domenica 24 novembre 2024

COP29 a Baku (Puntata 647 in onda il 26/11/24)

Baku
La conferenza sui cambiamenti climatici di Baku era iniziata con il presidente dell’Azerbaijan che dichiarava che le energie fossili sono un dono di Dio e che quindi non si può biasimare chi le ha se le vende sul mercato a chi le vuole. È sempre affascinante constatare come le tautologie o i finti sillogismi siano diffusi nella retorica politica, apparentemente senza suscitare reazioni negative. Se il gas azero è un dono di Dio, cosa che non ho alcun elemento per negare, un clima mite, la disponibilità di acqua, le aree agricole da proteggere dalla desertificazione non lo sono altrettanto?

La conferenza, partita così, si è chiusa con quello che la maggioranza dei commentatori considera un esito deludente: un accordo su una somma di 300 miliardi di dollari all’anno fino al 2035 che i Paesi sviluppati si impegnano a trasferire a quelli che lo sono meno, nell’ambito di un principio consolidato nelle politiche del clima sul doppio binario dello sforzo economico, che segue da un lato la responsabilità storica più lunga sul clima che hanno i primi paesi a essersi industrializzati, dall’altro il fatto che per fare investimenti servono i soldi.

C’è nel documento finale della conferenza anche una quantificazione, relativa ai paesi in via di sviluppo, dei costi di mitigazione (cioè riduzione delle emissioni dannose per il clima) per le azioni cui il mondo si è già impegnato, circa 500 miliardi di $ all’anno, e di adattamento (cioè protezione dalle conseguenze ormai acquisite dei cambiamenti climatici), circa 300.

Manca ogni accelerazione e perfino ogni richiamo agli obiettivi della COP precedente sull’uscita dai combustibili fossili, che quest’anno non sono proprio citati nell’accordo finale. Non solo: l’impegno di contenimento dell’aumento di temperatura è tornato a essere menzionato nella sua versione della COP di Parigi, in cui il limite invalicabile sono 2° di riscaldamento mentre gli 1,5° sono solo auspicati.

Sulla base di un articolo del penultimo Economist sui costi della decarbonizzazione dell’economia, quest’ultimo aspetto potrebbe essere meno nocivo di quanto sembri. L’Economist sostiene che i costi stimati della transizione sono in genere esagerati per eccesso, e un motivo è proprio che si rincorre un obiettivo (1,5° di riscaldamento massimo) che è pressoché già stato mancato e che quindi ha i costi alti di ciò che è quasi impossibile. Un altro motivo della sovrastima è che non si tiene conto del mare di incentivi alle fonti fossili (il 7% del PIL mondiale secondo il Fondo Monetario Internazionale) che ostacola lo sviluppo delle tecnologie verdi e quindi dovrebbe essere considerato tra i costi dell’inazione, non delle politiche del clima. E proprio i danni economici che subiremmo dal fallire le politiche del clima sono secondo l’Economist la voce più sottostimata, il che contribuisce a sbagliare per eccesso la previsione del fabbisogno economico netto delle politiche del clima.


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martedì 19 novembre 2024

Meloni a Baku (Puntata 646 in onda il 19/11/24)

È in corso a Baku, in Azerbaijan, la 29esima conferenza ONU sui cambiamenti climatici e non sta andando molto bene mentre scrivo. Pochi i capi di Stato presenti, mentre aleggia la figura del presidente eletto Trump che la prima volta alla Casa Bianca aveva ritirato gli USA dagli impegni dell’accordo di Parigi, uno dei più importanti nella storia delle COP, perché quantificò in 2° (poi ridotti a 1,5) il riscaldamento massimo tollerabile per non incorrere in costi di adattamento insostenibili.

Come nella storia (che ora non ricordo da che tradizione venga) della rana in pentola, sembrerebbe che il riscaldamento progressivo e i danni collaterali più che spaventare stiano assuefacendo la maggioranza del genere umano, che non trova il guizzo per saltare fuori dalla pentola prima di restare bollito, o per spegnere il gas sotto.

E l’assuefazione s’accompagna a un armamentario di frasi fatte e argomentazioni dogmatiche standard che i politici disinteressati alla questione usano ormai rutinariamente. Per esempio: no al catastrofismo, no all’ambientalismo “ideologico”, sì alla neutralità tecnologica. (Per inciso, non c’è niente di più tecnologicamente neutrale per ridurre le emissioni dannose che far pagare una carbon tax sufficiente a disincentivarle, senza impedire né favorire in modo arbitrario alcuna tecnologia).

