martedì 29 ottobre 2013

D179 - Il nuovo nucleare inglese di Stato

Scrive Patrick Wintour sul Guardian del 21 ottobre che il responsabile energia del governo britannico, Ed Davey, dovrà presto vedersela con gli ambientalisti, visto che ha deciso di installare due nuovi reattori nucleari da 1600 MW per rimpinguare la capacità di produzione elettrica nazionale.

Ma secondo me Davey dovrebbe preoccuparsi di più della reazione dei contribuenti, dato che il suo Governo garantirà per 35 anni al costruttore-gestore della centrale, una cordata francocinese guidata da Electricité de France, un prezzo per l’elettricità prodotta di 92 sterline e mezzo, oltre 108 € al MWh, indicizzato all’inflazione. Un prezzo che è doppio di quello attuale sul mercato dell’elettricità inglese.

Che Derrick sappia, nessun impianto nucleare si è mai fatto senza soldi o garanzie pubbliche, tranne quello finlandese di Olkiluoto 3, che doveva essere il primo EPR del mondo (la più recente tecnologia europea di Areva e inizialmente Siemens usata anche nell’impianto in costruzione in Normandia a Flamanville). Impianto previsto pronto nel 2009 per 3 miliardi di Euro chiavi in mano, ma ora atteso solo nel 2016 con costi stimati in 8,5 miliardi. Anche in questo caso è previsto il ritiro dell’energia a un prezzo prefissato nel lungo termine, un prezzo garantito al committente da un consorzio di investitori-consumatori. Nel caso inglese invece a garantire sarà lo Stato, socializzando il rischio che il prezzo sia troppo alto e ricadendo nella fattispecie consueta di un impianto nucleare pagato con soldi pubblici.

Una quindicina d’anni fa o più la Gran Bretagna era all’avanguardia nella costruzione di un mercato liberalizzato dell’energia, ed è stata per molti versi imitata dal resto dell’Unione Europea. Oggi è abbastanza scioccante scoprire che proprio lì una coalizione con dentro i liberali decide in base a una sua trattativa fuori da ogni mercato, oggi, il prezzo giusto dell’energia per i primi 35 anni di funzionamento di una megacentrale che se va bene sarà pronta tra dieci.
Quando i cittadini finiranno di pagare, i membri dell’attuale governo saranno decrepiti. Una sconfitta per il mercato, come ha scritto Carlo Stagnaro sul blog dell’Istituto Bruno Leoni. E una decisione che verosimilmente si rivelerà piuttosto cara per gli inglesi, visto il prezzo. Decisione però non definitiva, se può ancora essere bloccata dall’UE per aiuti di Stato.

C’è una cosa però a ben vedere che rende il mercato utile anche quando viene saltato dalla politica: oggi tutti noi abbiamo un metro di paragone per valutare il prezzo garantito dal Governo inglese al futuro impianto nucleare. E tra quarantacinque anni, salvo ritardi, gl’inglesi potranno scoprire ex post se le 92 sterline saranno state un affare o no.

Per quanto riguarda l’Italia, è interessante quanto ha notato G.B. Zorzoli in un suo articolo su Staffetta Quotidiana (dove purtroppo fa solo i nomi di quelli che loda). Zorzoli ricorda che secondo i favorevoli al nuovo nucleare italiano di qualche anno fa quell’energia sarebbe costata al massimo una sessantina di € al MWh.
Un numero che alla luce delle esperienze finlandese, francese e ora inglese, si rivela una chimera.

(La puntata successiva su questo argomento è qui:)

martedì 22 ottobre 2013

D178 - Io liberale progressista e no TAV

Scrivo questo testo mentre a Roma si svolge una puntata del rito delle manifestazioni di strada contro la crisi, qualunque cosa voglia dire, con infiltrazioni di violenti, vandalismi eccetera.
Tra chi protesta ci sono anche i no TAV, che nel gergo d’oggi vuol dire contrari alla nuova linea ferroviaria veloce Torino-Lione, progetto di cui Derrick si è occupato analizzando alcuni studi disponibili a partire da quelli ufficiali.
Un’infrastruttura che costerà ai cittadini italiani, se va tutto secondo i piani (cosa che nelle grandi opere di norma non succede), 3 miliardi di Euro al netto dei contributi UE.

