martedì 31 dicembre 2024

Viaggio nello Sichuan e nel Laos settentrionale (Puntate da 650 a 652 in onda il 17, 24, 31 dicembre 2024)

Panda a Chengdu
Con Paolo Ghelfi abbiamo visitato nel dicembre 2024 Chengdu, metropoli cinese capoluogo della regione dello Sichuan nota per i tanti panda che ospita nei suoi parchi.

Da lì ci siamo spostati con la nuova ferrovia Laos-China Rail nel nord del Laos. Scesi dal treno a Muang Xay abbiamo viaggiato su strada fino all'alta valle del Nam Ou, un affluente del Mekong.

Usando come base Nong Khiaw, in bici su strade in terra battuta abbiamo raggiunto altri villaggi più piccoli e più a Nord sempre nella valle del Nam Ou (inatraversabile se non in barca).

In bici verso Muang Ngoy

In minibus siamo scesi lungo la valle fino a Luang Prabang, patrimoio UNESCO per i suoi templi.

Di nuovo con il treno LCR abbiano raggiunto la capitale Vientiane.

Tempio a Luang Prabang



Le puntate di reportage sono riascoltabili qui:

- Chengdu

- Luang Prabang

- Vientiane

sabato 7 dicembre 2024

King Charles III England Coast Path (Puntata 649 in onda il 10/12/24)

Southend on Sea - Dal sito ufficiale del
King Charles III England Coast Path
Immaginate un paese con oltre 4000 km di coste dalle forme più diverse, a volte alte, difficili, impervie, altre dedicate al turismo, speso molto belle. In alcuni casi occupate da porti che un tempo furono fondamentali per l’economia locale ed europea, o da siti industriali in molti casi decaduti, in altri ancora attivi. Immaginate che questo paese abbia un progetto per realizzarvi un percorso pedonale completo. Niente male, no?

Se poi aggiungiamo che il progetto è tanto avanzato da prevedere il completamento nel 2025, possiamo facilmente escludere che si tratti dell’Italia. Infatti stiamo parlando dell’Inghilterra, che si aggiunge al Galles che già il percorso lo ha. Mentre la Scozia il diritto di passaggio a piedi sulla costa lo garantisce per legge (devo segnarmelo per la prossima volta che capiterò da quelle parti).

Quello britannico non è un progetto arrivato in fretta o dal nulla, ma il risultato di una cultura e del lavoro di gruppi di interesse secolari.

Ma il fascino anche simbolico delle grandi marce, dei pellegrinaggi, non è estraneo nemmeno a molti altri luoghi, basti pensare alla moda forse perfino logora ormai del cammino di Compostela. E il fatto che un cammino possa in teoria farsi tutto intero – anche se in pochissimi possono cimentarcisi davvero – attribuisce senza dubbio significato e valore all’infrastruttura anche se l’uso comune riguarda brevi tratti alla volta.

È curioso per certi versi star qui a considerare una meraviglia un percorso pedonale in paesi in cui quelli automobilistici, decisamente più complessi da realizzare, si estendono forse per due ordini di grandezza in più. Ma è proprio la frugalità del camminare, e la sua inutilità per gli scambi commerciali, a rendere oneroso il rapporto tra investimenti necessari e ritorno economico diretto. Almeno fino a che gli effetti sul turismo o sulla salute non diventano molto rilevanti.

Se guardiamo al colossale piano italiano finanziato con il PNRR, i corridoi ciclopedonali hanno un’incidenza ridicola, ed è una mancanza bloccante visto che si tratta di infrastrutture che in assenza di piani nazionali restano tipicamente di competenza di amministrazioni pubbliche locali che difficilmente trovano i soldi per farle.

Non è tutto facile nemmeno nel Regno Unito, dove uno dei problemi è giuridico, perché le aree costiere demaniali sono identificate nel diritto locale dalle coordinate geografiche, che non tengono conto dell’erosione e dell’aumento del livello dei mari, che a volte rendono quella che è ufficialmente la costa in realtà non più esistente o non più praticabile. Così almeno spiega un bell’articolo di Catherine Nixei sull’ultimo Economist di novembre 2024 a cui ho attinto per questa puntata.

In Italia siamo indietro. Perfino nell’Adriatico da San Salvo in su, che è la parte messa meglio, la ciclopedonale s’interrompe in più punti per l’evidente difficoltà di varcare proprietà private o togliere di mezzo edifici incredibilmente costruiti sulla spiaggia, come tra Fano e Torrette di Fano. Avendo io perlustrato tutte le ciclopedonali costiere romagnole, marchigiane e abruzzesi, il blog Derrick energia è una fonte di reportage in materia.

Link

martedì 3 dicembre 2024

Il rischio finanziario delle reti gas (Puntata 648 in onda il 3/12/24)

Bucarest, piazza della rivoluzione
La scorsa primavera, volendo rinnovare la mia cucina, ho approfittato per sostituire i fornelli a gas con piastre elettriche a induzione, e lo stesso ho fatto con la caldaia a gas, sostituita con un apparecchio elettrico. Questo mi ha permesso di liberarmi della bolletta del gas, di cui, consumando già molto poco, pagavo perlopiù componenti fisse.

Ho preso online tramite il mio fornitore un appuntamento con la società di distribuzione locale, che gestisce rete e contatori, e il giorno previsto si è presentato un addetto che ha chiuso il contatore e ha apposto un sigillo. Tutto qui. Non è stato non dico smontato, ma nemmeno tappato nulla.

L’operazione mi ha ricordato me stesso quando conservo oggetti che in cuor mio so non userò mai più. Lo faccio forse per illudermi di essere eterno, di poter un giorno se mi va ricominciare abitudini o cicli che in realtà si sono chiusi e appartengono a mondi ormai desueti. (Mi viene in mente una canzone struggente dell’ultimo album di Joe Cocker, intitolata Younger, in cui l’io narrante si propone quando sarà più giovane di fare un sacco di cose che ha finora tralasciato).

A proposito: in casa ho perfino riutilizzato una parte delle tubazioni del gas per farci passare filodiffusione per musica. Chi mai, anche se vendessi casa, ristrutturandola penserebbe mai di ripristinare apparecchi a gas mentre pressoché tutte le abitazioni vengono oggi progettate con alimentazione energetica solo elettrica?

L’Europa va verso l’abbattimento del 90% delle emissioni CO2 nel 2040 rispetto al ’90, e a emissioni nette nulle nel 2050. E un’analisi della Commissione europea prevede che nel 2050 useremo oltre il 70% in meno di idrocarburi gassosi rispetto a oggi, anche considerando biogas e idrogeno.

In un podcast-intervista che linko sul blog Derrick Energia, Jan Rosenow di Regulatory Assistance Project, una brillante società di consulenza al settore pubblico con sede a Oxford, nota non per la prima volta il rischio economico legato al fatto che migliaia di chilometri di reti ad alta pressione di gas e milioni di chilometri di reti cittadine sono valutate negli stati patrimoniali delle aziende che le gestiscono come cespiti in grado di produrre reddito ancora a lungo mentre in realtà saranno inutili molto preso. Non solo, in paesi come il nostro si investe ancora in nuove reti, fatte per durare anche 80 anni. A metterci i soldi sono anche fondi pensione che dovrebbero invece fuggire da infrastrutture che rischiano di non valere più nulla molto prima di quando il loro attuale tasso di ammortamento preveda.

Il mio contatore elettronico seminuovo sul pianerottolo, che verosimilmente non servirà mai più, ma forse è perfino ancora teleletto, è lì a testimoniare tutto ciò.

Più tardi smetteremo di investire in, e più tardi gestiremo un deprezzamento accelerato delle reti del gas, peggio sarà per chi si ritroverà coi suoi capitali ivi impiegati quando saranno diventate completamente inutili, dice Rosenow.

Conoscendo come funzionano le cose da noi, è molto probabile che alla fine col cerino in mano resteranno i contribuenti, dopo che chi avrà potuto avrà ceduto le quote a qualche fondo pubblico tipo CDP reti.

Link

Due interviste a Jan Rosenow di Regulatory Assistance Project:


domenica 24 novembre 2024

COP29 a Baku (Puntata 647 in onda il 26/11/24)

Baku
La conferenza sui cambiamenti climatici di Baku era iniziata con il presidente dell’Azerbaijan che dichiarava che le energie fossili sono un dono di Dio e che quindi non si può biasimare chi le ha se le vende sul mercato a chi le vuole. È sempre affascinante constatare come le tautologie o i finti sillogismi siano diffusi nella retorica politica, apparentemente senza suscitare reazioni negative. Se il gas azero è un dono di Dio, cosa che non ho alcun elemento per negare, un clima mite, la disponibilità di acqua, le aree agricole da proteggere dalla desertificazione non lo sono altrettanto?