Non fa eccezione a questa brutta superficialità purtroppo la premier Meloni che, a Baku anche come presidente di turno del G7, non si è fatta mancare nel suo discorso nessuno dei luoghi comuni che ho elencato, cui si aggiunge che le fonti rinnovabili di energia da sole non bastano. Il che richiederebbe evidenze o argomentazioni, come l’atra affermazione buttata lì sulla persistenza della necessità del gas.

Ma le argomentazioni, per smentire i tanti studi che dicono il contrario da parte di istituzioni come OCSE, ONU, Banca Mondiale, non arrivano in questo stanco gioco delle parti.

Meloni ha concluso dicendo che dobbiamo confidare nella fusione nucleare.

Tagliando così le gambe allo stesso ministro Pichetto Fratin che poche settimane fa (Derrick ne ha parlato) aveva invece lanciato un piano per l’Italia sui piccoli reattori modulari a fissione, a sua volta deludendo chi sperava di avere il via libera a realizzare impianti di tecnologie effettivamente disponibili oggi, pur con tempi biblici di costruzione e senza sapere con quali soldi.

Meloni invece salta direttamente alla fusione. Se in un altro contesto una visione così proiettata al futuro remoto avrebbe potuto suonare come un tocco di speranza o lungimiranza, a una conferenza il cui obiettivo è spegnere in fretta il gas sotto la pentola della rana il discorso di Meloni ha mostrato, in triste contrasto con il piglio assertivo con cui è stato pronunciato, un’indifferenza raggelante. E non è un gelo utile a raffreddare il pianeta.

Qui una recente mia conversazione sul nucleare per Euronews: 

domenica 10 novembre 2024

Insegnare (Puntata 645 in onda il 12/11/24)

Donna con bambino
(da una mostra a Bogotà)
In questa rubrica ogni tanto si parla anche di istruzione. Lo faccio perché penso sia il settore fondamentale per lo sviluppo umano e il futuro delle democrazie, e di istruzione nel mio piccolo mi occupo come docente a contratto in università, un lavoro che mi insegna molto. E che forse è un po’ cambiato in una manciata d’anni.

Il contesto odierno è quello in cui l’accesso online alle informazioni è pressoché illimitato, inclusi dati affidabili e facilmente disponibili per l’elaborazione. Per esempio nel mio settore (energia e clima) esistono agenzie internazionali che permettono gratuitamente l’accesso a vasti dataset e pubblicano continui rapporti per interpretarli e trarne le tendenze più rilevanti e anche le conseguenze in termini di politiche necessarie. Si pensi all’IPCC dell’ONU che si occupa di studiare i cambiamenti climatici o alla IEA, agenzia dell’energia OCSE, che fotografa lo stato e le tendenze mondiali del settore. Anche la possibilità di maneggiare i numeri e fare analisi empiriche oggi è più elevata che in passato, applicazioni statistiche oggi girano anche in pc personali, in un contesto in cui l’infrastruttura informatica mondiale sta investendo verso i sistemi ben più onerosi e capienti che servono a riprodurre euristicamente funzioni del cervello come quella del linguaggio.

Modelli generativi linguistici che gli allievi di pressoché tutti i livelli scolastici possono usare, che sia consentito o meno dalle politiche dell’istituto, anche per produrre elaborati d’esame. Tantoché una delle abilità richieste a un docente è proprio quella di discernere il valore aggiunto dell’allievo ai fini della valutazione.

Ma valutazione a parte, cosa resta da insegnare in questo mondo di dati già disponibili?

Mi vengono in mente due filoni.

Uno. La capacità di discernere tra le fonti e di verificarle, e quindi di riconoscere contenuti potenzialmente inaffidabili. Anche per difendersi da quelle che in modo molto ingenuo o forse invece proditorio nel settore dell’AI vengono chiamate “allucinazioni” e che di fatto sono l’incapacità o peggio il disinteresse dei sistemi generativi di distinguere tra aree in cui l’interpolazione (cioè l’invenzione analogica) è sensata e altre in cui invece occorre attenersi strettamente all’evidenza, cioè a casi osservati e verificabili.

