stesso di trasformazione della biomassa o per altre necessità, civili, agricole o nei casi di integrazione più fortunata industriali, purché evidentemente in aree limitrofe.

L’uso energetico di biomasse, incluso il biogas ottenuto nel modo che ho detto, è a tutti gli effetti produzione di energia da fonte rinnovabile, perché il combustibile si rigenera attraverso il ciclo vegetale o animale, e per questo ha diritto agli incentivi destinati alle rinnovabili. Naturalmente, e gli ascoltatori fedeli di Derrick lo sanno bene, fonte rinnovabile non vuol dire né fonte senza impatto ambientale né, nel caso delle biomasse, fonte senza emissioni di fumi di combustione dannosi.

Vediamo prima quali ragioni ecologiche possono rendere utili impianti come quelli che ho schematizzato sopra, prima di passare alle ragioni di preoccupazione.

Primo vantaggio ecologico: captazione di gas con un effetto serra molto intenso, come il metano, che nella normale attività agricola verrebbero emessi tal quali in atmosfera e che invece, una volta bruciati, hanno un impatto-serra minore.

Secondo vantaggio ecologico: produzione di energia elettrica e termica spiazzando produzioni convenzionali, per esempio a carbone, a maggiore impatto negativo su ambiente e salute.

Terzo vantaggio ecologico: la trasformazione batterica segregata di liquami biologici riduce l’inquinamento delle acque, tant’è che in effetti è un processo in parte comune ai depuratori.

Molte aziende agricole stanno dotandosi di impianti del genere e questo modifica in modo anche rilevante la morfologia delle campagne coinvolte, il che, comprensibilmente, solleva preoccupazioni. Proverò la prossima volta a fare un elenco delle ragioni invocate di solito dai contrari all’uso energetico del biogas da fonte agricola. Anticipo subito che alcune le trovo pretestuose, altre molto concrete.

martedì 24 settembre 2013

D174 - Il punto sullo shale gas - Parte 4

Quarta puntata del ciclo dedicato agli idrocarburi non convenzionali e in particolare allo shale gas (gas di scisti).

Ci eravamo fermati l'ultima volta ai rischi ambientali. Avevamo menzionato quelli legati all'inquinamento di falde acquifere e in generale alla dispersione dei liquidi di perforazione, ed avevamo accennato a quelli sismici, su cui mi sembra le preoccupazioni degli studiosi siamo più sporadiche e controverse.
La possibilità di rischi sismici legati all'attività estrattiva di idrocarburi o di altro non è una novità assoluta. Intanto sono possibili fenomeni di instabilità legati allo svuotamento delle rocce madri dagli idrocarburi o da acqua (quando non rimpiazzati da altri fluidi), fenomeno cui in Italia è stato attribuito anni fa il caso della subsidenza in alto Adriatico, cioè abbassamento del livello del terreno e dei fondali.

Uno studio in pubblicazione presso il Journal of Earth and Planetary Science Letters anticipato dal Wall Street Journal dello scorso 27 agosto lega, almeno in termini probabilistici, fenomeni microsismici allo svuotamento degli idrocarburi in un giacimento di petrolio di scisti in Texas, l'Eagle Ford, mentre non trova legami tra sismi e uso della fratturazione idraulica, che invece uno studio precedente degli stessi autori su un altro giacimento texano (chiamato Barnett) ravvisava.

Tutti i timori per ora sembrano aver più presa istituzionale in Europa, sebbene nel vecchio continente lo sfruttamento commerciale del gas di scisti sia enormemente più limitato, mentre le stime riguardo alle riserve sono interessanti, benché inferiori a quelle americane.

In Francia, per esempio, fonti del governo parlavano due anni fa di 500 miliardi di metri cubi di gas tecnicamente sfruttabile nel sud del Paese, mentre il Paese europeo più ricco di gas di scisti, con addirittura la metà di tutte le riserve continentali, è la Polonia, dove nel marzo 2011 il ministero dell’ambiente aveva assegnato 80 concessioni per la ricerca e l’esplorazione, con permessi originariamente acquisiti da gruppi come ExxonMobil, TotalFina, Bp, Bg, Statoil, Shell e le italiane Eni e Sorgenia.

