martedì 23 aprile 2024

Viaggio a Fez e Rabat (Puntata 619 in onda il 23/4/24)

Una vista della medina di Fez
Tra il 19 e il 24 aprile 2024 mi sono trovato in Marocco per un impegno di lavoro e ci ho aggiunto un paio di giorni liberi per esplorare Fez e Rabat spostandomi dall'una all'altra città in treno.

Qui video e immagini.

martedì 16 aprile 2024

L'ottimismo dell'elettricità (Puntata 618 in onda il 16/4/24)

Sono stato invitato a partecipare il 13 aprile 2024 a “Un’Europa senza Euro 6”, uno dei convegni organizzati da Asimmetrie, l’associazione culturale promossa dall’economista e parlamentare Alberto Bagnai. Ho partecipato a un panel con Gianluca Alimonti, professore di energetica alla facoltà di fisica della Statale di Milano. Titolo del panel: “L’ottimismo dell’elettricità, il pessimismo della combustione”, in cui si è parlato di aspetti che tipicamente vengono dibattuti quando si affrontano questioni legate alla transizione dei sistemi energetici verso tecnologie compatibili con le politiche di mitigazione dei cambiamenti climatici.

Il mio ruolo nel dibattito era quello dell’ottimista, nel senso di propugnatore dell’elettrificazione dei consumi energetici e della produzione elettrica da fonti rinnovabili. Link per ascoltare qui sotto.


Link

sabato 6 aprile 2024

I bonus in natura con sconti fiscali (Puntata 617 in onda il 9/4/24)

Santo Antonio da serra (Madeira, Portogallo)

Una cosa che sembra piacere ad aziende, sindacati e incomprensibilmente perfino ad alcuni dipendenti sono le forme di retribuzione in natura con vantaggi fiscali.

Un esempio comune, almeno da quando io ho esperienza del mondo del lavoro dipendente, sono i buoni-pasto come alternativa alla mensa aziendale. Recentemente però la cosa si sta allargando in modo un po’ incontrollato. Governi di tutti gli schieramenti hanno introdotto negli ultimi anni sconti fiscali sui premi in natura ai dipendenti.

Per chi ha la fortuna di non averlo ancora provato, ecco come funziona il meccanismo.

L’azienda ti dà tot euro di premio che rientra nelle casistiche della retribuzione in natura con vantaggio fiscale. Essendo questa corresponsione, appunto, in natura, non si può trattare di soldi. Tu dipendente però vorresti essere libero di fare con questa piccola retribuzione aggiuntiva quello che vuoi. L’azienda lo capisce, lei stessa del resto ha solo l’obiettivo di sfruttare un’opportunità per darti un po’ di remunerazione a minor impatto fiscale e non ha alcun interesse a comprare dei prodotti al tuo posto. Quindi si trova a dover fare un accordo con intermediari che generano per te dei voucher spendibili in acquisti, in modo che sia comunque rispettato il fatto che il premio sia formalmente in natura.

L’intermediario metterà in piedi un suo sistema di convenzioni per far sì che i suoi voucher (generalmente elettronici) siano accettati da alcune catene di negozi e tu dovrai smanettare ore nel sito dell’intermediario per farti generare i buoni spesa per i negozi che preferisci tra quelli disponibili.

La scelta sarà limitata, perché l’intermediario tipicamente farà convenzioni solo con alcune (di solito le principali) catene commerciali (nel caso che ho sperimentato io, l’unico circuito generalista per acquisti online proposto è Amazon, per il resto ci sono catene specializzate su singoli comparti oppure i principali supermercati per la spesa alimentare).

Qual è dunque il risultato finale di tutto l’ambaradan?

  1. Il vantaggio fiscale in parte se ne va all’intermediario.
  2. Il dipendente deve perdere un sacco di tempo nella generazione, conservazione e uso dei voucher, decisamente meno flessibili rispetto al denaro perché usabili solo presso un esercente, con importo prestabilito ed entro una scadenza.
  3. Avendo i voucher appunto un valore predefinito, per definizione richiederanno di aggiungere soldi o di acquistare qualcosa di non davvero necessario pur di usarli interamente prima della scadenza.
  4. Non c’è nessuna possibilità di acquistare presso circuiti indipendenti.
  5. Siamo obbligati a spendere, e anche in fretta, il bonus che ha originato i voucher, anziché risparmiarlo o investirlo.

Quest’ultimo punto forse nella mente del legislatore è l’elemento virtuoso: io ti do dei soldi con sconto fiscale ma tu sei tenuto a spenderli subito muovendo l’economia.