Due. La ricerca delle connessioni. Nel mare dei dati e delle sollecitazioni, molte delle quali sono il semplice rimbalzare nel web di suggestioni per qualche motivo diventate virali, è utile aiutare gli allievi a trovare fili argomentativi, percorsi di interpretazione. Che possono essere i più disparati, ma richiedono coerenza interna, consequenzialità, robustezza. Anche passione, gusto per la proposizione di un’ipotesi e onestà e accuratezza nel testarla rispetto al mare potenziale di evidenza reperibile. E credo che un vigile anticonformismo, nel mondo dei trend virali, sia di norma un ottimo punto di partenza e un valore da insegnare.

Mi occupo di economia ma non sono uno statistico né un econometrico. So però che con un po’ di malizia o imperizia si possono far dire agli stessi dati molte cose diverse, cose talvolta non facilmente controvertibili nemmeno quando incoerenti tra loro. Alla fine trovare un filo argomentativo, una conclusione politica, una propria posizione, richiede un mix di accuratezza, umiltà ma anche intuizione, capacità dialettica, rischio, gusto per la narrazione, capacità retorica e nello stesso tempo di smontare la retorica (un po’ come per proteggersi da un hacker serve un hacker), capacità di cambiare idea.

Assecondare lo sviluppo di questo strano mix di competenze che fa per ora della nostra intelligenza una cosa diversa da quella artificiale è forse il compito di un insegnante.

Rileggendo questo testo mi chiedo se non dia troppo valore alle tendenze recenti e alle novità tecnologiche rispetto alla descrizione del lavoro di un docente. Ricordo una frase di Amedeo Bertuccioli, mio prof. di francese al liceo, che una volta descrivendo il proprio lavoro disse: cerco di aiutarvi a ragionare con la vostra testa. Ecco. Trentacinque o più anni dopo, mi sembra sempre un’ottima sintesi.

sabato 2 novembre 2024

Automobili ed economia (Puntata 644 in onda il 5/11/24)

Ciclabile a Fossacesia 
Ho imparato a diffidare delle frasi “Non potremo mai fare a meno di”. Sono normalmente utilizzate quando manca una motivazione che non sia, appunto, l’istinto di pensare che le cose non possano che continuare a essere come “sono sempre state”. Che di solito non è vero: le cose sono state diverse, sono già cambiate qualche volta, ma noi lo stesso tendiamo a pensare che cambiamenti rispetto alla normalità presente siano improbabili. Del resto se il sistema economico e sociale sono poco contendibili i rappresentanti dei business consolidati hanno gioco più facile nell’influenzare le decisioni pubbliche per proteggersi dalle innovazioni.

Recentemente ascoltavo su Radio Radicale un consesso di sindacati e politici dell’opposizione parlare del settore automobilistico. Uno ha detto che un’economia industriale non può esistere senza il settore automobilistico, e un politico, sedicente liberale, gli ha anche dato ragione.

Io tenderei a pensare che un’economia è forte se produce ciò che serve e servirà in modo crescente. Ed è improbabile che, almeno in Europa, il consumo di automobili private possa tornare a essere quello per cui è oggi dimensionata la capacità produttiva.

La ragione principale a mio avviso è tecnologica, e riguarda la guida autonoma. Malgrado la lentezza e la difficoltà con cui si sta diffondendo, la guida autonoma, quando funzionerà anche senza alcun umano a bordo, aumenterà il coefficiente di utilizzazione delle auto, rendendone conveniente la condivisione. Oggi se vado in auto in un posto in cui mi fermerò tutto il giorno l’auto resta lì ad aspettarmi. Tra un po’ se ne andrà a fare altre faccende, magari all’interno della famiglia – a cui quindi basterà un veicolo – o nell’ambito di un programma di car sharing. Più tardi quell’auto, o un altro esemplare, tornerà a prendermi.

Ne serviranno di meno, facciamocene una ragione. E non sarà male riconquistare l’uso di quella parte delle città oggi dedicata alle auto in sosta.

Intanto però nelle città italiane le auto sono ancora cresciute. Un recente rapporto di Legambiente sulle 10 più popolose mostra che tutte hanno aumentato il numero di auto rispetto a dieci anni fa, con Catania che addirittura sfiora le 8 auto per 10 abitanti, Torino quasi 7 e Roma 6,6. E siamo il paese più motorizzato dell’Unione Europea.

Riempire la gente di sussidi per continuare a comprarle mi sembra insensato. Per me ha fatto bene il Governo a prevederne un taglio nella proposta di legge di bilancio 2025.