In Gran Bretagna il governo Cameron ha dato recentemente il via alle prospezioni per gli idrocarburi di scisti nel Sussex, sollevando proteste che hanno coinvolto perfino la chiesa anglicana, la quale ha deciso di sfruttare, cedendo i permessi di perforazione, i diritti minerari di ampie terre di sua proprietà.
Quali potrebbero essere le conseguenze nei mercati energetici di un boom anche europeo del gas di scisti? Intanto si prospetterebbero nuovi scenari in termini di minore dipendenza dalle importazioni russe e nordafricane. Poi, la disponibilità di gas a buon mercato valorizzerebbe la scelta industriale italiana di produrre energia termoelettrica prevalentemente a gas, scelta che viene di continuo additata (e solo in parte a ragione) come fattore di nostra scarsa competitività e che invece potrebbe venire emulata da Paesi come la Francia, se confermerà di voler ridurre l'incidenza del nucleare nel proprio mix.

martedì 17 settembre 2013

D173 - Il punto sullo shale gas - Parte 3

Terza puntata di un ciclo dedicato agli idrocarburi non convenzionali e in particolare allo shale gas (gas di scisti). Abbiamo visto che negli Stati Uniti la produzione di gas non convenzionale è esplosa negli ultimi anni, portando a una contrazione delle importazioni, con effetti notevoli sui mercati internazionali non solo del gas, ma anche del carbone diventato più a buon mercato anche in Europa, con conseguenze ambientali negative.

Gli USA diventeranno quindi un esportatore di gas?

Se nel caso del petrolio la legge americana limita le esportazioni, per il gas non è così. Ciò che per ora vincola la possibilità USA di esportare gas sono le infrastrutture.
Il gas naturale si sposta o via tubo o via nave, liquefatto. Le navi per portare il gas USA in Asia o Europa ci sono, ma servono anche terminali di liquefazione, mentre gli USA oggi sono attrezzati con terminali di rigassificazione, cioè recettori, pensati per un Paese a cui serve importare.
Sono già partiti però investimenti per terminali di liquefazione. Quindi, se i giacimenti shale continueranno la tendenza di aumento della produzione (cosa niente affatto scontata come abbiamo visto anche l'ultima volta), è verosimile un futuro con navi metaniere che partono cariche dagli USA.

Torniamo ora agli aspetti ambientali legati alla tecnica del fracking, la fratturazione idraulica che permette l'estrazione degli idrocarburi di scisti.

Forse il principale aspetto critico riguarda il rischio di interazione dei liquidi del fracking – idrocarburo compreso – con le falde acquifere, cosa che secondo i critici e secondo studi della Duke University potrebbe essere alla base di alcuni video piuttosto impressionanti (cercare su youtube per credere) di massaie americane che incendiano con un fiammifero l'acqua del rubinetto di casa.
Sul Financial Times dello scorso 22 agosto, però, viene riportata l'opinione contraria di Susan Brantley, geologa alla Pennsylvania State University, secondo cui alla base dei fenomeni di rubinetti incendiari ci sarebbero sacche di non meglio specificato gas "biogenetico".
Su posizioni intermedie uno studio del MIT del 2011, che ritiene gestibili ma rilevanti i rischi ambientali del fracking, in particolare riguardo allo smaltimento improprio o alla dispersione dei fluidi di perforazione e all'eccessivo consumo di acqua.
Ancora più controversi sono i riscontri della comunità scientifica sui rischi sismici. Ma di questi parleremo martedì.

martedì 10 settembre 2013

D172 – Il punto sullo shale gas - Parte 2

Seconda puntata di un ciclo dedicato agli idrocarburi non convenzionali e in particolare allo shale gas (gas di scisti).

Ripartiamo, approfondendo, da dov'eravamo rimasti l'ultima volta. I dati dell'agenzia statunitense per le statistiche sull'energia indicano una quadruplicazione delle riserve certe USA di shale gas tra il 2007 e il 2010, con un livello a fine 2010 già di quasi 3000 miliardi di metri cubi, pari a oltre 40 anni di consumi italiani attuali. E anche la produzione è aumentata tanto da deprimere il prezzo spot a inizio 2012 sotto i 7 centesimi di dollaro al metro cubo (recentemente risalito fino a raddoppiare, ma ancora molto basso rispetto agli anni precedenti e pari a solo un terzo del prezzo italiano nel frattempo quasi allineatosi a quello centroeuropeo).