La conferenza, partita così, si è chiusa con quello che la maggioranza dei commentatori considera un esito deludente: un accordo su una somma di 300 miliardi di dollari all’anno fino al 2035 che i Paesi sviluppati si impegnano a trasferire a quelli che lo sono meno, nell’ambito di un principio consolidato nelle politiche del clima sul doppio binario dello sforzo economico, che segue da un lato la responsabilità storica più lunga sul clima che hanno i primi paesi a essersi industrializzati, dall’altro il fatto che per fare investimenti servono i soldi.

C’è nel documento finale della conferenza anche una quantificazione, relativa ai paesi in via di sviluppo, dei costi di mitigazione (cioè riduzione delle emissioni dannose per il clima) per le azioni cui il mondo si è già impegnato, circa 500 miliardi di $ all’anno, e di adattamento (cioè protezione dalle conseguenze ormai acquisite dei cambiamenti climatici), circa 300.

Manca ogni accelerazione e perfino ogni richiamo agli obiettivi della COP precedente sull’uscita dai combustibili fossili, che quest’anno non sono proprio citati nell’accordo finale. Non solo: l’impegno di contenimento dell’aumento di temperatura è tornato a essere menzionato nella sua versione della COP di Parigi, in cui il limite invalicabile sono 2° di riscaldamento mentre gli 1,5° sono solo auspicati.

Sulla base di un articolo del penultimo Economist sui costi della decarbonizzazione dell’economia, quest’ultimo aspetto potrebbe essere meno nocivo di quanto sembri. L’Economist sostiene che i costi stimati della transizione sono in genere esagerati per eccesso, e un motivo è proprio che si rincorre un obiettivo (1,5° di riscaldamento massimo) che è pressoché già stato mancato e che quindi ha i costi alti di ciò che è quasi impossibile. Un altro motivo della sovrastima è che non si tiene conto del mare di incentivi alle fonti fossili (il 7% del PIL mondiale secondo il Fondo Monetario Internazionale) che ostacola lo sviluppo delle tecnologie verdi e quindi dovrebbe essere considerato tra i costi dell’inazione, non delle politiche del clima. E proprio i danni economici che subiremmo dal fallire le politiche del clima sono secondo l’Economist la voce più sottostimata, il che contribuisce a sbagliare per eccesso la previsione del fabbisogno economico netto delle politiche del clima.


Link

martedì 19 novembre 2024

Meloni a Baku (Puntata 646 in onda il 19/11/24)

È in corso a Baku, in Azerbaijan, la 29esima conferenza ONU sui cambiamenti climatici e non sta andando molto bene mentre scrivo. Pochi i capi di Stato presenti, mentre aleggia la figura del presidente eletto Trump che la prima volta alla Casa Bianca aveva ritirato gli USA dagli impegni dell’accordo di Parigi, uno dei più importanti nella storia delle COP, perché quantificò in 2° (poi ridotti a 1,5) il riscaldamento massimo tollerabile per non incorrere in costi di adattamento insostenibili.

Come nella storia (che ora non ricordo da che tradizione venga) della rana in pentola, sembrerebbe che il riscaldamento progressivo e i danni collaterali più che spaventare stiano assuefacendo la maggioranza del genere umano, che non trova il guizzo per saltare fuori dalla pentola prima di restare bollito, o per spegnere il gas sotto.

E l’assuefazione s’accompagna a un armamentario di frasi fatte e argomentazioni dogmatiche standard che i politici disinteressati alla questione usano ormai rutinariamente. Per esempio: no al catastrofismo, no all’ambientalismo “ideologico”, sì alla neutralità tecnologica. (Per inciso, non c’è niente di più tecnologicamente neutrale per ridurre le emissioni dannose che far pagare una carbon tax sufficiente a disincentivarle, senza impedire né favorire in modo arbitrario alcuna tecnologia).

Non fa eccezione a questa brutta superficialità purtroppo la premier Meloni che, a Baku anche come presidente di turno del G7, non si è fatta mancare nel suo discorso nessuno dei luoghi comuni che ho elencato, cui si aggiunge che le fonti rinnovabili di energia da sole non bastano. Il che richiederebbe evidenze o argomentazioni, come l’atra affermazione buttata lì sulla persistenza della necessità del gas.

Ma le argomentazioni, per smentire i tanti studi che dicono il contrario da parte di istituzioni come OCSE, ONU, Banca Mondiale, non arrivano in questo stanco gioco delle parti.

Meloni ha concluso dicendo che dobbiamo confidare nella fusione nucleare.

Tagliando così le gambe allo stesso ministro Pichetto Fratin che poche settimane fa (Derrick ne ha parlato) aveva invece lanciato un piano per l’Italia sui piccoli reattori modulari a fissione, a sua volta deludendo chi sperava di avere il via libera a realizzare impianti di tecnologie effettivamente disponibili oggi, pur con tempi biblici di costruzione e senza sapere con quali soldi.

Meloni invece salta direttamente alla fusione. Se in un altro contesto una visione così proiettata al futuro remoto avrebbe potuto suonare come un tocco di speranza o lungimiranza, a una conferenza il cui obiettivo è spegnere in fretta il gas sotto la pentola della rana il discorso di Meloni ha mostrato, in triste contrasto con il piglio assertivo con cui è stato pronunciato, un’indifferenza raggelante. E non è un gelo utile a raffreddare il pianeta.

Qui una recente mia conversazione sul nucleare per Euronews: 

domenica 10 novembre 2024

Insegnare (Puntata 645 in onda il 12/11/24)

Donna con bambino
(da una mostra a Bogotà)
In questa rubrica ogni tanto si parla anche di istruzione. Lo faccio perché penso sia il settore fondamentale per lo sviluppo umano e il futuro delle democrazie, e di istruzione nel mio piccolo mi occupo come docente a contratto in università, un lavoro che mi insegna molto. E che forse è un po’ cambiato in una manciata d’anni.

Il contesto odierno è quello in cui l’accesso online alle informazioni è pressoché illimitato, inclusi dati affidabili e facilmente disponibili per l’elaborazione. Per esempio nel mio settore (energia e clima) esistono agenzie internazionali che permettono gratuitamente l’accesso a vasti dataset e pubblicano continui rapporti per interpretarli e trarne le tendenze più rilevanti e anche le conseguenze in termini di politiche necessarie. Si pensi all’IPCC dell’ONU che si occupa di studiare i cambiamenti climatici o alla IEA, agenzia dell’energia OCSE, che fotografa lo stato e le tendenze mondiali del settore. Anche la possibilità di maneggiare i numeri e fare analisi empiriche oggi è più elevata che in passato, applicazioni statistiche oggi girano anche in pc personali, in un contesto in cui l’infrastruttura informatica mondiale sta investendo verso i sistemi ben più onerosi e capienti che servono a riprodurre euristicamente funzioni del cervello come quella del linguaggio.

Modelli generativi linguistici che gli allievi di pressoché tutti i livelli scolastici possono usare, che sia consentito o meno dalle politiche dell’istituto, anche per produrre elaborati d’esame. Tantoché una delle abilità richieste a un docente è proprio quella di discernere il valore aggiunto dell’allievo ai fini della valutazione.

Ma valutazione a parte, cosa resta da insegnare in questo mondo di dati già disponibili?

Mi vengono in mente due filoni.

Uno. La capacità di discernere tra le fonti e di verificarle, e quindi di riconoscere contenuti potenzialmente inaffidabili. Anche per difendersi da quelle che in modo molto ingenuo o forse invece proditorio nel settore dell’AI vengono chiamate “allucinazioni” e che di fatto sono l’incapacità o peggio il disinteresse dei sistemi generativi di distinguere tra aree in cui l’interpolazione (cioè l’invenzione analogica) è sensata e altre in cui invece occorre attenersi strettamente all’evidenza, cioè a casi osservati e verificabili.

Due. La ricerca delle connessioni. Nel mare dei dati e delle sollecitazioni, molte delle quali sono il semplice rimbalzare nel web di suggestioni per qualche motivo diventate virali, è utile aiutare gli allievi a trovare fili argomentativi, percorsi di interpretazione. Che possono essere i più disparati, ma richiedono coerenza interna, consequenzialità, robustezza. Anche passione, gusto per la proposizione di un’ipotesi e onestà e accuratezza nel testarla rispetto al mare potenziale di evidenza reperibile. E credo che un vigile anticonformismo, nel mondo dei trend virali, sia di norma un ottimo punto di partenza e un valore da insegnare.

