martedì 8 aprile 2014

Elogio del fallimento - Parte 3 - D199

Terza puntata sul fallimento economico, anche quello delle amministrazioni pubbliche locali, per esempio un Comune o una Regione.

Secondo affermazioni pubbliche recenti del sindaco di Roma e del governatore del Lazio, il fallimento è una circostanza da evitare a qualunque costo.
Una posizione piuttosto apodittica.

Abbiamo visto due puntate fa che l’istituto giuridico del fallimento serve a interrompere situazioni di insostenibilità e rendere palesi, ma anche delimitate e distribuite con criteri di equità, le insolvenze pregresse. Ho anche argomentato che le interruzioni di servizio a seguito di un fallimento sono verosimilmente di durata breve, perché il fallimento non fa venire meno gli strumenti e le persone che prima del fallimento erano, se lo erano, in grado di fornire servizi. Semplicemente serve che qualcun altro le organizzi economicamente.
Per questo il fallimento, che legittima l’interruzione di contratti, è occasione per liberarsi di parti inutili dell’organizzazione. Se è un’amministrazione pubblica, il fallimento può aiutare a liberarsi di società controllate create a scopo clientelare, o in generale a cedere partecipazioni in società di mercato.
In una recente audizione in Parlamento – riascoltabile su Radio Radicale – il sindaco di Roma Ignazio Marino, che ha certificato un disavanzo annuo del Comune di oltre 800 milioni, ha affermato che si aspetta da Acea, controllata dal Comune, un contributo per lo smaltimento dei rifiuti di Roma.

Ora, mi sembra che una delle due seguenti affermazioni debba essere vera: o Marino si aspetta che Acea faccia attività utili all’azionista di maggioranza anche se non remunerative, e allora agli azionisti di minoranza conviene vendere il titolo, oppure Marino chiede ad Acea di fare cose che un’azienda di mercato che persegue il profitto dovrebbe comunque fare. In quest’ultimo caso, non servirebbe un’Acea posseduta in maggioranza dal Comune.
Un modo leggermente diverso di vedere la questione è questo: se una controllata pubblica che opera su un mercato si ritiene che non farebbe il bene pubblico se venduta, vuol dire che si ritiene insufficiente la regolamentazione di quel settore, o comunque che averlo affidato al mercato nuoccia al bene pubblico. O ancora, vuol dire che si ritiene di percepire, con la partecipazione, vantaggi economici superiori ai meri dividendi, grazie a sinergie tra l’amministrazione comunale e il controllo dell’azienda (ma questo, come dicevo sopra, significa che a farne le spese sono gli altri azionisti). Oppure ancora, si ritiene che la partecipata abbia indipendentemente dalla compagine sociale una redditività superiore a quella del mercato di riferimento, il che giustificherebbe di tenerne le azioni se rendono più del costo del debito per l’amministrazione. Ma trasformerebbe il Comune in un fondo d’investimento.

A meno che non miri semplicemente a mantenere la dimensione della propria area di potere, un sindaco che non vuol vendere una partecipata di mercato non crede nello Stato liberale, cioè nel fatto che la compresenza di regole del gioco stabilite democraticamente e di competizione economica sia vantaggiosa per tutti.

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