Da un lato quindi gli USA, che secondo l'International Energy Agency di Parigi hanno un futuro di autosufficienza petrolifera, potrebbero azzerare o invertire anche il proprio import di gas, dall'altro però il crollo così violento del prezzo sta portando a una riduzione pesante dell'investimento in estrazione da parte di aziende come BHP e Shell, come riporta recentemente tra gli altri Bloomberg.

Questo rallentamento negli investimenti secondo i più critici potrebbe essere l'inizio dello scoppio di una bolla: la bolla della filiera della prospezione ed estrazione dello shale gas. Questo accadrebbe se gli investimenti fatti fin qui si rivelassero di colpo non sostenibili in termini di ritorno per producibilità dei giacimenti e prezzo del prodotto. Va in direzione di questa tesi un lavoro dello scorso febbraio di David Hughes del Post Carbon Institute, che afferma che il declino di produzione più veloce del previsto dei giacimenti non convenzionali americani, e la veloce necessità di metterne in produzione degli altri, rendono più alti del previsto i costi fissi per gl'idrocarburi non convenzionali.

Ma qui siamo alle solite: se gli investimenti si fermano, la produzione cala e il prezzo torna in fretta su livelli più sostenibili in termini di ritorno degli investimenti. Detto diversamente: le riserve dipendono dagli investimenti in prospezione ed estrazione, che a loro volta dipendono dal livello e dalla stabilità del prezzo degli idrocarburi. Se il prezzo del gas scende molto, è normale che crollino temporaneamente gli investimenti. In generale, delle variabili macroeconomiche, gli investimenti sono una delle più volatili.
Va in questa direzione, di criticismo alla teoria del picco, per esempio David Blackmon nel blog di Forbes.

Per quanto mi riguarda, mi pare che la contrapposizione tra picchisti e non picchisti sia sterile in termini di conseguenze di politica energetica. Nel senso che le conclusioni a cui arrivano i picchisti (in primis la necessità di abbandonare gli idrocarburi) restano corrette anche se il picco non c'è ancora. Perché gli idrocarburi, non rinnovabili, diventeranno sempre più rari e quindi relativamente costosi da estrarre, oltre che costosi per l'ambiente in termini di danni e di costi di moderazione degli effetti negativi. Quindi affrancarsi il prima possibile dai combustibili fossili è meglio.

La prossima volta ripartiamo dal boom americano del gas di scisti e dagli scambi commerciali di gas tra USA e resto del mondo.

Ringrazio Luca Pardi di Aspo Italia per alcuni dei riferimenti.

martedì 3 settembre 2013

D171 - Il punto (per non addetti) sul boom dello shale gas - 1

Torno dopo la pausa di agosto, e come prima cosa ricordo Dino Marafioti, recentemente scomparso, che centinaia di volte ha introdotto Derrick in versione radiofonica su Radio Radicale il martedì mattina.

Inizia oggi un piccolo ciclo dedicato agli idrocarburi non convenzionali e in particolare allo shale gas (gas di scisti).
Tema non certo nuovo per chi segue Derrick, ma che voglio riprendere alla luce tra le altre cose della ricerca che ho fatto per la redazione di un articolo su Toscana Energia Box, la rivista di Toscana Energia, e di alcuni scambi con Luca Pardi di Aspo Italia, che ringrazio.

Negli USA il boom dello shale gas ha ormai raggiunto anche l'immaginario dei non addetti, tanto che lo scorso maggio era in programmazione a New York un musical critico, intitolato Marcellus Shale dal nome di una vastissima riserva di idrocarburo di scisti nella zona del New England ben visibile in questa mappa.

L'abusato acronimo NIMBY ("non nel cortile dietro casa mia", in inglese) per simboleggiare l'avversione a insediamenti industriali in questo caso ha una rilevanza quasi letterale, visto che negli Stati Uniti ci sono casi di pozzi di idrocarburi shale realizzati molto vicino a insediamenti abitati, anche perché per sfruttare queste risorse serve un numero maggiore di pozzi rispetto a quanto occorra per gli idrocarburi convenzionali, e ciò è più compatibile con la conformazione geografica e con il diritto degli Stati Uniti che con quelli europei. Negli USA infatti vaste aree superficiali possono essere utilizzate dai proprietari dei terreni (o da chi ne abbia acquistato da loro il diritto) che hanno anche la facoltà di forarli, diversamente da ciò che avviene di norma in Europa.