Mi occupo di economia ma non sono uno statistico né un econometrico. So però che con un po’ di malizia o imperizia si possono far dire agli stessi dati molte cose diverse, cose talvolta non facilmente controvertibili nemmeno quando incoerenti tra loro. Alla fine trovare un filo argomentativo, una conclusione politica, una propria posizione, richiede un mix di accuratezza, umiltà ma anche intuizione, capacità dialettica, rischio, gusto per la narrazione, capacità retorica e nello stesso tempo di smontare la retorica (un po’ come per proteggersi da un hacker serve un hacker), capacità di cambiare idea.

Assecondare lo sviluppo di questo strano mix di competenze che fa per ora della nostra intelligenza una cosa diversa da quella artificiale è forse il compito di un insegnante.

Rileggendo questo testo mi chiedo se non dia troppo valore alle tendenze recenti e alle novità tecnologiche rispetto alla descrizione del lavoro di un docente. Ricordo una frase di Amedeo Bertuccioli, mio prof. di francese al liceo, che una volta descrivendo il proprio lavoro disse: cerco di aiutarvi a ragionare con la vostra testa. Ecco. Trentacinque o più anni dopo, mi sembra sempre un’ottima sintesi.

sabato 2 novembre 2024

Automobili ed economia (Puntata 644 in onda il 5/11/24)

Ciclabile a Fossacesia 
Ho imparato a diffidare delle frasi “Non potremo mai fare a meno di”. Sono normalmente utilizzate quando manca una motivazione che non sia, appunto, l’istinto di pensare che le cose non possano che continuare a essere come “sono sempre state”. Che di solito non è vero: le cose sono state diverse, sono già cambiate qualche volta, ma noi lo stesso tendiamo a pensare che cambiamenti rispetto alla normalità presente siano improbabili. Del resto se il sistema economico e sociale sono poco contendibili i rappresentanti dei business consolidati hanno gioco più facile nell’influenzare le decisioni pubbliche per proteggersi dalle innovazioni.

Recentemente ascoltavo su Radio Radicale un consesso di sindacati e politici dell’opposizione parlare del settore automobilistico. Uno ha detto che un’economia industriale non può esistere senza il settore automobilistico, e un politico, sedicente liberale, gli ha anche dato ragione.

Io tenderei a pensare che un’economia è forte se produce ciò che serve e servirà in modo crescente. Ed è improbabile che, almeno in Europa, il consumo di automobili private possa tornare a essere quello per cui è oggi dimensionata la capacità produttiva.

La ragione principale a mio avviso è tecnologica, e riguarda la guida autonoma. Malgrado la lentezza e la difficoltà con cui si sta diffondendo, la guida autonoma, quando funzionerà anche senza alcun umano a bordo, aumenterà il coefficiente di utilizzazione delle auto, rendendone conveniente la condivisione. Oggi se vado in auto in un posto in cui mi fermerò tutto il giorno l’auto resta lì ad aspettarmi. Tra un po’ se ne andrà a fare altre faccende, magari all’interno della famiglia – a cui quindi basterà un veicolo – o nell’ambito di un programma di car sharing. Più tardi quell’auto, o un altro esemplare, tornerà a prendermi.

Ne serviranno di meno, facciamocene una ragione. E non sarà male riconquistare l’uso di quella parte delle città oggi dedicata alle auto in sosta.

Intanto però nelle città italiane le auto sono ancora cresciute. Un recente rapporto di Legambiente sulle 10 più popolose mostra che tutte hanno aumentato il numero di auto rispetto a dieci anni fa, con Catania che addirittura sfiora le 8 auto per 10 abitanti, Torino quasi 7 e Roma 6,6. E siamo il paese più motorizzato dell’Unione Europea.

Riempire la gente di sussidi per continuare a comprarle mi sembra insensato. Per me ha fatto bene il Governo a prevederne un taglio nella proposta di legge di bilancio 2025. 

domenica 27 ottobre 2024

Quando consumi? (Puntata 643 in onda il 29/10/2024)

Biblioteca
all'Università Statale
di Milano 
Non si può dire che i venditori di elettricità abbiano complessivamente fatto un buon lavoro nell’aiutare i clienti a diventare consapevoli di come se ne forma il prezzo.

Intanto, la diffusione di pratiche scorrette di acquisizione dei clienti ha fatto perdere fiducia verso i fornitori, anche se probabilmente le agenzie scorrette sono state una minoranza (ma una minoranza molto infestante). Poi, la lettura delle bollette è oggettivamente un po’ difficile e diventa impossibile se i clienti non comprendono la differenza tra corrispettivi applicati su abbonamento, altri sulla potenza installata (in kW) e altri ancora, incluso il prezzo della materia prima energia, in energia (kWh).

Forse è proprio una reazione alla complessità quel che fa preferire a gran parte dei clienti le offerte a prezzo fisso, in cui nemmeno il prezzo della materia prima cambia durante la vita del contratto. È un bene? Per niente: è un’abitudine che conviene toglierci il prima possibile. Vediamo perché.

L’elettricità per ora è stoccabile solo in minima parte. Di conseguenza, i consumi di un determinato momento vengono assicurati dalla produzione di quello stesso momento.

Nei primi 9 mesi del 2024 in Italia circa il 43% dell’energia è stata fornita dalle fonti rinnovabili, parte delle quali non sono programmabili (soprattutto sole e vento), benché ragionevolmente prevedibili con sempre maggiore accuratezza man mano che si avvicina il momento di produzione e consumo.

Ora, l’energia da sole e vento non ha costi variabili. Ne ha di fissi (per esempio costruzione degli impianti, manutenzione, acquisizione degli spazi), ma la conversione di quantità maggiori o minori di sole o vento in energia nell’ambito della potenza dell’impianto non ne modifica i costi.

Il complemento al 43% di energia da rinnovabili lo produciamo in Italia quasi tutto con il gas, combustibile fossile dannoso per il clima e non economico. In questo periodo costa oltre 40€/MWh che tenendo conto dell’efficienza di conversione in elettricità di una centrale moderna implica un costo del MWh elettrico da gas sui 100€, mentre il prezzo nella borsa elettrica ultimamente è anche più alto di così (sì: probabilmente i produttori ci fanno la cresta, mia personalissima opinione).

Dunque: se io accendo una lavatrice quando sole e vento sono sufficienti a coprire tutto il fabbisogno del momento e anche quello della mia lavatrice, non serve bruciare gas e quindi non aggiungo alcun costo al sistema, né economico né climatico. Se invece la lavatrice la accendo quando l’energia delle rinnovabili non avanza, i costi ci sono.

Ha senso che il nostro prezzo a casa sia uguale in queste due evenienze? No, per niente. Avrebbe senso semmai essere incentivati (magari attraverso un sistema di risposta automatica degli apparecchi a un segnale di prezzo elettronico tramite il contatore) a consumare nelle ore con sufficienti sole e vento.

Gran parte dei contatori casalinghi sono già in grado di attribuire il consumo al momento in cui avviene, quindi basterebbe che i fornitori ne tenessero conto nelle loro fatture per indurci a modulare i consumi sulla base della disponibilità di rinnovabili.

Invece, per ora quasi tutti i fornitori, anche nelle offerte con prezzo differenziato per fasce orarie e in quelle a prezzo agganciato alla borsa elettrica, usano una media mensile del prezzo, non quello effettivo delle ore in cui si è consumato.

In altri paesi europei le cose vanno meglio. Ho visto aziende promuovere contratti associati a impianti da fonti rinnovabili e con prezzo che cambia sulla base dell’effettiva produzione di tali impianti. Ci arriveremo anche noi? Cosa abbiamo investito a fare oltre 4 miliardi di euro in nuovi contatori se a distanza di anni non ne usiamo ancora le capacità?

Ringrazio Marco Ballicu. 

domenica 20 ottobre 2024

Musk partigiano (Puntata 642 in onda il 22/10/24)

L'aeroporto di Londra City sul Tamigi
Un articolo del New York Times del secondo weekend di ottobre 2024 mi convince a scrivere la puntata di Derrick che avevo in mente da un po’: cosa sta succedendo a Elon Musk, l’uomo credo più ricco del mondo e imprenditore geniale capace fondare e gestire in parallelo aziende ognuna delle quali innova in modo radicale il settore di cui si occupa, l’imprenditore che ha di fatto imposto al mondo l’agenda dell’auto elettrica più di qualunque presunta liberticida norma europea e senza il quale gli astronauti americani attualmente nella base spaziale internazionale non sarebbero in condizione di rientrare? Perché Musk a partire dalla scorsa estate ha deciso di esporsi così nettamente a favore di Trump nella corsa alla Casa Bianca?