Ma non è verosimile invece che userò i voucher, pur con le limitazioni di cui sopra, per comprare quel che avrei comprato comunque anche se magari non dagli stessi fornitori e a un prezzo meno conveniente?

In ogni caso, un Governo che voglia ridurre la pressione fiscale sui redditi a mio avviso dovrebbe agire su aliquote o scaglioni IRPEF anziché foraggiare i produttori di voucher e complicare la vita dei dipendenti rispetto a quanto avverrebbe con un premio in denaro con lo stesso vantaggio fiscale.


lunedì 25 marzo 2024

Transito di gas russo in Ucraina (Puntata 616 in onda il 26/3/24)

Gasdotti ucraini (da ICIS)
Nel 2023 l’Italia ha importato un decimo del gas russo via tubo di quanto facesse fino al 2021. Siamo a
meno di 3 miliardi di metri cubi all’anno rispetto ai circa 30 di partenza. Sono come sappiamo anche calati molto i consumi in Italia ed Europa (il continente li ha ridotti di circa un terzo in due anni, un numero stratosferico di cui sarà interessante vedere qual è la quota strutturale).

Molto più gas arriva via nave in porti anche appena costruiti, altro dal gasdotto TAP concluso giusto in tempo per la crisi, ma il corridoio del gas russo che transita in Ucraina è ancora commercialmente aperto e regolato da un accordo tra società dei due paesi in scadenza alla fine del 2024.

La Commissione e il Consiglio Europeo si sono già espressi nel senso di un non rinnovo dell’accordo, che impedirebbe almeno in prima istanza ai venditori russi di arrivare con il proprio gas nei Paesi dell’Unione Europea.

Un interessante e dettagliato articolo di Aura Sabadus di ICIS del 18 marzo elenca alcuni degli effetti che avrebbe il non rinnovo dell’accordo di passaggio.

L’Ucraina perderebbe introiti per quasi lo 0,5% del suo prodotto interno lordo dall’accordo, ma non è detto che non possa recuperarli se alcuni paesi UE vorranno ancora importare del gas via tubo dalla Russia, che non è al momento stato oggetto di un embargo. L’operatore della rete del gas ucraina potrebbe infatti vendere agli importatori, anziché al fornitore russo, il servizio di trasporto sul proprio territorio, il che significherebbe il venir meno del rapporto commerciale tra aziende dei due paesi in conflitto.

Ma cosa sarebbe delle forniture all’Ucraina stessa? Potrebbe il suo sistema di gasdotti funzionare in direzione opposta a quella attuale, importando gas dai giacimenti o dai porti del mare del Nord o addirittura da paesi mediterranei aspiranti esportatori come Italia, Spagna e Grecia? (Dell’affollamento degli aspiranti esportatori abbiamo già parlato e visto quanto esso riduca la credibilità del successo dei singoli contendenti, perdipiù in un contesto di consumi calati così tanto in modo generalizzato).

La risposta che dà la giornalista è sì: la rete ucraina del gas è stata originariamente concepita proprio per portare il gas da occidente quando evidentemente la produzione o il trasporto dalla Siberia non si erano ancora sviluppati o non sufficientemente.

Dunque tutto bene per la sicurezza di fornitura? Si direbbe di sì, anche troppo: essendo i transiti dalla Russia già scesi così tanto senza razionamenti e con prezzi normalizzatisi e con l’arrivo di ulteriori siti europei di attracco di navi metaniere che complessivamente secondo la IEEFA avranno una capacità superiore a tutti i consumi continentali – anche quelli importati via tubo - già prima del ’29.

Ma non tutti gli importatori potrebbero essere disponibili a perdere il valore d’opzione dell’import russo. Per esempio non la Slovacchia, che secondo Sabadus ha contratti ancora con molti anni davanti in cui si è impegnata a pagare determinate quantità di gas anche se non dovessero essere consumate. In situazioni del genere, verosimilmente sarebbero arbitrati internazionali a stabilire se la mancata possibilità di trasferire il gas, esito di una decisione anche europea, sia o meno considerabile un motivo valido di forza maggiore per non pagare quanto pattuito da parte dell’importatore.

Insomma: non abbiamo avuto il coraggio di chiudere i rubinetti russi quando ancora ne dipendevamo molto. Lo faremo almeno ora che ci siamo emancipati? Basterà per farlo il non rinnovo dell’accordo di transito – se confermato – o invece gli importatori vorranno e potranno tenere il corridoio aperto?

lunedì 18 marzo 2024

Prezzo elettrico basso in Spagna (Puntata 615 in onda il 19/3/24)

Da: El Periodico de la Energia
Il prezzo all’ingrosso dell’elettricità in Spagna nella prima decade di marzo [2024] è stato clamorosamente basso, medie di pochi euro e lunghi intervalli di ore a prezzo nullo.

