Con le ratifiche
dell’accordo di Parigi, oltre 180 Governi si sono impegnati a contenere in non
più di 2 gradi l’aumento di temperatura del globo rispetto al livello
pre-industriale. Una decisione conseguente alle indicazioni della comunità
scientifica assunte dall’UNFCCC, il panel ONU che coordina le politiche
mondiali sul clima. Secondo gli scienziati e l’ONU, per fermare il riscaldamento
e quindi i cambiamenti del clima occorre ridurre le emissioni di gas-serra in
atmosfera causate dall’uomo, legate alla combustione di fonti energetiche
fossili. Il più diffuso di questi gas è la CO2, la cui concentrazione in era
preindustriale, pur con un andamento ciclico, non aveva mai superato le 300
parti per milione ed è invece schizzata a 400 in meno di un secolo.
Albero spezzato a Roma il 30/10/18 |
Per questo ha senso
considerare le emissioni di CO2 come un indicatore di insostenibilità
climatica.
Buona parte della
comunità economica del mondo sta orientando i propri investimenti verso un
futuro senza energie fossili. Perfino le grandi major del petrolio, riunite
nell’Oil and Gas Climate Initiative, hanno annunciato il proprio cambio di
rotta e chiesto in modo coordinato segnali coerenti dalla politica.
Dopo l’annuncio di Trump
del ritiro dall’accordo di Parigi, aziende americane come Apple, Google, Twitter, Amazon,
Facebook, Tesla, Microsoft, IBM si sono dissociate dalla scelta del presidente.
La stessa filiera del
carbone americano, che Trump intendeva proteggere con la propria decisione, non
ha invertito se non temporaneamente il trend di riduzione di investimenti e capacità.
Ne parla Ed Crooks sul Financial Times del 9/11/18 sulla base di recentissimi dati
di Lazard, una banca d’investimento, che mostrano come negli USA oggi sia
conveniente sostituire gli impianti di generazione elettrica a carbone a fine
vita con altri da fonti rinnovabili, grazie al calo dei costi di questi ultimi
(l’energia da un parco eolico nuovo costa negli USA secondo Lazard tra 29 e 56
$/MWh complessivi, mentre i soli costi di funzionamento di un impianto a
carbone – per gran parte dovuti al combustibile – sono tra i 27 e i 45).
Perfino alcune centrali di costruzione recente, come quelle di Vistra Energy, sono
in fase di chiusura in Texas, anche per concorrenza del gas prodotto nei mega
giacimenti coltivati con la tecnica del fracking.
Dopo una breve ripartenza con
l’inizio dell’amministrazione Trump, nel 2019 la produzione di carbone statunitense
è prevista tornare ai livelli del 2016, i più bassi della storia recente. Per
invertire questo trend evidentemente non bastano gli annunci di uscita da ogni
politica di contenimento delle emissioni dannose per il clima.
Per questo l’amministrazione
ha anche parlato di sussidi diretti alla filiera del carbone, i quali però per
ora non si sono concretizzati. Intanto gli investimenti vanno verso rinnovabili
ed efficienza energetica, che assumeranno, secondo per esempio il capo dell’utility
energetica del New Jersey, il ruolo che recentemente ha avuto il gas nell’abbassare
le bollette elettriche degli americani.
Link utili:
- L'articolo citato di Ed Croocks: https://www.ft.com/content/af6915c8-e2eb-11e8-a6e5-792428919cee
- Due precedenti puntate di Derrick sullo stesso tema:
http://derrickenergia.blogspot.com/2017/06/uscita-usa-dallaccordo-di-parigi.html
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