Non è la prima volta che Musk parteggia pubblicamente per un politico. L’ha già fatto per il governatore della florida Ron De Santis, e in quella occasione Musk ha descritto Trump come ormai sulla via del tramonto, e anche peggio. Da qualche tempo, invece, sul suo social X (ex Twitter) appoggia Trump non solo senza riserve, ma anche abbandonandosi ad affermazioni palesemente insensate. Tra cui che in caso di vittoria di Harris finirebbero a tempo indeterminato le elezioni libere negli USA, perché la politica di immigrazione facile dei democratici renderebbe per motivi di mix elettorale permanentemente in vantaggio i gruppi sociali favorevoli ai democratici. Un’affermazione che si basa, tra le altre cose, sull’assunzione che gli stessi tipi di polarizzazione delle attuali campagne elettorali siano destinati a riproporsi identici in futuro, e sugli stessi temi.

“Se Trump perde, non andremo mai su Marte: una questione esistenziale” ha anche scritto Musk su X, ogni volta raggiungendo decine di milioni di lettori.

Secondo il NYT Musk avrebbe già contribuito per mezzo miliardo di dollari alla campagna dell’ex presidente. Si è perfino presentato sul palco di un suo recente comizio in Pennsylvania.

Perché lo fa, esponendosi così tanto su un esito incerto? D’ora in poi le opinioni sono mie e esulano dall’articolo del NYT.

Parto dal presupposto che Musk sia molto più intelligente di me e che quindi conosca bene la debolezza di certe sue affermazioni su Twitter, e che consideri l’ipotesi di una vittoria di Harris.

Evidentemente pensa che i vantaggi di aver supportato Trump in caso di sua vittoria superino gli svantaggi in caso di vittoria di Harris. Inoltre, dopo l’acquisto incauto di X la cui platea attuale è forse in partenza già favorevole a Trump, usarlo senza ulteriori costi per una campagna che gli porterebbe concreta gratitudine in caso di successo è razionale. Non per niente Trump ha già promesso a Musk un posto in non ricordo quale agenzia governativa.

Nello stesso tempo, in caso di vittoria di Harris, difficilmente Musk si farebbe problemi a cambiare di nuovo idea, e difficilmente Harris rifiuterebbe il riavvicinamento di un imprenditore con la sua influenza e il suo portafogli.

Io, però, che sono forse troppo ingenuo, perdo fiducia in chi mi dà l’impressione di dire cose a cui non crede sulla base della convenienza. Mi piace pensare che questo alla lunga danneggi chi lo fa (anche se so bene che spesso – forse il più delle volte - non è così), sicché ho venduto le mie azioni Tesla quando ho visto il primo dei tweet assurdi di Musk. Credo di averci già perso dei soldi.
 

sabato 12 ottobre 2024

Il futuro nucleare secondo il Governo (Puntata 641 in onda il 15/10/24)

Una centrale termica a pellet

Il 9 ottobre 2024 il ministro Pichetto Fratin è stato audito in Parlamento sulle prospettive dell’energia nucleare in Italia. Ecco la mia sintesi della memoria che ha presentato.

La prima notizia mi sembra l’abbandono delle velleità verso centrali nucleari dell’unica dimensione esistente oggi al mondo: cioè quelle grandi, che tipicamente vedono siti dell’ordine di almeno 1 GW. Nella memoria del ministro si legge infatti che “non stiamo valutando centrali di grandi dimensioni di prima o seconda generazione” ma solo i piccoli Small Modular Reactor e, in prospettiva più remota, gli Advanced Modular Reactor autofertilizzanti, sulla cui ricerca il ministro dice che l’Italia è ben posizionata, ma che non sono una tecnologia in alcun modo vicina alla disponibilità commerciale.

È una notizia, perché invece il piano nazionale energia-clima (così come precedenti dichiarazioni del Governo) parla di un’adozione potenziale di tutte le opzioni tecnologiche esistenti, da quelle oggi mature fino alla fusione nucleare.

Il nucleare di cui parla Pichetto è quindi di un tipo oggi non operativo in nessun luogo del mondo e che, stando ai piani dei pochi soggetti industriali che se ne occupano, non vedrà prototipi attivi ancora verosimilmente per il resto del decennio. L’unico SMR sperimentale in costruzione mi risulta essere in Cina.

Un altro tema, prevedibile ma non per questo meno rilevante, è la sovranità. Non poteva mancare una sua applicazione al nucleare: “La catena produttiva sarà in gran parte realizzata in Italia” scrive Pichetto nella sua memoria d’audizione. Il che è coerente con l’impegno del ministro a realizzare nel 2039 il deposito di lungo termine delle scorie nucleari in Italia, necessario non solo al vecchio ed eventualmente nuovo nucleare per produzione elettrica, ma anche alle applicazioni non energetiche (soprattutto mediche) che producono ogni anno dai 300 ai 500 m3 di rifiuti a bassa e media intensità, oggi raccolti in 22 siti che, suggerisce implicitamente il ministro credo con qualche ragione, dovrebbero preoccuparci più dell’unico sito futuro. Il quale potrà essere ospitato in uno dei 51 luoghi già identificati come idonei, una volta fatta la valutazione ambientale strategica e trovati accordi con la regione interessata, ha spiegato il ministro.

Il sovranismo nucleare prevederà anche un monopolista “nazionale” di “dimensioni e competenze” opportune. Scelto dal Governo? Con quali garanzie della contendibilità del settore, ammesso che tali garanzie interessino ancora nell’era del sovranismo e che la nuova Europa si occuperà ancora di concorrenza e democrazia economica nella sua nuova visione di competitività?

Converrà l’energia dei minireattori? Il ministro si è esposto in una valutazione quantitativa di 17 miliardi di € di risparmi (all’anno, presumo) nel 2050, che per essere presa sul serio richiederebbe la messa a disposizione da parte del Governo delle logiche e dei numeri del simulatore che l’ha ricavata. Per orientarsi, l’intero valore all’ingrosso dell’elettricità consumata oggi in un anno in Italia non raggiunge i 30 miliardi.

Sulla convivenza tra il nuovo nucleare e le fonti rinnovabili il ministro dà solo rassicurazioni generiche. A me continua a non essere chiaro (e nessuno mi ha mai risposto per ora) come una tecnologia ad alti costi di capitale possa essere adatta ad accendersi solo quando mancano sole e vento, oppure chi si farà carico dei costi di stoccarne il sovrappiù di produzione nei periodi in cui le rinnovabili forniranno l’intera domanda (il che succederà quasi sempre visti gli impegni già presi dal Governo e soprattutto lo sviluppo sempre più rapido delle rinnovabili).

Il ministro, riassumendo, propone un futuro di minireattori flessibili e distribuiti sul territorio, ritenendoli più convenienti rispetto alle altre tecnologie di complemento alle fonti rinnovabili. Un futuro in cui lo stesso Paese che impiega oggi 7 anni per autorizzare un sito eolico accetterà di buon grado varie decine di reattori nucleari sparsi per il territorio, anche annessi ai vari distretti industriali.

Confindustria, con il suo nuovo presidente Orsini, ha rilasciato dichiarazioni secondo trova questo scenario più verosimile rispetto alla transizione energetica già impostata, che invece rischierebbe di rendere l’energia e quindi l’industria meno competitiva. Probabilmente Orsini ha in mente uno scenario in cui a pagare i costi dell’energia nucleare non sono i suoi associati.

martedì 8 ottobre 2024

Viaggio in Cina meridionale e Vietnam del Nord, agosto-settembre 2024 (Puntate 635-640)

Guangzou (Canton)
L'ultima settimana di agosto 2024 sono partito da Fiumicino per Canton, nella Cina meridionale, dove dopo una breve sosta sono ripartito per Kunming, il capoluogo della regione dello Yunan. Ecco le puntate di Derrick in diretta differita dal viaggio.
Tonghai

Prima tappa

Da Kunming mi sono mosso in treno fino al confine con il Vietnam presso Lao Cai, ho esplorato con una moto a noleggio le zone montuose di confine e ho proseguito poi con uno splendido treno lungo il fiume rosso, con una tappa intermedia, fino ad Ha Noi.

A Nord di Bac Ha

Seconda tappa

Ha Noi
Terza tappa

Da lì ho proseguito verso la baia di Ha Long e l'isola di Cat Ba, ma ho dovuto scapparne molto presto perché si stava avvicinando il ciclone Yagi, che puntava proprio sulla baia.

Quarta tappa

Mercato di Pinxiang

Così da Bai Chai ho preso un bus per tornare verso la Cina, di nuovo un confine montano non lontano da Pingxiang, una cittadina circondata da montagne aguzze e con un mercato animatissimo.