Perché estrarre idrocarburi non convenzionali richiede più pozzi? Perché il gas o l'olio si trovano intrappolati in rocce scarsamente permeabili e non porose come invece nei giacimenti convenzionali. Una conseguenza è che, per usare le parole dell’esperto Massimo Nicolazzi, nel gas non convenzionale “ogni pozzo è un piccolo giacimento a sé”. Quindi i tanti fori servono per andarsi a prendere direttamente tutto l'idrocarburo, che non arriva per pressione da altre zone della riserva.

Altra caratteristica distintiva dello sfruttamento degli idrocarburi di scisti è la necessità di frantumare le rocce contenenti l’idrocarburo al fine di liberarlo. Questa tecnica, detta fracking, utilizza un’azione idromeccanica con liquidi ad altissima pressione, che una volta recuperati e filtrati restituiscono il petrolio o il gas.

L'esistenza di scisti ricchi di idrocarburi in molte aree del mondo non è una scoperta recente. La novità degli ultimi anni però è che le tecniche di fracking, introdotte per la prima volta negli USA negli anni Quaranta, si sono sviluppate su larga scala a costi più competitivi e con aggiornamenti tecnici, come la capacità di perforare più facilmente in orizzontale.
Il termine "rivoluzione" mi sembra giustificato se non altro per gli effetti di mercato globali che sta comportando.

La prossima volta ne vedremo i dettagli, ma una possibile sintesi è che nel 2012 più di un terzo del gas estratto negli Stati Uniti era shale, contro il 2% nel 2000.

Le conseguenze sono state il crollo del prezzo locale fino a un minimo nel 2012, e la riduzione costante delle importazioni USA con effetti a cascata sul mercato dei combustibili, incluso il mercato del carbone, diventato più economico e più utilizzato in Europa, come conseguenza dell'essere stato spiazzato dal gas in America.

(Curioso, no?, che il continente paladino della lotta ai cambiamenti climatici consumi il carbone che gli USA non vogliono più).

martedì 14 maggio 2013

D160 - La guerra dei sussidi

Nei giorni scorsi uno scoop del Wall Street Journal ha annunciato la presunta intenzione della Commissione Europea di introdurre fortissimi dazi sull'import di pannelli fotovoltaici extracomunitari, perlopiù quelli cinesi per i quali l'Europa rappresenta la maggioranza assoluta del fatturato.
Se confermati, i dazi aumenterebbero il prezzo di equilibrio dei pannelli in Europa, bruscamente interrompendo un trend di diminuzione che fa (o faceva) presagire una futura non troppo lontana capacità economica dei produttori di energia fotovoltaica europei di competere sui mercati elettrici senza più bisogno di aiuti.

L'Europa, alcuni Paesi in particolare, hanno fatto una scelta industriale enorme di sviluppo di questo settore, portando la Germania a diventare di gran lunga il più grande produttore al mondo di elettricità fotovoltaica (con una capacità installata pari a circa 30 centrali convenzionali di grande dimensione e una produzione di energia pari grosso modo a 5). L'Italia dal canto suo è il numero due, con circa la metà dei megawatt rispetto alla Germania. Una scelta per la quale, almeno in questa dimensione, era impossibile non ricorrere a sussidi pagati in bolletta. 

Sussidi che però si stanno nel frattempo rivelando insostenibili, e, come abbiamo visto la volta scorsa qui, hanno portato sia in Germania sia in Italia a pressioni, di successo, per esentarne gli oneri alle aziende energivore, violando in senso lato il principio europeo del "chi inquina paga", e con la spada di Damocle della stessa UE che dovrà decidere se queste esenzioni siano aiuti di Stato.

Provo a ricapitolare: la generazione elettrica fotovoltaica europea costa ancora molto in termini di sussidi. E ha prodotto un boom dell'import di materiale cinese. Questo sta producendo per reazione un'ondata protezionistica il cui effetto aumenterebbe i costi fissi del megawattora fotovoltaico e ancora più necessari gli incentivi, che già adesso sono insostenibili.
Nel frattempo, le centrali convenzionali chiedono anche loro sussidi perché hanno visto la quota di mercato abbattuta proprio dall'effetto degli aiuti alle centrali rinnovabili.