Come è possibile che un bene sia scambiato a prezzo nullo?

È il risultato razionale della concorrenza su un prodotto come l’elettricità, stoccabile solo limitatamente e che quindi ha la caratteristica di un bene istantaneo: se in un determinato momento la domanda è più bassa della produzione di quello stesso momento di centrali alimentate a sole o vento, la concorrenza porterà il prezzo a zero perché zero è quanto pagano impianti solari ed eolici per il sole e il vento. (Naturalmente hanno altri costi - per esempio le rate del mutuo per la costruzione, la manutenzione - ma si tratta di costi fissi indipendenti dall’effettiva quantità prodotta).

In altri termini, se fermo una pala eolica o non cedo alla rete la produzione di un impianto solare non risparmio alcunché nel breve periodo. Nessuno di questi impianti quindi si sottrae a offrire energia sul mercato quando i prezzi sono bassi, con la conseguenza generale che il prezzo di mercato si annulla.

E cosa succede quando i prezzi sono nulli o molto bassi agli impianti convenzionali che devono invece pagare combustibile per trasformarlo in elettricità? Succede che si fermano perché il prezzo di mercato non ripaga almeno il combustibile. Questo in Spagna a inizio marzo [2024] è valso anche per due delle centrali nucleari del Paese, che si sono spente per non vendere a un prezzo più basso dei propri costi variabili.

Lo ha raccontato Ramon Roca in un articolo in El Periodico de la Energia linkato sotto.

Come abbiamo visto già qui e come è descritto in un approfondimento in questo blog (altro link soto), spegnere impianti nucleari che hanno costi fissi enormi è un disastro economico, perché allunga i tempi del rientro in un investimento molto elevato e quindi può affossarne l’economicità. D’altra parte, se le rinnovabili servono l’intera domanda non ha senso usare combustibile nucleare (che costa) e non usare sole e vento che non costano nulla. (Che non vuol dire, ovviamente e come ho già detto poco fa, che non costi nulla un impianto fotovoltaico o eolico).

Abbiamo citato più volte la Spagna qui ultimamente perché sta sperimentando quel che potrebbe succedere da noi:

  • Tubi e porti del gas sottoutilizzati in attesa che tornino utili esportando più gas ad altri paesi di un’Europa che però ne consuma sempre meno
  • Prezzi del mercato a pronti dell’elettricità abbattuti dalla concorrenza delle rinnovabili
  • Problemi di coesistenza tra rinnovabili e nucleare.

Link

domenica 10 marzo 2024

Progetti complessi (Puntata 614 del 12/3/24 e in replica il 2/4/24)

Andrea Cavalleroni di Cittadini Sostenibili mi ha parlato di un libro che ho trovato molto interessante, ed è stato così gentile di farlo anche per Derrick:

Il libro è “How big things get done” di Bent Flyvbjerg, che potremmo tradurre liberamente in italiano in “Come portare a termine con successo un mega-progetto”.

Flyvbjerg, professore a Oxford, è stato il primo al mondo a creare un database di tutti i grandi progetti costati più di un miliardo di dollari per analizzarne i costi e i tempi di costruzione. Negli anni, Flyvbjerg e il suo team di ricerca hanno raccolto i dati di oltre 16.000 progetti costruiti in oltre 136 paesi.

Dall’Empire State Building alla Sydney Opera House, passando per lo studio di registrazione commissionato da Jimi Hendrix e una normale ristrutturazione di una cucina domestica, il libro racconta vari casi-studio anche di piccoli progetti per raccontare con storie reali i fattori che portano a un progetto di successo. Il risultato più sorprendente è che solo un mega-progetto su 200 (quindi lo 0,5%) rispetta i costi, i tempi e i benefici promessi a priori.

Dopo decenni di ricerca e consulenze su tali progetti, l’autore ci porta alcuni messaggi chiave:

  • È importante avere chiari tutti i dettagli chiave del progetto finale prima di partire con i lavori per evitare al minimo gli imprevisti (quindi pianificare prima per evitare modifiche durante la costruzione)
  • Se possibile bisogna chiamare una squadra che abbia già esperienza in quel campo
  • Bisogna creare il budget sulla base di progetti analoghi e non solamente sulle stime dei costi di costruzione (perché questi non riescono a prevedere gli imprevisti più diffusi)
  • Modularità

Mi soffermo sull’ultimo punto. I mega-progetti che sforano di meno il budget previsto sono i progetti modulari (l’autore usa l’analogia con i mattoncini Lego), che quindi si possono ingrandire e scalare a piacimento.