Quinta tappa

Ma ho rischiato di rimanerci isolato: treni e bus erano cancellati a causa del ciclone, e per raggiungere Nanning, il capoluogo del Guangxi, sono stato costretto a usare un taxi informale gremito all'inverosimile per oltre 200 km di autostrada ancora con i segni visibili del vento violentissimo.

Sesta tappa

Nanning

Nella Nanning spazzata dalle piogge ho realizzato che anche i miei voli dei giorni successivi erano cancellati...

lunedì 26 agosto 2024

Come diventare un produttore netto di energia a casa (Puntata 634 in onda il 27/8/24)

Casa a Carpinone (IS)
Intervista a Marco Allegrezza sugli impianti energetici installati nella sua casa autonoma recentemente ristrutturata a Mondavio (PU).

Fotovoltaico con accumulo, solare termico e pompa di calore elettrica per diventare un produttore netto di energia e staccarsi dal gas.

Quanto ha speso? Ha potuto usare il superbonus?
Audio della puntata qui: https://youtu.be/WdUN6hCMFjQ.

martedì 6 agosto 2024

I bonus in natura con sconti fiscali (Puntata 617 in onda il 9/4/24 e in replica il 6/8/24)

Santo Antonio da serra (Madeira, Portogallo)

Una cosa che sembra piacere ad aziende, sindacati e incomprensibilmente perfino ad alcuni dipendenti sono le forme di retribuzione in natura con vantaggi fiscali.

Un esempio comune, almeno da quando io ho esperienza del mondo del lavoro dipendente, sono i buoni-pasto come alternativa alla mensa aziendale. Recentemente però la cosa si sta allargando in modo un po’ incontrollato. Governi di tutti gli schieramenti hanno introdotto negli ultimi anni sconti fiscali sui premi in natura ai dipendenti.

Per chi ha la fortuna di non averlo ancora provato, ecco come funziona il meccanismo.

L’azienda ti dà tot euro di premio che rientra nelle casistiche della retribuzione in natura con vantaggio fiscale. Essendo questa corresponsione, appunto, in natura, non si può trattare di soldi. Tu dipendente però vorresti essere libero di fare con questa piccola retribuzione aggiuntiva quello che vuoi. L’azienda lo capisce, lei stessa del resto ha solo l’obiettivo di sfruttare un’opportunità per darti un po’ di remunerazione a minor impatto fiscale e non ha alcun interesse a comprare dei prodotti al tuo posto. Quindi si trova a dover fare un accordo con intermediari che generano per te dei voucher spendibili in acquisti, in modo che sia comunque rispettato il fatto che il premio sia formalmente in natura.

L’intermediario metterà in piedi un suo sistema di convenzioni per far sì che i suoi voucher (generalmente elettronici) siano accettati da alcune catene di negozi e tu dovrai smanettare ore nel sito dell’intermediario per farti generare i buoni spesa per i negozi che preferisci tra quelli disponibili.

La scelta sarà limitata, perché l’intermediario tipicamente farà convenzioni solo con alcune (di solito le principali) catene commerciali (nel caso che ho sperimentato io, l’unico circuito generalista per acquisti online proposto è Amazon, per il resto ci sono catene specializzate su singoli comparti oppure i principali supermercati per la spesa alimentare).

Qual è dunque il risultato finale di tutto l’ambaradan?

  1. Il vantaggio fiscale in parte se ne va all’intermediario.
  2. Il dipendente deve perdere un sacco di tempo nella generazione, conservazione e uso dei voucher, decisamente meno flessibili rispetto al denaro perché usabili solo presso un esercente, con importo prestabilito ed entro una scadenza.
  3. Avendo i voucher appunto un valore predefinito, per definizione richiederanno di aggiungere soldi o di acquistare qualcosa di non davvero necessario pur di usarli interamente prima della scadenza.
  4. Non c’è nessuna possibilità di acquistare presso circuiti indipendenti.
  5. Siamo obbligati a spendere, e anche in fretta, il bonus che ha originato i voucher, anziché risparmiarlo o investirlo.

Quest’ultimo punto forse nella mente del legislatore è l’elemento virtuoso: io ti do dei soldi con sconto fiscale ma tu sei tenuto a spenderli subito muovendo l’economia.

Ma non è verosimile invece che userò i voucher, pur con le limitazioni di cui sopra, per comprare quel che avrei comprato comunque anche se magari non dagli stessi fornitori e a un prezzo meno conveniente?

In ogni caso, un Governo che voglia ridurre la pressione fiscale sui redditi a mio avviso dovrebbe agire su aliquote o scaglioni IRPEF anziché foraggiare i produttori di voucher e complicare la vita dei dipendenti rispetto a quanto avverrebbe con un premio in denaro con lo stesso vantaggio fiscale.


martedì 30 luglio 2024

Elettrificazione dei consumi e false verità (Puntata 633 in onda il 30/7/24)

Pressostato per lavabiancheria
Come la volta scorsa, oggi provo a smontare una classica argomentazione di contrasto da talk show alle politiche di mitigazione del danno climatico. Il luogo comune sbagliato della settimana è: “non ha senso che usiamo le auto elettriche se tanto l’elettricità la facciamo ancora a carbone”.

Questo periodo avrebbe leggermente più senso, ma sarebbe ancora sbagliato, coniugato nel tempo dell’irrealtà, al congiuntivo imperfetto, ossia: “non avrebbe senso usare auto elettriche se facessimo ancora l’elettricità a carbone”.

In realtà per fortuna il mondo usa sempre meno fonti fossili dannose per il clima per fare elettricità. La prima parte del 2024 in particolare ha visto accelerare il boom delle fonti rinnovabili anche in Europa, solo in parte grazie alla maggior disponibilità di energia idroelettrica rispetto agli anni precedenti. In Italia nella prima metà del 2024 abbiamo superato il 43% di elettricità da fonti rinnovabili (un record per noi), e il restante non è se non in minima parte da carbone. Oltretutto, tutte le centrali a carbone in Italia saranno chiuse entro il 2025 secondo la Strategia Energetica e il PNIEC, tranne quelle sarde che probabilmente ci metteranno qualche anno in più (con conseguente responsabilità politica di chi avalla tale ritardo).

Se teniamo conto degli impianti in costruzione, il sorpasso delle rinnovabili sulle fossili nell’elettricità è a un passo anche in Italia, dopo essere avvenuto già in Europa.

Quindi: la storia dell’elettricità da carbone non è mai stata vera in Italia, ma anche intendendo gas fossile e non carbone è e sarà rapidamente sempre meno vera.

Detto questo primo chiarimento, ce ne sono altri due forse meno ovvi.

Il primo: elettrificare i consumi (per esempio usando elettricità anziché benzina) ha senso anche perché la quota rinnovabile dei combustibili è molto più bassa di quella della produzione elettrica, ed è destinata a restarlo in particolare a causa della complessità di approvvigionarsi di biomassa combustibile, che in molti casi richiede vastissime aree di agricoltura dedicata e sottratta ad altro, o sfridi che però non sono disponibili in quantità sufficiente.

Il secondo motivo per cui elettrificare i consumi è sempre meglio che non farlo è l’inquinamento. Se anche, per assurdo, producessimo l’elettricità tutta da fonti inquinanti, sarebbe sempre meglio che ad inquinare fossero impianti relativamente efficienti e in grado di controllare le emissioni e lontane dai luoghi densamente abitati che tubi di scappamento urbani ad altezza di passeggino.

Vi torna? Se sì, per favore fate una pernacchia la prossima volta che sentite la cretinata del “tanto non cambia niente se uso l’auto elettrica” (o la pompa di calore).

Prima di chiudere, uno spot. Se vi piace Derrick (ma anche se no) potreste trovare interessante Ecoglossia, il nuovo podcast prodotto da I nomi e Michele Governatori su come scriviamo in azienda, e sui tic della scrittura di servizio, da un lato divertenti da osservare, dall’altro forse specchio di problemi dentro alle organizzazioni. Su Spotify, Amazon Music e YouTube


lunedì 22 luglio 2024

UE autolesionista negli sforzi per il clima? (Puntata 632 in onda il 23/7/24)

Un abitante del parco archeologico di San Augustin (Colombia)
Un abitante del
parco archeologico di
San Augustin (Colombia)
Un brutto fenomeno che io patisco, e magari non sono il solo, è la fatica nel trovarmi di fronte a conversazioni già sentite, con interlocutori che usano sempre le stesse uscite argomentative convinti che siano brillanti o definitive ma senza in realtà averle mai approfondite o testate con un minimo di accuratezza.
Bisogna a tutti i costi reprimere l’insofferenza che ne deriva se uno ha la velleità di fare piccola divulgazione nel campo di cui si occupa. Altrimenti il fallimento è palese.