Una conclusione che mi sento di fare allora è questa:
-         Se metti un sussidio crei anche distorsioni inattese che portano alla richiesta di contro-sussidi.
-         Se basi un'industria sui sussidi, cioè soldi dei contribuenti quand'anche sotto forma di pagatori di bollette, inevitabilmente sorge il problema politico di accettare che quei soldi finiscano all'estero.

Stessa conclusione in versione stringatissima: sussidi chiamano sussidi, sussidi chiamano protezionismo.

martedì 9 aprile 2013

D156 - I sussidi dell'energia


Ultimamente c'è stato un acuirsi in particolare in Italia della polemica tra produttori di elettricità convenzionali, da fonti fossili, e produttori da fonti rinnovabili. Un botta e risposta è stato originato da Assoelettrica, che qualche settimana fa ha diffuso un pamphlet che stigmatizza il costo enorme dei sussidi italiani al fotovoltaico, e a cui ha risposto Assosolare con un comunicato al quale Assoelettrica ha a sua volta ribattuto (i link qui).

Quali gli argomenti principali? Assoelettrica fa notare che i sussidi al fotovoltaico, anche se sono quasi finiti per i nuovi impianti, sono per quelli che li hanno ottenuti fin qui elevatissimi, una media di quasi 300 €/MWh a fronte di un prezzo all'ingrosso dell'energia elettrica che in Italia si aggira oggi sui 70 €.
Una simile incentivazione ha portato a una quantità di installazioni fotovoltaiche molto più alta di quanto il governo avesse pianificato (e il Governo e il Parlamento precedenti a quelli attuali sono senz'altro colpevoli di non aver inserito dei tetti alla spesa). E questi super incentivi hanno spiazzato la generazione elettrica convenzionale. In altri termini, molte centrali non sussidiate ora sono ferme, e questo spinge la reazione di Assoelettrica.

Assosolare risponde soprattutto due cose. La prima: fa notare che anche le fonti convenzionali con il "CIP6" hanno ricevuto sussidi molto onerosi, anche se per un ammontare complessivo nettamente inferiore ai circa 6 miliardi/anno del fotovoltaico. A questo Assoelettrica ribatte che il CIP6 nacque quando occorreva ridurre la dipendenza italiana dall'import di energia, ma a ben vedere questo è un obiettivo evergreen, per motivi che a me in buona parte sfuggono, tanto che è ripetuto anche nella Strategia Energetica Nazionale, e i produttori da rinnovabili possono vantarsi dello stesso contributo all'autarchia.

L'altra stoccata di Assosolare riprende un dato già trattato qui a Derrick: quello sui sussidi alle fonti fossili, che secondo l'International Energy Agency sono ammontati nel 2011 a oltre 500 miliardi di dollari nel mondo. Ma hanno riguardato soprattutto i paesi dell'Est e del Nord Africa, tipicamente esportatori di energie fossili, fa notare Assoelettrica. Vero. Ma nel frattempo è uscito un paper del Fondo Monetario Internazionale che dice che se si tengono in conto i sussidi cosiddetti "post tax", che includono gli effetti negativi del maggior consumo di energia determinato dai sussidi, allora si arriva a 1900 miliardi di dollari su scala globale, di cui i Paesi avanzati pesano per ben il 40%.
I sussidi alle fonti fossili, scrive il Fondo Monetario, per quanto finalizzati alla protezione dei consumatori (e, aggiungo io, non sempre è così) aggravano i bilanci pubblici, spiazzano spesa pubblica prioritaria, deprimono gli investimenti privati, distorcono i consumi, accelerano l'esaurimento delle risorse naturali e si oppongono agli investimenti in decarbonizzazione e fonti rinnovabili.