Qualche giorno fa, su Formiche, è apparso un “manifesto per un’Italia moderna” a prime firme Chicco Testa e Claudio Velardi, e poi altre di persone che trovo stimabili e competenti e con alcune delle quali ho il piacere di collaborare professionalmente.
Il manifesto afferma che c’è una sostanziale differenza tra chi tra gli oppositori alla TAV usa mezzi illegali, e chi invece appoggia la realizzazione di un’opera approvata dal Parlamento. E fin qui stracondivido.
Prosegue poi con due concetti forti:
1) la TAV è da fare perché la decisione è stata presa e perché ci sono fondi europei in arrivo per farla.
2) la contrapposizione tra contrari e favorevoli è assimilabile a quella tra un “Paese senza ambizioni e uno che invece non abbassa le braccia”.

E qui gli estensori si prestano a facili critiche. Ecco perché:
L’affermazione 1), e cioè che su una decisione non si deve tornare, è errata perché irrazionale. Nelle decisioni di investimento infatti è fondamentale non farsi influenzare dai cosiddetti costi sommersi (sunk cost nell’economia industriale). In altri termini: anche se ha già speso dei soldi in un senso, l’investitore accorto cambia direzione se acquisisce nuove informazioni tali da ritenere non economico proseguire nell’investimento. E l’investimento nella TAV è stato deciso, come anche dalle documentazioni citate in questo blog è facile scoprire, sulla base di ipotesi in parte superate, in almeno un caso errate, e di una valutazione costi-benefici dall’esito dichiaratamente dubbio.

L’affermazione 2), cioè che i no TAV sono di per sé immobilisti e retrogradi e i pro TAV invece progressisti, a me sembra, e lo dico con amicizia verso i firmatari, una colossale boiata.
Si potrebbe se mai più correttamente riformularla così: i pro TAV a priori vedono nell’infrastruttura un simbolo di progresso, gli anti TAV a priori no. Ora, se a fine Settecento la macchina a vapore era uno strumento di progresso ed emancipazione, e nel dopoguerra lo sono state le autostrade o la produzione di massa di auto ed elettrodomestici, la velocizzazione di una linea perlopiù merci che già oggi non ha problemi di capienza è quantomeno dubbio che sia uno strumento di progresso.

Se la nostra è l’era della rivoluzione dell’informazione e della conoscenza, è anche quella dove lo spostamento fisico veloce sta diventando meno, e non più importante per l’emancipazione e il benessere. Tant’è che, mostrano studi disponibili in materia, la gente perlopiù non è disponibile a pagare, per muoversi molto in fretta, il molto che costa. Non è un caso che il Concorde sia stato pensato negli anni Sessanta e che nessun costruttore stia investendo seriamente per rifarlo oggi malgrado l’evoluzione tecnologica. E ancor meno c’è in Italia aumento di domanda di trasporto veloce di merci adatte al treno.

Ma al di là di cos’è il progresso per ognuno di noi, ai firmatari dell’appello io rimprovero soprattutto di eludere il discorso sulla bontà dell’investimento. Il dibattito pro o anti TAV, una volta deideologizzato, dovrebbe restare un mero calcolo economico, per quanto complesso. Il cui esito dipende dalla disponibilità a pagare (esplicita e implicita) di chi quei treni li userà e dai costi interni ed esterni. E quando un ragazzotto della manifestazione, pieno di fuffa ideologica da quattro soldi, mi dice che questi tre miliardi, per la nostra sicurezza e il nostro progresso, sarebbero meglio spesi nel welfare, beh: dai dati che ho visto io, è probabile che abbia ragione.