Allora tento oggi un piccolo esercizio: prendo una di queste argomentazioni da talk show e provo a dire perché è completamente controvertibile.

L’affermazione, o meglio: la famiglia di affermazioni, è questa:

“L’impegno europeo sulle politiche del clima è autolesionista e inutile, perché l’Europa conta per una minima parte delle emissioni dannose globali”.

Allora: guardiamo intanto i numeri. Il mondo emette circa 35 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente all’anno, di cui il continente europeo poco più di 5 di cui poco più della metà nell’Unione Europea. È poco? Dipende da a cosa lo relazioniamo. Relazionarlo alla popolazione, calcolando le emissioni procapite, mi sembra ovvio. E cosa ne esce? Che in Europa emettiamo più della media del mondo, anche se meno dei Paesi peggiori da questo punto di vista, che sono Nord America, Australia, paesi ricchi del Golfo e Russia.

Quindi è vero che tra i paesi ricchi noi europei siamo più virtuosi, ma stiamo comunque danneggiando il clima in misura maggiore dell’abitante mondiale medio.

Un fatto evidente è che per ora chi è più ricco ancora inquina di più anche se il trend è in miglioramento (la Russia è un esempio particolarmente negativo con meno ricchezza ma altissime emissioni procapite). L’Europa da tempo riduce le proprie emissioni in termini assoluti, mentre il nord America lo fa da pochi anni (ma a rendere meno significativo questo risultato c’è da osservare che la nostra economia è stagnante).

Ma ora chiediamoci: ha senso attribuire responsabilità climatiche solo in base alle emissioni attuali? Ma certamente no! Perché? Perché l’effetto-serra è il risultato delle emissioni dannose accumulate dall’inizio dell’era industriale, in Europa a fine Settecento, nel Sudest Asiatico mediamente pochi decenni fa e in Africa in molti casi non ancora. Chi si è sviluppato compromettendo risorse ambientali ha o non ha la responsabilità di mitigare l’effetto di ciò nei confronti del resto della comunità umana?

Infine, e questa è forse la controargomentazione che mi sembra più rilevante. Se è vero (e abbiamo visto che lo è solo parzialmente) che negli sforzi per il clima l’Europa si comporta meglio di altri e che è stata pioniera di questa e tante altre forme di sviluppo, dovrebbe questo portarci a smettere di innovare e di segnare la rotta rispetto al pianeta? Di rinunciare a quel che resta della nostra capacità di influenza virtuosa?


Link

martedì 16 luglio 2024

Rivolte fiscali (Puntata 631 in onda il 16/7/24 e in replica il 20/8/24)

Sentiero verso l'attacco della Ferrata Delle Aquile
Verso la
via ferrata delle Aquile
(Faì della Paganella)
È ora di tornare su un tema caro a questa rubrica: i sussidi ambientalmente dannosi, che sono quasi tutti sussidi al consumo o produzione di energie fossili soprattutto derivati del petrolio, gas naturale e carbone) e includono discipline fiscali come gli incomprensibili aiuti alle auto-benefit dei quadri e dirigenti d’azienda a spese di tutti i contribuenti. (Su questo tema meriterebbe una rubrica a parte la fantasia con cui chi difende simili aiuti si arrampica sugli specchi per trovarci una logica).

Ma anche quando la politica concorda sul fatto che i soldi pubblici è meglio metterli su attività non dannose ad ambiente e clima, riuscire a mettere le mani al sistema fiscale coerentemente senza farsi male in termini di popolarità è difficile. E lo è soprattutto per la impreparazione con cui le riforme vengono formulate, non spiegate e infine applicate.

Gli economisti che si occupano di finanzia pubblica e seguono la materia ripetono ormai fino alla noia che introdurre tasse ambientali o eliminare sussidi dannosi all’ambiente (che di solito implica che alcuni beni iniziano a costare di più al consumatore) va fatto insieme a forme di compensazione. Per esempio, se sei un camionista o un tassista e ti tolgo lo sconto sulle accise del gasolio, ti propongo un rimborso fiscale tarato su quanto, con una flotta ragionevolmente efficiente, mi aspetto ti costi l’aumento di accise. A questo punto, tu camionista o tassista puoi continuare a comportarti come prima – senza che economicamente cambi nulla – oppure, com’è verosimile, cambierai i tuoi comportamenti assecondando il maggiore incentivo a consumare meno gasolio, per esempio grazie a mezzi più efficienti o legando di più le tue tariffe finali ai consumi, che è anch’esso un comportamento virtuoso per il sistema economico, perché passa a valle un incentivo virtuoso al cliente finale.

Benché l’Italia e altri paesi OCSE non siano messi bene in termini di spesa fiscale dannosa all’ambiente, la situazione è più critica in Paesi con redditi medi più bassi. Nella pagina delle Afriche dell’Economist di questa settimana si parla di Kenya, con le recenti rivolte che hanno indebolito il presidente Ruto partite dall’opposizione a una riforma fiscale che ha incluso l’aumento di alcune imposte indirette (cioè sul prezzo di beni), e di Nigeria dov’è in atto un processo inflativo sui prezzi del cibo legato anche alla riduzione di sussidi sui combustibili per trasportarlo.

Si direbbe che i Governi tendano a fallire nello spiegare perché le tasse servono e perché in qualche caso alcune vanno ritoccate in aumento a fronte di vantaggi maggiori per la generalità dei cittadini. Per esempio: se il Kenya o la Nigeria dovessero peggiorare la situazione dei già critici bilanci pubblici, magari con iperinflazione per ridurne l’impatto, la tassa da inflazione soprattutto per salariati e classe media avrebbe impatti verosimilmente peggiori e più iniqui rispetto all’aumento del prezzo del gasolio. In generale, un sistema strutturale di carbon tax può evitare altre tasse e rende non necessari i (peraltro già ridotti ormai in Italia) aiuti pubblici alle tecnologie pulite, come da anni sostiene, a restando tra le voci di questa Radio, Marco Cappato con la sua iniziativa EuMans.

Ma se i politici non hanno l’ardire o la capacità di spiegare questi meccanismi, il rischio è d’impoverirsi ulteriormente, bloccati nella trappola delle rivolte di strada o nell’ostruzionismo delle corporazioni.


Link

martedì 9 luglio 2024

Raccomandate postali. Perché esistono ancora? (Puntata 630 in onda il 9/7/24)

Pista ciclabile a Scutari

Qualche giorno fa ho adocchiato rientrando in casa uno di quegli scontrini menagrami che ti lascia il postino quando tenta di recapitarti qualcosa. Menagrami perché significano nel migliore dei casi ore di perdita di tempo per entrare in possesso del dispaccio, ma in alcuni casi come quello capitato a me non è nemmeno possibile recuperare la missiva andando alle Poste. E la cosa comica è che lo chiamano “avviso di cortesia”. Bella cortesia tenersi una lettera e impedirti di venirne in possesso.

Sono abbonato da anni all’Economist che esce il venerdì. Le Poste in rari casi me lo hanno recapitato il lunedì, più spesso il martedì. Non nei periodi festivi, in cui non me lo recapitavano proprio e ricevevo due numeri insieme la settimana successiva.

All’Economist lo sapevano e quando glielo segnalavi gli toccava rimborsarti il numero mai arrivato. Finché, finalmente, nella mia zona hanno assoldato qualcun altro per la consegna. Da allora ricevo il giornale il sabato all’alba senza per ora mai una défaillance.

Ma torniamo agli avvisi lasciati dal postino. E alle raccomandate. Nel caso di cui parlo si tratta di una comunicazione della Agenzia delle Entrate non raccomandata, ma se fosse una raccomandata non cambierebbe quel che sto per dire. Agenzia delle Entrate ha una solida interfaccia informatica da non so quanto tempo. Io faccio le dichiarazioni fiscali, pago le tasse, mando e ricevo fatture, tutto online. Possibile che serva ancora ricevere alcune comunicazioni cartacee dall’Agenzia? E possibile che per farlo occorra affidarsi a Poste Italiane che evidentemente ha interesse a vendere qualunque servizio tranne che a offrire decentemente quello di cui ha più o meno il monopolio?

Non ci voglio andare alla posta. Non c’è nessun motivo ragionevole per cui io debba perdere tempo così. Ho tutte le identità e recapiti digitali di cui lo Stato o altri hanno bisogno per rintracciarmi o farmi comunicazioni.

Ma immagino che ci siano ancora norme che prevedono le raccomandate in situazioni specifiche. Per esempio, nella fornitura di energia è stato a lungo previsto (e forse lo è ancora) che una modifica unilaterale di contratto debba essere comunicata via raccomandata.