Insomma i sussidi alle aziende comportano un sacco di problemi. Come ha scritto Giavazzi nel suo rapporto dimenticato al governo Monti, devono essere ridotti al minimo e a quei settori indispensabili che senza di essi non possono svilupparsi. Ecco, stiamo raggiungendo il momento in cui questa condizione non vale più neanche per le fonti di energia rinnovabile come sole e soprattutto vento. Per le fonti convenzionali ciò è vero da un pezzo. Ma proprio l'eccesso di aiuto alle fonti rinnovabili aumenta la pressione per introdurre anche sussidi alle fonti non verdi.

martedì 2 aprile 2013

D155 - La strategia energetica nazionale è decreto - parte 3


Terza puntata sulla Strategia Energetica Nazionale, per semplicità SEN, emanata per decreto del Governo quasi un mese fa dopo una consultazione pubblica, e sulle modifiche rispetto alla sua bozza iniziale.

Con la SEN, per ottenere sostenibilità ambientale, sicurezza degli approvvigionamenti, riduzione della bolletta energetica e crescita economica, i ministeri dello Svilupo Economico e dell'Ambiente propongono una serie di linee guida integrate dell'energia, di cui una settimana fa all'apertura del master SAFE a Roma il sottosegretario Claudio De Vincenti ha rivendicato con passione il valore e l'importanza. È in effetti uno sforzo storico, assente in questa forma da parte dei governi precedenti che pure l'avevano continuamente promesso. Sforzo che però non ha avuto sanzione parlamentare e che quindi resta un atto di indirizzo non cogente, per quanto utile.

Oggi della SEN vediamo il capitolo sull'industria degli idrocarburi.

Il documento descrive la situazione di grande eccesso di capacità produttiva di raffinazione che riguarda l'Italia e altri paesi OCSE, che stanno sperimentando un calo di uso di carburanti per il trasporto su gomma, che si aggiunge in Europa all'impegno a sviluppare combustibili di origine non petrolifera. In Italia, aggiunge Derrick, stiamo vedendo cali nei consumi di combustibili petroliferi dell'ordine dell'8% rispetto a un anno fa, mentre il 2012 si era chiuso con un calo dello stesso ordine di grandezza rispetto all'anno prima.
In questo contesto il Governo auspica da un lato una ristrutturazione del settore raffinazione – con investimenti che temo possano ipotizzarsi pubblici – per una transizione a tecnologie più competitive per le stesse produzioni, dall'altro l'istituzione di un marchio di qualità ambientale per i prodotti raffinati italiani. Soluzioni di contenimento, a cui manca mi pare il coraggio di parlare di necessità di massicce riconversioni, in un settore che è abbastanza impensabile (e nemmeno auspicabile) che possa avere un revival futuro in Italia.

E andando indietro nella filiera del petrolio veniamo a uno dei punti più controversi della SEN: lo sviluppo della produzione di idrocarburi nazionali. Il Governo propone di più o meno raddoppiare la produzione italiana di gas e pertrolio, e dice che è fattibile farlo riducendo il numero di pozzi e quindi di suolo occupato.
Nello stesso tempo, ma qui senza dare spiegazioni, la SEN chiude la porta allo shale gas, cioè alle riserve di gas naturale non convenzionali che hanno rivoluzionato il mercato americano e il cui possibile sfruttamento in Europa è invece molto discusso soprattutto per ragioni ambientali.
La maggiore estrazione di gas e petrolio convenzionali italiani (i cui giacimenti si è invece smesso anche di cercare, scrive il Governo) potrebbe "mobilitare investimenti per circa 15 miliardi di euro coinvolgendo circa 25.000 posti di lavoro, e consentire un risparmio sulla fattura energetica di circa 5 miliardi di euro l’anno per la riduzione di importazioni di combustibili fossili".

Vi soddisfa un'analisi economica del genere? A me no. Perché dà per scontato che ridurre l'import sia di per sé positivo. Il che dal punto di vista del welfare economico è invece un'affermazione apodittica. Infatti, se è del consumatore che ci preoccupiamo, allora importare meno conviene se i costi di approvvigionamento interno alternativi sono più bassi rispetto a quelli dell'import, cosa di cui non si dà evidenza nell'analisi, e che anzi è piuttosto improbabile.
Oppure il discorso è diverso. È un discorso di autarchia energetica e protezione delle imprese nazionali. E la confusione tra i due piani (interessi dei consumatori da un lato e sviluppo, quando non protezione, delle imprese nazionali dall'altro) è purtroppo diffusa in questa strategia come lo è quasi sempre in ciò che bolle sotto a quel coperchio di cui Derrick ha imparato a diffidare. Quello che viene chiamato "politica industriale".