martedì 15 ottobre 2013

D177 - Sussidi alle fonti fossili - Parte 2

Martedì scorso ho lanciato un nuovo tema a partire da una cifra: oltre un miliardo e mezzo di Euro. Il valore delle esenzioni di accise sul gasolio a favore dell’autotrasporto pesante per il 2012, valore che non esaurisce affatto gli aiuti al settore.
Queste esenzioni nel 2012 sono aumentate molto perché sono salite le accise a cui si applicano, e il sistema è costruito proprio in modo da neutralizzare gli aumenti per i beneficiari rispetto a un livello base delle accise del 2003, livello base che dal 2006 non può essere inferiore al minimo stabilito dall’Unione Europea (la quale peraltro sta per cambiare le regole, per legare le accise al contenuto energetico e carbonioso dei carburanti).

Questa dinamica dei rimborsi rende il trasferimento tanto più alto quanto più alte sono le tasse sul gasolio per i comuni mortali: se queste schizzano in alto, volano anche i rimborsi. Erogati in termini di credito di imposta direttamente monetizzabile nel caso le imposte siano incapienti.

Faccio un passo indietro. È giusto che fiscalità e parafiscalità disincentivino o aiutino i grandi consumatori di energia? Per ora non mi riferisco a consumatori di natura in qualche modo pubblicistica come le autolinee passeggeri concessionarie locali, che pure usufruiscono di aiuti, ma semplicemente a grandi consumatori di natura privatistica.

In un mercato, di solito i grandi acquirenti spuntano sconti perché ognuno di loro vale molto in termini di margine totale per il fornitore, e in qualche caso anche perché potrebbero attrezzarsi e investire per rendere sostituibile quel bene con un altro. Nel caso dell’energia, dove mercato e sistema amministrato si permeano inesorabilmente, il grosso della degressività o progressività dei prezzi complessivi non lo fanno il potere negoziale dei grandi clienti, bensì la fiscalità e la parafiscalità, cioè le componenti amministrate delle tariffe.

E lo fanno in modo incoerente. Per esempio: le bollette di luce e gas domestiche avvantaggiano in termini di oneri fiscali e parafiscali chi consuma poco e picchiano molto di più per chi ha consumi e potenza impegnata un po’ più alti. Ora, facilitare i consumatori domestici parchi aveva una ratio con un occhio all’efficienza e un altro alla redistribuzione (per quanto ci sono ottimi motivi a mio parere perché non siano le bollette a fare redistribuzione), ma in realtà il meccanismo genera effetti perversi, perché le famiglie numerose, per esempio, sono svantaggiate, così come è svantaggiato tout court chi punta sull’elettricità per riscaldarsi. Ai clienti industriali invece, come abbiamo già visto qui a Derrick, succede l’opposto: pagano meno oneri se consumano molto, anzi oltre certi scaglioni non ne pagano quasi più, da noi e in altri paesi industriali europei. Dunque per luce e gas sconti per i piccolissimi, e sconti per i grandissimi, a spese di tutti gli altri. Non ha molto senso.

Tornando alle accise sui combustibili per trazione merci, lì gli sconti sono per i mezzi pesanti, quindi grandi consumatori, senza facilitazioni per consumi modesti. Un pendolare a bordo di un’utilitaria economica in una zona senza mezzi pubblici potrebbe chiedersi perché il fisco ce l’ha molto più con lui che con un camion.

C’è forse un fine di incentivo o disincentivo a un mezzo di traporto o all’altro nella struttura delle accise? Non direi. Nei trasporti i sussidi arrivano, oltre che agli autotrasporti merci, alle autolinee passeggeri, alle ferrovie (che però continuano a chiudere i cosiddetti rami secchi), alle navi. Trasporti pubblici e non, sostenibili e non. Che senso ha?