Infatti il podio dei progetti che sforano meno il budget per via della loro modularità e scalabilità è composto da:

  • Impianti per produzione di energia solare (1% di sforamento medio)
  • Infrastrutture per la trasmissione dell'energia (8%)
  • Impianti di produzione di energia eolica (13% di sforamento medio del budget)

Invece le tre categorie che più sforano i budget perché non modulari, ma grandi progetti unici nel loro genere sono:

  • Stoccaggio di scorie nucleari (238% di sforamento medio)
  • Infrastrutture per le olimpiadi (157% di sforamento medio)
  • Centrali nucleari (120% di sforamento medio del budget)

Questi i dati più interessanti del libro “How big things get done” di Bent Flyvbjerg, per il momento disponibile solo in inglese, un libro che consiglio a tutte le persone interessate al project management e a quali sono i fattori chiave per un progetto di successo.

Grazie Andrea Cavalleroni. Molto energetici i progetti che ci ha portato ad esempio, e non resisto ad alcuni commenti: se è vero che la posa di impianti fotovoltaici o eolici è relativamente senza sorprese, almeno in Italia non lo è la loro autorizzazione, perlomeno quando parliamo di impianti di grosse dimensioni come è quasi sempre per l’eolico. E lo stesso vale per opere di trasmissione d’energia, se è vero che Terna chiede di farsi approvare cavi sottomarini fuori costa molto più costosi di elettrodotti aerei anche per interconnettere diversi punti del continente, proprio per evitare le lungaggini autorizzative.

Sul nucleare, il libro alza una palla ai cosiddetti SMR, i reattori modulari, che come abbiamo visto in altre puntate (e magari vedremo di nuovo) promettono di risolvere molte delle grane legate alla costruzione in situ dell’impianto. Non, però, altre forse ancora più rilevanti.

Infine, ho deciso di rinnovare la cucina. Vi farò sapere, anzi scriverò a Flyvbjerg, quali imprevisti falcidieranno il progetto.


Link

Questa puntata si può ascoltare anche qui: https://youtu.be/YHtzgfUJAlQ



lunedì 4 marzo 2024

Il prezzo della sicurezza (Puntata 613 in onda il 5/3/24)

La volta scorsa abbiamo visto come la contemporanea costruzione in Europa di nuovi porti e tubi per il gas per emanciparci dalla Russia condurrà molto verosimilmente a un sistema ridondante e i cui costi renderanno artificiosamente più alti quelli dell’energia stessa per i clienti finali, oppure le tasse.

Il caso del gas in Europa non è l’unico in cui a un mondo più frammentato, insicuro e meno globalizzato si risponde con nuove infrastrutture locali. Se qui le infrastrutture aprono comunque a nuovi mercati internazionali o ne ampliano di esistenti, in altri esempi l’approccio è apertamente protezionista. Si pensi alla creazione in occidente di capacità di produzione o raffinazione di terre rare o di batterie per emanciparsi dalla Cina: potrebbe condurre a un eccesso di capacità mondiale nei settori interessati come è già avvenuto molto repentinamente nel caso del litio, il cui prezzo nel 2023 è sceso violentemente a fronte degli investimenti per renderlo disponibile in varie parti del mondo. Sceso fino a livelli non in grado di remunerare alcuni dei nuovi impianti.

Aiutare la capacità produttiva interna a un paese importatore per emanciparsi dalla dipendenza dall’estero costa al consumatore locale se fatta con tariffe protezionistiche, o al contribuente, sempre locale, se fatta con sussidi.

Cosa succede se poi il mondo, per fortuna, torna a essere un luogo aperto ai commerci liberi ed efficienti? Un mondo in cui, per esempio, le sanzioni verso paesi ostili vengano eliminate grazie alla fine delle ostilità.

Cosa succederebbe ai mercati del gas se il regime di Mosca venisse superato da un’evoluzione democratica e la Russia si riavvicinasse all’Occidente? Verosimilmente i flussi di gas dalla Siberia verso l’Europa riprenderebbero, almeno se parliamo di un futuro abbastanza prossimo da vedere ancora l’uso del gas in Europa, ed essendo il gas via tubo generalmente più competitivo di quello via nave sarebbero guai per la remunerazione degl’investimenti in capacità di trasporto marittima, e perfino probabilmente per quelli in campi di coltivazione di gas remoti (come quelli nel mar dei Caraibi o nell’Africa subsahariana) connessi solo via nave e di colpo non più necessari a rifornire l’Eurasia.