Tornando all'energia, sono molte le critiche di natura più ecologica delle associazioni ambientaliste e di Aspo Italia al rilancio dell'upstream petrolifero italiano previsto nella SEN, e di cui già Derrick dava conto mesi fa in fase di consultazione della bozza di Strategia, e di sul blog troverete i riferimenti.

Meno interessante, a mio parere, l'attacco alla legittimità di questo atto di indirizzo del Governo (per esempio questo), visto che, come dicevo all'inizio, lo stesso Governo non mi sembra attribuisca alla SEN alcuna cogenza se non il valore di analisi che il documento apporta in eredità ai futuri esecutivi.

Martedì prossimo continua su Derrick l'analisi della Strategia Energetica Nazionale.

martedì 26 marzo 2013

D154 - La Strategia Energetica Nazionale è decreto - Parte 2


Seconda puntata di Derrick sulla Strategia Energetica Nazionale (SEN), recente decreto del Governo emanato dopo una consultazione pubblica, e sulle modifiche rispetto alla bozza iniziale di qualche mese fa.
Con la SEN, per ottenere sostenibilità ambientale, sicurezza degli approvvigionamenti, riduzione della bolletta energetica e crescita economica, il Governo propone una serie di linee guida dell'energia, ed eravamo arrivati a parlare del punto sul mercato elettrico e le sue infrastrutture.

Rete elettrica
La SEN evidenzia la necessità di migliorare l'interconnessione degli elettrodotti italiani, in particolare della Sicilia ancora quasi isolata dal continente. Un isolamento, e qui è Derrick che parla, che impedisce la concorrenza tra le centrali elettriche di qua e di là dallo stretto, tanto che in Italia nel 2012 l'energia prodotta dalle centrali siciliane è stata pagata alle centrali in media circa 95 €/MWh contro i circa 70 €/MWh pagati alle centrali del Sud continentale.

Eppure il nuovo cavo di collegamento Sicilia-Calabria, che secondo i piani 2006 del gestore della rete Terna doveva essere completato nel 2010, sarà disponibile se va bene nel 2015. Se va bene, appunto, visto che lo scorso 6 marzo l'Assemblea Regionale Siciliana ha approvato una mozione proposta dal Movimento 5 Stelle per chiedere una variazione del tracciato su suolo siciliano dell'elettrodotto Sorgente-Rizziconi, a difesa della salute degli abitanti delle zone attraversate dal cavo.
In realtà se il cavo ci fosse si spegnerebbero alcune centrali elettriche siciliane obsolete e con emissioni maggiori di quelle che dal continente le spiazzerebbero. E le sollevazioni siciliane contro l'elettrodotto sono infatti probabilmente legate non a timori ambientali, ma occupazionali da parte dei lavoratori di centrali a rischio chiusura, come ha scritto Gionata Picchio su Staffetta Quotidiana del 7 marzo.

Sussidi incrociati nelle tariffe elettriche
In tema di tariffe elettriche, la SEN auspica interventi (già peraltro previsti nel DL sviluppo) su un punto caldissimo e che fu anche al centro di un convegno radicale con la partecipazione del presidente dell'Autorità per l'Energia Bortoni circa un anno fa: il modo con cui diversi consumatori pagano i costi del sistema elettrico. Oggi il sistema produce un sussidio incrociato a vantaggio dei grandissimi consumatori industriali energivori, che pagano l'elettricità meno che in Germania, mentre bastona le piccole e medie aziende. La soluzione auspicata dal Governo va a tutela delle aziende energivore indipendentemente dalla taglia ed è certamente un passo verso l'equità anche se non risolve il dubbio che pagare sconti sull'energia alle aziende nel sistema delle tariffe sia un aiuto di Stato, tema su cui urge una decisione europea.

Mix di generazione
Riguardo al mix di generazione elettrica italiano, la SEN dà una visione che Derrick condivide: dice che se ipotizziamo un futuro di rinnovato impegno a ridurre le emissioni-serra e di maggior integrazione europea delle reti, allora le nostre centrali a gas diventeranno convenienti per non pagare costi ambientali e per esportare capacità di scorta che altri paesi non hanno nella stessa misura.

Martedì prossimo continua su Derrick l'analisi della Strategia Energetica Nazionale.