Ora che abbiamo la mail, la pec, lo SPID e perfino un’app dei servizi pubblici desidero fare un appello al legislatore perché bandisca le raccomandate postali da qualunque normativa, almeno per chi è dotato di una pec.

E in tutto questo, mi aumenta solo il nervoso vedere che Poste si accorda col Governo per gestire le pratiche dei passaporti. Sarà un alibi per deresponsabilizzare ulteriormente lo Stato sui tempi (in peggioramento) di questo servizio? Che naturalmente alle Poste non sarà gratis.

Fare il passaporto in questura stando alla larga dalle Poste diventerà forse come rinnovare la patente alla Motorizzazione, dove se non sei un’agenzia ti mettono in fila allo sportello dei paria.




martedì 18 giugno 2024

Salviamo le stazioni ferroviarie isolate (Puntata 627 in onda il 18/6/24)

Vista dell'altopiano nei pressi di Campo Catino

Questa puntata si può ascoltare, oltre che sul sito di Radio Radicale, anche qui.

Tempo fa per la serie “Le camminate impossibili” ho parlato della stazione di Giuncano, in val Serra, a nord di Terni. Una valle e isolata senza una strada importante che la valichi ma attraversata dalla ferrovia Roma-Ancona, ferrovia che a Giuncano raggiunge uno dei suoi punti più alti prima di entrare nel tunnel di valico che verso Nord la avvicina a Boiano non lontano da Spoleto. Un paradiso per i ciclisti o per chi voglia stare in giro senza essere in un corridoio di passaggio di automobili o folle.

Peccato che Giuncano e i borghi limitrofi (segnalo da visitare per esempio Macerino) siano talmente spopolati da aver portato alla soppressione della fermata di tutti i treni a Giuncano. La stazione serve ancora come punto di intersezione tra treni e come base per macchine ferroviarie rincalzatrici e d’altro tipo, ma non fa più servizio viaggiatori.

La scorsa domenica facevo un altro dei miei giri in bici sul versante abruzzese dei monti Simbruini, che insieme al territorio laziale dell’omonimo parco regionale è una delle più belle aree di natura vicine a Roma per chi vuole camminare o andare in bici tra faggete e pascoli di mucche e cavalli.

Ho fatto l’errore di arrivare da Roma a Carsoli in auto e mi sono riproposto di non ricascarci in futuro, visti i prezzi ormai folli dell’autostrada dei Parchi (che da sola costa più del treno senza tenere conto del carburante) e le code alla barriera Roma est la sera al rientro. Poi finalmente inforcata la bici ho fatto la vecchia Tiburtina fino al valico di Monte Bove, in una valle lussureggiante il cui unico insediamento è il borgo di Colli di monte Bove. La strada sale dolcemente da 500 metri d’altitudine fino ai circa 1100 del valico senza alcuno strappo. Strada per fortuna ormai frequentata solo da chi lo fa per diporto e dai pochissimi residenti rimasti, mentre autostrada e nuova Tiburtina seguono un percorso più a Nord. Prima di Colli la strada s’incrocia con il tracciato ferroviario Roma-Pescara, credo di fine ‘800, bellissimo per i panorami che attraversa e per l’eroicità con cui in quei tempi si cercava di minimizzare i tratti in tunnel. E proprio sotto al paese (parecchio sotto in verità) c’è l’omonima stazione di Colli di Monte Bove poco prima dell’inizio della galleria di valico da cui i convogli riemergono a Sante Marie, nei pressi di Tagliacozzo, fermata successiva.

A Colli di Monte bove si fermano ancora – mentre scrivo (nel giugno 2024)  – solo un paio di treni al giorno in ciascuna direzione.

È razionale sul piano dell’interesse attuale dei viaggiatori isolare le stazioni di paesi spopolati? Probabilmente sì: il minuto perso per la sosta, moltiplicato per tutti i passeggeri, forse vale di più della perdita di un servizio per poche decine di utenti potenziali dell’area isolata.

Ma le ferrovie che oggi chiamiamo regionali, coi percorsi tortuosi che in parte hanno unito l’Italia, hanno anche un valore simbolico e sociale nel connettere i borghi remoti che hanno la fortuna di stare sul loro tracciato. Forse dovremmo considerarlo.

Lunga vita alle ferrovie regionali d’Italia. E che ci costringano a perdere qualche minuto a osservare le pensiline di piccole stazioni remote, e perfino a varcarne i marciapiedi.

Derrick sarà felice di dare visibilità a segnalazioni su casi di fermate ferroviarie a rischio o certezza d’isolamento. Qui sul blog le istruzioni per contattarmi.

Tutte le puntate sulle "camminate impossibili": https://derrickenergia.blogspot.com/p/le-camminate-impossibili.html

martedì 11 giugno 2024

Costi di congestione urbana (Puntata 626 in onda l'11/6/24)

Chi si lamenta che l’autobus non passa dovrebbe prendere in considerazione il fatto che non passi non perché non è uscito dal deposito, ma perché è bloccato nel traffico.

Per garantire la stessa frequenza (pur con una più bassa velocità) dei bus in mezzo a un traffico più congestionato, serve avere più bus circolanti, con maggiori costi pur in presenza di un servizio più lento, e contribuendo oltretutto alla congestione.

Chi, oltre a lamentarsi, sceglie di prendere più spesso l’auto, diventa un contributore al peggioramento del problema.

La congestione costa. In termini di tempo e quindi di reddito perso, in termini di inquinamento, in termini di qualità della vita. Rende le città congestionate miserabili e brutte e produce un abbrutimento di chi resta bloccato.

Costa anche la congestione delle auto parcheggiate, del resto. In termini di mancato uso alternativo di quello spazio.

Immaginiamo di voler viaggiare in treno larghi avendo a disposizione le due coppie dirimpettaie di sedili anziché uno solo. Riterremmo normale pagare quattro biglietti anziché uno, perché sottraiamo quei posti ad altri. Allo stesso modo sarebbe razionale pagare di più per occupare una strada con un oggetto di 10 metri quadri (un’auto) anziché con uno di uno (una bici) o di mezzo se andiamo a piedi.

La congestione, per dirla con gli economisti, è uno dei costi esterni (cioè non pagati o non del tutto da chi li causa) più importanti delle città. Facendola pagare a chi la provoca se ne produrrebbe di meno, e solo quella socialmente efficiente, cioè che rende possibili attività che valgono di più del danno che la congestione causa.

Città come Londra o Milano già fanno pagare i veicoli privati tenendo conto del costo di congestione e non solo di quello dell’inquinamento. Ma in generale tutte le limitazioni applicabili solo negli orari di punta considerano in qualche modo il costo di congestione e non solo quelli dell’inquinamento.

Eppure, la governatrice dello stato di New York ha appena rimandato sine die la congestion charge che avrebbe dovuto far pagare 15 dollari al giorno a tutti i veicoli in ingresso a Manhattan sotto la sessantesima strada.

Sarà quindi l’intera comunità mewyorkese a continuare a pagare. Un segnale brutto che speriamo non interrompa un percorso virtuoso della città, che ha negli ultimi anni valorizzato con successo la mobilità ciclabile e pedonale.

martedì 4 giugno 2024

Energia nucleare: intervista a Gilberto Dialuce (Puntata 625 in onda il 4/6/24)

Il 28 maggio 2024, a margine di un evento per giornalisti sull’energia nucleare con Governo e esperti, ho fatto qualche domanda al presidente Enea Gilberto Dialuce, che ci parla delle prospettive di costo di nucleare e rinnovabili, di necessità di sostituire i vecchi impianti francesi e immagina anche scenari di piccoli reattori asserviti ai distretti industriali italiani.

Il punto debole mi sembra l’idea di inserire una tecnologia a produzione costante proprio quando un consumo costante al netto delle rinnovabili non esisterà più, con necessità quindi di stoccare non solo l’energia da rinnovabili nelle ore di sovrapproduzione, ma anche il nucleare in forma di idrogeno o altro. Ma sentiamo Dialuce anche su questo:

https://youtu.be/OHVFy-2uAvo?si=98rN1t7GA5Dwieah&t=36

Grazie davvero a Gilberto Dialuce presidente di Enea che speriamo di riavere presto a Derrick.

L’intero evento del 28 maggio è disponibile in audio e video sul sito di Radio Radicale, qui.


martedì 28 maggio 2024

Politica industriale "assertiva" (Puntata 624 in onda il 28/5/24)

Antonio Quiros - Ritrato de Don Quijote
Al festival dell’Economia di Trento [2024], che mi sembra sia diventato un po’ troppo simile a qualunque talk show politico almeno nelle parti che ho ascoltato, è intervenuto a lungo in un’intervista il ministro delle imprese e del made in Italy Adolfo Urso parlando della sua idea di politica industriale, che ha definito almeno tre volte “assertiva”.