Cosa succederà se si normalizzeranno i rapporti tra Cina e Stati Uniti riguardo all’import ed export di terre rare o di prodotti tecnologici? Anche su questi la capacità produttiva negli USA ora sussidiata dall’Inflation Reduction Act potrebbe di colpo rivelarsi sovrabbondante, con gioia almeno temporanea dei clienti che vedrebbero crollare i prezzi e dolori di chi ha investito in capacità produttiva autarchica, compresi i contribuenti. 

martedì 27 febbraio 2024

Quanti "hub del gas" in Europa? (Puntata 612 in onda il 27/2/24)

Casa a Carpinone
I lettori assidui sanno che cito spesso l’Economist, ma stavolta l’articolo che mi ispira è da El Economista e parla dell’aspirazione di un paese a diventare “hub” del gas, cioè luogo di transito del gas in arrivo via nave nei suoi porti e poi esportato nell’Europa centrale.

Alvaro Moreno di El Economista ne parla anche a partire da uno studio di IEEFA (istituto di economia e analisi finanziaria dell’energia) che nota come a fronte di consumi europei di gas in calo è inverosimile che le nuove infrastrutture possano essere usate in futuro più di quanto si faccia adesso. E il livello di loro utilizzo è oggi nel paese solo di un terzo della capacità.

Quando il gas è arrivato a oltre 300 €/MWh nella prima estate dopo l’invasione dell’Ucraina, a molti sembrava che pagare qualunque cifra per poterlo importare da luoghi alternativi alla Russia fosse l’unica strada possibile. In parte era giustificato, ma alcuni paesi europei si sono un po’ fatti prendere la mano con la costruzione contemporanea di nuovi porti del gas proprio mentre i clienti reagivano ai prezzi alti consumando meno, e attrezzandosi a farlo in parte strutturalmente grazie a investimenti in efficienza e fonti rinnovabili.

E così, il paese di cui parla El Economista non può che aspirare a ripagare le infrastrutture del gas esportandolo ad altri.

Di che paese parliamo? Come suggerisce la lingua della testata, della Spagna. Ma la situazione è del tutto simile a quella italiana. Anche l’Italia sta approntando due nuovi punti di approdo per navi gasiere e si accinge a costruire una rete sud-nord di metanodotti capiente come mai in passato. E lo fa mentre il suo fabbisogno di gas è il più basso da quando ne esiste un mercato moderno. Per trovare consumi ridotti come nel 2023 occorre risalire al 1997, mentre il massimo dei volumi è stato toccato nel 2005.

Naturalmente l’infrastruttura non si dimensiona sui flussi annuali, bensì sulle esigenze di punta, così come un’autostrada non può andare sistematicamente in crisi con i flussi dei weekend. Ma anche tenendo in conto questo la contraddizione è evidente: oggi abbiamo più stoccaggi nazionali di gas che servono proprio a fornire capacità di punta, due nuovi porti al nord ben posizionati per sopperire alla fine (definitiva?) del flusso russo, eppure stiamo anche per rafforzare la dorsale sud-nord dei gasdotti.

Uno studio curato da Francesca Andreolli e Gabriele Cassetti di ECCO, organizzazione con cui collaboro, evidenzia come gli investimenti in nuove infrastrutture gas siano sensati solo nell’ipotesi di consumi che tornino a salire e di sostanziale indifferenza agli obiettivi climatici. Per quanto sia uno scenario improbabile e non augurabile, è quello su cui si stanno scommettendo soldi sostanzialmente pubblici, cioè da ripagare con gli oneri obbligatori delle bollette o con le tasse.

Link

domenica 18 febbraio 2024

Il punto sull'energia nucleare (Puntata 611 in onda il 20/2/24)

La piazza di Fidenza
È molto ingenuo pensare che il nucleare termoelettrico in Italia non sia stato più preso in considerazione solo a causa dei referendum dell’87 e del 2011.

Da un lato, purtroppo il sistema normativo italiano è costellato di referendum abrogativi poi superati da leggi successive, dall’altro le leggi sono – ed è naturale che siano – una risposta ai contesti culturali, economici, tecnologici. E infatti, quando gli investitori lo vogliono, le condizioni sembrano esserci e i lobbisti si mettono legittimamente al lavoro, le leggi per accompagnare le opportunità industriali si fanno eccome.

In effetti prima dell’incidente di Fukushima un revival del nucleare in Italia si stava preparando. Una legge predisponeva la costituzione di un’agenzia apposita e l’Autorità per l’Energia arrivò a mettere in consultazione un meccanismo di fissazione del prezzo di lungo periodo non molto diverso da quello che con polemiche è stato discusso recentemente in Europa su spinta della Francia. Enel entrò anche nel capitale di uno dei disastri finanziari del nucleare recente europeo: un nuovo reattore (in costruzione dal 2007) a Flamanville, nella Francia del nord, ma la quota di Enel (per nostra fortuna di suoi azionisti tramite la partecipazione pubblica) fu liquidata dopo il secondo referendum in Italia.

