Con Giovanni Mitrotta
Per il fondo monetario
internazionale, i sussidi al consumo di fonti fossili d’energia, intesi come il
gap tra il prezzo effettivamente pagato e il prezzo efficiente (cioè quello di
mercato corretto con le esternalità ambientali) valgono nel mondo il 6,5% del
prodotto interno lordo. Un valore impressionante. Molti Paesi, compresa
l’Italia nell’ambito di un programma G20 di disintossicazione da questi
sussidi, si sono impegnati a ridurli, e alcuni anche grandi, come il Messico,
lo hanno fatto davvero. È d’attualità il caso dell’Iran, il cui regime sta
duramente contrastando proteste contro l’aumento del prezzo dei carburanti per
autotrazione.
Autobotte petrolifera iraniana prima della nazionalizzazione (Immagine da Pinterest) |
La storia del petrolio
iraniano inizia nel 1909 con la fondazione della Anglo-Persian Oil Company, che
aveva il governo inglese come azionista di maggioranza, e cui l’Iran aveva dato
una concessione di 60 anni su buona parte dei giacimenti del Paese in cambio
una royalty del 16%, poi elevata nel 1933 sotto il regime di Rezha Shah
Palhavi, fautore di una prima modernizzazione e laicizzazione del Paese. Questi
lasciò il potere al figlio dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando il Paese
venne occupato dagli alleati proprio per controllare i pozzi petroliferi.
La reazione nazionalista
fu violenta con l’uccisione nel 1951 del Primo Ministro Ali Razmara,
filo-occidentale e contrario alla nazionalizzazione del settore petrolifero che
il parlamento invece successivamente approvò, almeno in una versione parziale
che comunque non fu accettata dai soci inglesi, che reagirono prima con un
embargo e poi appoggiarono un colpo di Stato che si risolse con il ritorno del
re.
Da allora l’azienda
petrolifera di Stato ha attribuito ad aziende occidentali concessioni di
coltivazione petrolifera, finché con la rivoluzione khomeneista del 1979 iniziò
un nuovo periodo di petrolio di Stato. Gli iraniani, scrive l’Economist nel
numero di fine novembre 2019, sembrano considerare un diritto innato quello di
avere la benzina quasi regalata, diritto considerato intrinseco anche alla
politica di Khomenei.
Inutile dire che i
carburanti sussidiati hanno creato un mercato nero di contrabbando all’estero,
in modo simile a come perfino dalle nostre parti si scambiano in nero prodotti
per lucrare sulla diversa tassazione tra Paesi.
La strana associazione
tra prezzi dei carburanti e welfare, in generale, è una questione su cui
riflettere, e sembra legare proteste in Paesi in via di sviluppo con quelle degli
strati popolari di stati avanzati (i gilet jaunes in Francia, per esempio, che
in Italia non vediamo probabilmente solo perché nessun Governo, men che meno
quello attuale che pure l’aveva annunciato, ha il nerbo per intervenire sulle
imposte ambientali).
Mi sembra che si possa
identificare una sorta di proletariato extraurbano perlopiù non giovane, visto
che i giovani l’auto privata spesso non l’hanno proprio, composto di fasce
sociali rimaste indietro rispetto all’urbanizzazione e alla digitalizzazione
dell’economia, che si sente più che altri stati sociali colpito dall’aumento
dei prezzi dei carburanti. Naturalmente questa mia affermazione è avventata e richiede
più analisi, che proverò se ne avrò gli elementi a portare avanti in altre
puntate. Intanto ringrazio per questa il coautore Giovanni Mitrotta.
Link:
- Puntate di Derrick sui sussidi dannosi all'ambiente: http://derrickenergia.blogspot.com/search?q=sussidi+dannosi
- Chi sono i collaboratori esterni di Derrick:
http://derrickenergia.blogspot.com/p/collaboratori-esterni.html
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