Terza puntata sul fallimento economico, anche quello delle
amministrazioni pubbliche locali, per esempio un Comune o una Regione.
Secondo affermazioni
pubbliche recenti del sindaco di Roma e del governatore del Lazio, il
fallimento è una circostanza da evitare a qualunque costo.
Una posizione piuttosto apodittica.
Abbiamo visto due
puntate fa che l’istituto giuridico del fallimento serve a interrompere
situazioni di insostenibilità e rendere palesi, ma anche delimitate e
distribuite con criteri di equità, le insolvenze pregresse. Ho anche
argomentato che le interruzioni di servizio a seguito di un fallimento sono
verosimilmente di durata breve, perché il fallimento non fa venire meno gli
strumenti e le persone che prima del fallimento erano, se lo erano, in grado di
fornire servizi. Semplicemente serve che qualcun altro le organizzi
economicamente.
Per questo il fallimento, che legittima l’interruzione di
contratti, è occasione per liberarsi di parti inutili dell’organizzazione. Se è
un’amministrazione pubblica, il fallimento può aiutare a liberarsi di società
controllate create a scopo clientelare, o in generale a cedere partecipazioni
in società di mercato.
In una recente audizione in Parlamento – riascoltabile
su Radio Radicale – il sindaco di Roma Ignazio Marino, che ha certificato un
disavanzo annuo del Comune di oltre 800 milioni, ha affermato che si aspetta da
Acea, controllata dal Comune, un contributo per lo smaltimento dei rifiuti di
Roma.
Ora, mi sembra che una delle due seguenti affermazioni debba
essere vera: o Marino si aspetta che Acea faccia attività utili all’azionista
di maggioranza anche se non remunerative, e allora agli azionisti di minoranza
conviene vendere il titolo, oppure Marino chiede ad Acea di fare cose che
un’azienda di mercato che persegue il profitto dovrebbe comunque fare. In
quest’ultimo caso, non servirebbe un’Acea posseduta in maggioranza dal Comune.
Un modo leggermente diverso di vedere la questione è questo:
se una controllata pubblica che opera su un mercato si ritiene che non farebbe
il bene pubblico se venduta, vuol dire che si ritiene insufficiente la
regolamentazione di quel settore, o comunque che averlo affidato al mercato
nuoccia al bene pubblico. O ancora, vuol dire che si ritiene di percepire, con
la partecipazione, vantaggi economici superiori ai meri dividendi, grazie a sinergie
tra l’amministrazione comunale e il controllo dell’azienda (ma questo, come
dicevo sopra, significa che a farne le spese sono gli altri azionisti). Oppure ancora,
si ritiene che la partecipata abbia indipendentemente dalla compagine sociale
una redditività superiore a quella del mercato di riferimento, il che
giustificherebbe di tenerne le azioni se rendono più del costo del debito per
l’amministrazione. Ma trasformerebbe il Comune in un fondo d’investimento.
A meno che non miri semplicemente a mantenere la dimensione
della propria area di potere, un sindaco che non vuol vendere una partecipata di
mercato non crede nello Stato liberale, cioè nel fatto che la compresenza di
regole del gioco stabilite democraticamente e di competizione economica sia
vantaggiosa per tutti.
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