I costi e tempi insostenibili di progetti come Flamanville e gli altri 2 allora in costruzione in Europa sono probabilmente la ragione principale del calo di investimenti in nucleare in Europa e in altre regioni. Globalmente dagli anni Novanta si sono chiusi più impianti di quelli aperti, ma negli ultimi anni una ripresa dei progetti e della costruzione c’è, soprattutto in Cina dove la grande capacità di produzione a carbone giustifica un aumento del nucleare ai fini della politica climatica.

Invece il nucleare è inadatto a convivere con sistemi che abbiano già sviluppato molto le fonti rinnovabili, perché per motivi tecnici ed economici produce in modo costante e non modulabile. Non può, se non con batterie esterne, aumentare o ridurre la potenza sulla base del bisogno momentaneo. E quindi quando ci sono sole e vento la compresenza di nucleare e molta produzione da rinnovabili implica buttare l’energia in più, o stoccarla (aggiungendo i relativi costi), o spedirla altrove, di nuovo aggiungendo costi a quelli già proibitivi della produzione nucleare in sé, e senza nemmeno contare quelli di smaltimento delle scorie e degli impianti a fine vita, questioni mai risolte in modo definitivo in nessun luogo del mondo.

Questo cambierà a breve con nuove tecnologie?

Se per nuove tecnologie intendiamo gli small modular reactor (SMR), cioè versioni miniaturizzate e modulari di reattori convenzionali a fissione, non c’è per ora evidenza né di minori costi complessivi né di alcuna innovazione tecnologica drastica rispetto ai principi di funzionamento delle macchine attualmente disponibili. In ogni caso dovremo aspettare perché al mondo non ci sono ancora SMR commerciali in funzione e, delle tre principali aziende che li hanno annunciati, una, l’americana NuScale, ha recentemente ridimensionato i suoi programmi.

Se per nuove tecnologie intendiamo invece fusione nucleare, allora la questione-chiave è il tempo. Una vecchia battuta dice che la fusione è quella cosa che da cinquant’anni arriva tra trent’anni. Se anche siamo ottimisti (ed è giusto e ragionevole esserlo), i reattori a fusione potrebbero sostituire la generazione successiva di rinnovabili rispetto a quella che installiamo oggi. Non proprio un’opzione per domattina.

Link

martedì 13 febbraio 2024

Il monopolio delle reti dati (Puntata 610 in onda il 13/2/24)

"Musico" di F. Botero
Quanta energia consumano i sistemi di trasmissione, elaborazione e stoccaggio dei dati?

Quando partì la stagione delle criptovalute e degli elaboratori in azione per decrittarne le transazioni, molti osservatori notarono quanto l’apparato fosse costoso in termini economici ed ecologici per l’energia consumata.

In realtà la macchina mondiale dei dati e delle telecomunicazioni consuma non più dell’1,5% dell’elettricità secondo la IEA di Parigi ed emette circa l’1% dei gas-serra. Se paragoniamo quest’ultimo numero al circa 15% dei trasporti, ci rendiamo conto di quanto spostare i bit anziché le persone o le cose sia probabilmente un buon affare in termini di efficienza e uso delle risorse.

Questioni energetiche a parte, è in termini di governance probabilmente che il settore dei media legati a internet ci dà più grattacapi. È diventato per esempio comune lamentarsi del modo in cui noi stessi, se le usiamo, siamo costretti a regalare a piattaforme come Google o Facebook il diritto di sfruttamento economico di un sacco di opere del nostro ingegno oltre che informazioni dettagliate sulla nostra vita. Per usare termini più vicini al linguaggio dell’antitrust, ci rendiamo conto che il grande successo di queste piattaforme le ha anche rese monopoliste di fatto e che questo legame è autoalimentante, visto che i servizi che offrono funzionano bene proprio in quanto aggregano molti utilizzatori e informazioni.

Forse più raramente pensiamo a un’altra forma di monopolio di fatto che pure è più tradizionalmente basata sulle infrastrutture fisiche, e riguarda le reti internet anche satellitari.

Torniamo all’energia: le prime reti elettriche cittadine furono realizzate privatamente dalle stesse aziende che intendevano poi vendere l’energia che ci sarebbe passata. Solo più tardi molti Governi decisero di nazionalizzare quelle aziende e quindi evitare che la concorrenza dovesse passare per la costruzione inefficiente di reti parallele e, nello stesso tempo, evitare che le reti esistenti potessero discriminare l’accesso ai loro servizi per motivi arbitrari. Ancora più tardi, nelle economie di mercato le aziende già nazionalizzate sono state rivendute e riorganizzate in modo che solo le reti dovessero operare con concessioni pubbliche come monopolisti regolati, mentre altre attività del settore potevano essere affidate alla concorrenza.