Un’assertività nella direzione principalmente del protezionismo, mi è sembrato, ma con elementi forse discordanti. Vediamo alcuni passaggi:

  • Sull’industria dell’auto il ministro ha annunciato nuovi incentivi alla rottamazione di auto inquinanti per l’acquisto di modelli più puliti (ibridi ed elettrici), incentivi legati anche all’origine italiana dell’auto (Non solo: anche gli input devono essere il più possibili italiani, come l’acciaio, e quello secondario dei forni elettrici non basta all’industria dell’auto – ha detto il ministro).
  • Anche sugli aiuti alle energie rinnovabili ha lasciato intendere che un elemento discriminante potrebbe essere l’uso di apparecchi fatti in Italia.

Questi due punti non sono molto diversi dal requisito di origine locale previsto nei sussidi del programma americano Inflation Reduction Act, e quindi non si può certo accusare Urso di iniziare lui un processo protezionistico.

Resta il fatto che la compatibilità tra simili norme e gli accordi internazionali sul commercio è quantomeno dubbia, e che esse, mentre forniscono rendite ad aziende locali, costano care ai consumatori (e al bilancio pubblico se basate su sussidi alla capacità produttiva locale). In più, nel lungo termine le aziende sottratte alla competizione internazionale difficilmente hanno gli stimoli per diventare più competitive. Ma torniamo a Urso:

  • Su Energia ha annunciato lo sviluppo del nucleare di “terza generazione avanzata”, di “quarta generazione” e della fusione (quest’ultima nel 2050). Quindi addirittura una partenza di tre famiglie tecnologiche (le prime due peraltro non meglio precisate) che visti i tempi di realizzazione e di vita degli impianti non potrebbero che coesistere. Come dire: da zero a tutto. (Con quali soldi temo sia sottinteso: pubblici).

Ma, sorpresa, è sempre sull’energia che il protezionismo di colpo si sospende. Perché il ministro ha citato il piano italiano di diventare un “hub”, cioè un polo di passaggio ed esportazione, sia di gas che di elettricità. Quindi lo stesso paese che vuole diventare energeticamente autonomo (altro auspicio del ministro) conta sulla disponibilità degli altri paesi a dipendere da lui.

Ora, a mio avviso non c’è dubbio sul fatto che almeno a livello europeo, ma non solo, il sistema energetico sia e sarà caratterizzato da enormi interdipendenze e necessità di sfruttare potenzialità complementari a livello internazionale (si pensi a paesi ricchi di vento e altri ricchi di sole, a chi ha il nucleare e chi grandi capacità di stoccaggio per ora in forma idroelettrica o anche – sebbene con un orizzonte temporale ristretto – a chi ha maggior accesso a corridoi di importazione del gas).

Proprio per questo ciò che non mi convince nella politica “assertiva” del ministro è che si basa sulla convinzione che si possa limitare l’import senza danneggiare l’export. Non funziona così. Il protezionismo genera reazioni protezionistiche di chi oggi compra le nostre cose e rende più costosi gli input della nostra manifattura. Cioè danneggia l’export. E danneggia i consumatori, condannati a pagare di più per approvvigionarsi dai nuovi oligopolisti locali.

martedì 21 maggio 2024

Blade runners (Puntata 623 in onda il 21/5/24)

Pala eolica mancante
Chi ha rubato la pala?
La potenza di una turbina eolica è proporzionale al quadrato della lunghezza delle sue pale. Per questo si tende a costruire rotori eolici per la produzione elettrica di dimensioni sempre maggiori. Qualche anno fa sarebbe stato impensabile che un singolo generatore potesse avere una potenza di 15 MW, come avviene ora con le taglie più grandi disponibili sul mercato.

Un articolo dell’Economist (link sotto) di metà maggio intitolato “Blade runners” (ah-ha) si dedica al trasporto delle pale dal sito di produzione a quello di funzionamento, dove le pale vengono issate sul rotore. Non un lavoro facile quando la loro lunghezza raggiunge perfino i 100 metri o più, tant’è che gli impianti a terra più grossi tipicamente vengono realizzati in prossimità dei porti.

Alla ricerca di soluzioni stanno lavorando diverse nuove aziende di cui parla l’articolo. Premessa: fare pale pieghevoli non sembra un’opzione a causa dell’aumento di peso e perdita di efficienza dovuto ai giunti (curioso che nel mondo dell’aeronautica civile invece la soluzione è presa in considerazione per permettere a futuri aerei ad ala lunghissima – più efficienti - di usare gli aeroporti attuali senza urtarne i manufatti).

Quali soluzioni allora? Già oggi si usano camion in grado di orientare in modo dinamico il carico di pale in modo da permettere loro di adattarsi meglio alla geometria delle strade attraversate. Ma anche, più radicalmente, dirigibili porta-pale, o aerei cargo con stiva di dimensioni multiple di quelle del 747 Jumbo Jet.

E se le pale giganti non riescono proprio ad arrivare al sito dove ruoteranno, potrebbero essere prodotte sul sito stesso con adeguate stampanti 3D (altra startup).

Circa il 7%, sempre secondo l’Economist, è la quota di spesa in conto capitale che se ne va in media in trasporto del materiale in un’impresa di produzione di energia eolica.

Visto che sono già in mare, sembrano avvantaggiati i siti offshore, che però per la loro remotezza e complicazioni di ancoraggio e connessione sono al momento complessivamente più costosi di quelli a terra.

L’energia eolica è insieme a quella solare la più economica del mondo, malgrado le sue sfide logistiche non indifferenti. Aspettiamoci quindi sempre più convogli veramente eccezionali sulle nostre strade, mari, e magari cieli.


Link

martedì 14 maggio 2024

Sanzioni all'energia russa - Aggiornamento (Puntata 622 in onda il 14/5/24)

Trasporto di GPL a Fez
L’Europa importa oggi circa un terzo in meno di gas via tubo dalla Russia rispetto a prima della guerra, l’Italia meno di un quinto, e di certo i ricavi stellari che la Russia ne traeva poco dopo l’invasione dell’Ucraina sono ormai solo un ricordo grazie ai volumi ridotti e soprattutto ai prezzi tornati a livelli oltre 10 volte più bassi del massimo storico dell’estate 2022.

Secondo un articolo dell’Economist di inizio maggio 2024 (link sotto) sono incerte anche le prospettive future delle esportazioni russe di gas via tubo verso l’Asia. Sarebbe in stallo infatti la cooperazione tra Cina e Russia per il finanziamento e la costruzione del gasdotto “Power of Siberia 2” che dovrebbe collegare con la Cina  i giacimenti siberiani occidentali che ora servono l’Europa. L’Economist fa notare che se le previsioni a breve di consumo di gas in Asia sono in netto aumento, è difficile prevedere flussi sufficienti nel più lungo termine necessario ad ammortizzare qualsiasi metanodotto.

Resta florido però complessivamente il business dell’energia russa oggi. Compreso quello del gas via nave, che arriva anche in Europa in parte vanificando il ridotto transito via tubo (varie fonti parlano di oltre 20 miliardi di m3 nel 2023, oltre un terzo in più dell’anno prima). Gas di cui peraltro solo una parte viene consumato nel nostro continente, partendo la restante verso l’Asia con altre navi. Secondo un articolo di Politico del 6 maggio 2024 questo ruolo dell’Europa (in particolare la Spagna) nel transhipping di gas russo verso l’Est è cruciale per la Russia perché l’alternativa sarebbe usare gasiere rompighiaccio sulle rotte artiche, navi di cui per ora non ci sarebbe sufficiente disponibilità. Per interrompere questo ruolo dell’Europa hub del GNL russo, scrive sempre Politico, l’UE sarebbe in procinto di introdurre finalmente sanzioni sulla riesportazione ma non sul consumo europeo di gas liquefatto.

Riuscirà questo a ridurre il valore delle esportazioni energetiche russe complessive? Per ora, come abbiamo visto in precedenti puntate, le sanzioni in forma di price cap al petrolio russo hanno funzionato solo parzialmente, anche perché da Paesi che non le applicano, tra cui India, Cina e Singapore, l’Europa compra prodotti petroliferi raffinati quindi di nuovo usufruendo, seppure indirettamente, di energia russa.

Come altre volte ho notato in questa rubrica, mi sembra triste che l’Europa non usi tutte le possibilità di limitare il finanziamento all’invasione dell’Ucraina tramite acquisti di energia. Vedremo se almeno verrà deciso di evitare il mero transito di gas liquefatto. 

Link