Bene, mi sembra che oggi nelle dorsali e nei satelliti per internet (in questi il più grande operatore privato è Starlink di Elon Musk), siamo nella fase che l’energia attraversò prima della nazionalizzazione, e cioè la fase della costruzione di infrastrutture con logica privata spontanea. Che se da un lato mostra quanto spesso gli imprenditori sappiano guardare più lontano dei governi (o siano maggiormente nelle condizioni di fare scelte lungimiranti), dall’altro rende i governi responsabili di intervenire a un certo punto se il comportamento monopolistico e discriminatorio delle nuove entità (anche solo in potenza) diventa socialmente dannoso.
Interventi questi complicati dal fatto che si tratta di servizi e infrastrutture di rilevanza globale. Il che rende ineludibile la cooperazione globale.

martedì 6 febbraio 2024

Il dumping ambientale (Puntata 609 in onda il 6/2/24)

In kayak sul lago di Idro
Un luogo comune sbagliato è che la Cina sia un inquinatore indifferente alle politiche globali del clima, mentre è il Paese dei grandi numeri anche sulle nuove fonti rinnovabili e sul nucleare per generare elettricità senza danno al clima, ma anche sull’elettrificazione dei consumi energetici.

Di recente infatti il produttore cinese di veicoli elettrici BYD ha superato Tesla per numero di veicoli prodotti in un anno, e da tempo, mi dice chi frequenta la Cina, nelle grandi metropoli del dragone gli scooter sono elettrici mentre da noi sospetto che si possano ancora immatricolare i motorini a combustione a due tempi, quelli che bruciano olio insieme al carburante lasciando scie bluastre di idrocarburi incombusti.

La Cina è diventata economicamente più simile all’occidente anche da altri punti di vista: più ricca, con crescita ormai ridotta, pochi figli e debito in aumento, e con un costo del lavoro non più basso come un tempo. Nel frattempo, i problemi geopolitici con Taiwan e gli Stati Uniti rendono incerte le prospettive.

Ne sta beneficiando il vicino Vietnam, che secondo un articolo dell’Economist (link sotto) si avvantaggia proprio della sua equidistanza nei rapporti tra Cina e USA oltre che di costo del lavoro più basso e di un sistema di servizi e infrastrutture accettabile.

C’è un settore però in cui il Vietnam è arretrato: quello della produzione di elettricità, con centrali vecchie e una penetrazione minima di fonti rinnovabili dovuta anche – sempre secondo l’Economist – alla pressoché nulla possibilità di competere con l’operatore ex (o forse tuttora) monopolista di Stato. Questo implica che tra i vantaggi di costo nello spostare produzioni energivore in Vietnam c’è quello dei mancati costi di investimento in energie pulite, un classico caso di dumping ambientale.

Come se ne proteggono i mercati che invece hanno introdotto al loro interno meccanismi di disincentivo al danno climatico o all’inquinamento, come l’Europa con il suo meccanismo di permessi limitati e in molti casi onerosi alle emissioni-serra?

Nel caso dell’Europa un sistema ora in fase di pre-rodaggio è il cosiddetto “CBAM”, che sta in inglese per sistema di aggiustamento di frontiera in base al danno climatico. Questo prevederà a regime che i beni, almeno quelli più rilevanti in termini di danno, importati in Europa da paesi senza simili sistemi di disincentivo dovranno pagare alla frontiera la differenza rispetto alla carbon tax europea (uso questo termine impropriamente a vantaggio della comprensibilità).

Un meccanismo complicato, quello del CBAM, se non altro perché richiede collaborazione o intelligence proprio coi Paesi che lo subiscono, ma virtuoso e interessante, perché da un lato riduce gli spazi di dumping ambientale, dall’altro introduce l’interesse degli esportatori ad attivarsi localmente per una carbon tax o meccanismi simili anziché pagarla all’Europa. Dovrebbe così favorirsi un’emulazione e di fatto un’estensione del sistema di carbon tax europea, che in effetti ha già ispirato aree come la California e la stessa Cina.

È evidente che mercati globali correttamente competitivi devono prevedere anche omogeneità nelle regole ambientali. Serve quindi un processo politico che va nella direzione opposta a quella del disimpegno di reazione a un presunto autolesionismo europeo nelle politiche del clima.


Link

domenica 28 gennaio 2024

Occhio ai prezzi (Puntata 608 in onda il 30/1/24)

Una nave attraversa il canale di Panama
(Foto Derrick)
Un’occhiata recente ai prezzi di alcuni prodotti o semilavorati importanti rispetto agli interessi di questa rubrica ci aiuta a fare il punto sulla congiuntura energetica e ambientale.

Partiamo da una delle cosiddette “terre rare”: il litio. Elemento che viene spesso associato alle nuove tecnologie dell’elettrificazione per via del suo utilizzo nel tipo oggi più comune di batterie per veicoli o piccoli apparecchi elettrici. Se chiedete a chi non si occupa di energia probabilmente vi dirà che il litio è scarso e che il suo approvvigionamento è un problema. In realtà le sue quotazioni sono scese notevolmente nel corso del 2023 e sono oggi a livelli abbastanza bassi da aver fatto fermare progetti per nuovi impianti di estrazione e trattamento.

E il gas? Che dopo l’invasione dell’Ucraina sfiorò i 350 €/MWh nell’estate del 2022, un valore quasi 20 volte più alto dei prezzi a cui ci eravamo abituati? E sulle cui infrastrutture stiamo mettendo miliardi di euro di soldi sostanzialmente pubblici per diversificarne gli acquisti? Bene, il gas veleggia mentre scrivo questa puntata sotto i 30 €/MWh malgrado la crisi nel mar Rosso dove passano le metaniere in arrivo dal Golfo. Potrebbe risalire un po’ per il perdurare di tale crisi o se dovesse esserci una coda d’inverno rigida, ma è più che evidente che l’insieme di diversificazione, investimenti in fonti rinnovabili e efficienza ci ha brillantemente affrancato dal paventato rischio di razionamento succeduto all’inizio della guerra.

Interessante a questo proposito la recentissima decisione del presidente USA Biden di sospendere l’autorizzazione a nuovi impianti di liquefazione di gas necessari ad aumentare la capacità di export americana. Decisione legata all’interesse a non far aumentare il prezzo interno in vista delle elezioni, ma sempre poi modificabile se il prezzo europeo o asiatico del gas dovesse tornare abbastanza alto da rendere l’export americano particolarmente remunerativo. In altri termini: un’eventuale nuova scarsità di gas nel nostro continente verrebbe risolta anche con più import dagli USA, che sempre più stanno scippando all’OPEC il ruolo di fissatore internazionale del prezzo di petrolio e gas.

Ma più gas in arrivo non sarebbe una buona notizia per il clima. Ciò che sta davvero diventando scarso, e rischia di restarlo, sono prodotti agricoli come il succo d’arancia e lo zucchero danneggiati da siccità e cambiamenti climatici in molte regioni del mondo, come scrive l’Economist in un articolo di fine gennaio 2024 (link sotto). Siccità che tra le altre cose, come ho accennato nel mio recente reportage (link sotto) da Panama, è responsabile della minore capacità del canale tra golfo del Messico e Pacifico, a proposito di problemi di commercio internazionale.

La morale è che ci sono scarsità che possiamo contrastare con investimenti in nuova capacità produttiva, altre che riguardano beni primari e richiedono politiche del clima rapide ed efficaci.


Link

martedì 16 gennaio 2024

Viaggio a Panama e Colombia (Puntate 602-6 in onda dal 19/12/23 al 16/1/24)

L'immensa Bogotá vista dal cerro del Monserrate

Inizia con questa puntata un ciclo di podcast di un viaggio che mi porterà a Panama, nell'isola colombiana di San Andres nei Caraibi e in lunghe esplorazioni della Colombia continentale.

La Panama city moderna
vista dal quartiere coloniale di Casco Viejo
La puntata di Panama è ascoltabile qui: https://www.radioradicale.it/scheda/716485

Quella sull'isola di San Andres (Colombia) qui: https://www.radioradicale.it/scheda/716962/

Su Medellin e Cali: https://www.radioradicale.it/scheda/717234/derrick

La valle del Cocora vicino a Salento e non lontana dal grande vulcano Nevado del Ruiz, famoso anche per la tragedia di Armero, Popayan, San Augustin: 
https://www.radioradicale.it/scheda/717680/derrick

Il deserto del Tatacoa, Bogotá, la Guajirahttps://www.radioradicale.it/scheda/718163/derrick

Video dei miei viaggi (ordinandoli a partire dai più recenti si trovano quelli relativi a questo) sono qui: https://www.youtube.com/playlist?list=PL8sgPLBStHqWm3UVno9OSzQkKF2rZhRSg

Selfie a Casco Viejo (Panama)
Costa ovest di San Andres al crepuscolo
spazzata dal vento











Il quartiere di Santo Domingo a Medellin












Il decrepito minibus Mercedes si surriscalda
in salita verso San Augustin