martedì 29 aprile 2025

Resistenza (Puntata 669 in onda il 29/4/25)

Questa puntata si può ascoltare qui.

Scrivo questa puntata il 25 aprile, ogni tanto disturbato dagli elicotteri di ronda per la protezione della città durante la convergenza dei VIP per i funerali del Papa. E di resistenza, anche se non quella con la “r” maiuscola che festeggiamo oggi, voglio parlare partendo dallo scontro tra gli atenei statunitensi e il Governo locale che ora subordina i fondi pubblici a forme di rinuncia alla libertà di ricerca o di espressione.

L’Economist in uno degli articoli in materia ha spiegato perché è molto difficile per gli atenei riorganizzarsi per sopperire di colpo alla mancanza di fondi pubblici anche quando questi non costituiscono la maggioranza degli introiti. Non ho motivo di dubitarne. Ma non penso che un direttore d’ateneo per questo dovrebbe rinunciare a difendere la libertà accademica. Così come penso che un dirigente d’azienda abbia la responsabilità di non assecondare una decisione dell’amministratore delegato che ritenga dannosa per l’azienda stessa o incompatibile con le sue regole, a costo di dimettersi (esito che ho visto molto di rado nelle organizzazioni in cui ho lavorato). E così un ministro rispetto al primo ministro, un funzionario, pubblico e non, rispetto alla sua direttrice, e giù fino a coprire qualunque ruolo.

Molti definiscono Trump un bullo, che rende in effetti l’idea di qualcuno che usa tutte, e forse più, le proprie prerogative per obiettivi non solo apparentemente irrazionali, erratici, ma talvolta anche persecutori. Come dovremmo definire un civil servant che asseconda Trump nell’ambito dei propri poteri solo per non rischiare il posto? Osservante? Leale? O invece, al contrario, inosservante del proprio ruolo.

Quel che sto cercando di dire è che forse l’anticorpo ai potenti bulli, perlomeno in un contesto di pace, sono i cittadini disposti a loro volta a usare tutte, e anche più, le proprie prerogative. Non limitandosi alle urne, perché non bastano le urne a conservare né la libertà né uno stato di diritto, lo vediamo in molti casi.

Nessun dittatore potrebbe andare avanti in caso di ammutinamento collettivo. Ma un ammutinamento non avviene se nessuno lo inizia rischiando la propria incolumità professionale o altro. E se non nasce questa resistenza, potrebbe nascere una dittatura.

Ora, aldilà dei miei afflati, la questione degli atenei statunitensi merita un minimo di approfondimento e sono contento di avere ai microfoni di Derrick Mario Macis, economista professore alla Johns Hopkins University di Washington che del tema ha scritto il 17 aprile su La Nuova Sardegna. Sentiamolo qui.

Grazie a Mario Macis che potete leggere anche nelle pagine de Lavoce.info e di ECO, il mensile di economia di Tito Boeri.

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domenica 20 aprile 2025

Rigidità del nucleare francese (Puntata 668 in onda il 22/4/25)

Illustrazione di Copilot
Questa puntata si può ascoltare qui.

Sylvain Rommel è il direttore commerciale di RTE, il gestore della rete di trasmissione elettrica francese.

L’11 aprile 2025 ha scritto una lettera piuttosto cerimoniosa e tuttavia urgente in cui chiede agli operatori che forniscono servizi di bilanciamento di anticipare le loro previsioni in modo da aver più margini per gestire in sicurezza la rete elettrica francese in un contesto di eccesso di produzione.

Ne hanno parlato Ugo Petruzzi su Révolution énergétique e anche Staffetta Quotidiana in un articolo non firmato che ha anche pubblicato la lettera di Rommel.

Ma com’è questa storia che l’eccesso di produzione è un problema? E non si può semplicemente produrre un po’ meno?

Il fatto è che nella generazione elettrica non tutti gli impianti hanno lo stesso livello di programmabilità e di flessibilità.

Le fonti che mostrano negli ultimi anni un boom in buona parte del mondo, in particolare Cina ed Europa, sono il fotovoltaico e l’eolico, molto competitivi ma non programmabili. Siccome hanno costi variabili bassissimi perché non gli serve combustibile, conviene farli funzionare ogni volta che ci sono sole e vento. Il resto del fabbisogno invece deve venire (in misura sempre maggiore man mano che la quota di rinnovabili aumenta) da impianti flessibili che possano modulare la produzione per essere complementari alle rinnovabili. In altri termini: quando ho energia senza costi la uso, e il resto lo faccio con impianti che usano il combustibile. Sempreché questi ultimi possano ridurre la produzione con la prontezza e nelle quantità necessarie.

Se non sono in grado di farlo, occorre ricorrere agli accumuli (per esempio riempire i bacini idroelettrici o caricare batterie) o convincere qualche cliente a consumare di più cedendogli l’energia a un prezzo particolarmente conveniente.

Quest’ultima cosa è successa proprio nei giorni scorsi in una zona dell’Olanda, dove sperimentalmente si è offerta energia gratis ai clienti in modo che i loro maggiori consumi equilibrassero un sistema con molto eolico, fotovoltaico e idroelettrico non programmabile.

Ma la Francia non ha una penetrazione di fonti rinnovabili tale da servire tutta la domanda nemmeno in ore con grande disponibilità di sole e vento, dunque perché semplicemente non riduce la potenza degli altri impianti?

Gli ascoltatori assidui di Derrick la risposta la sanno già: perché il nucleare non è adatto a modulare la sua potenza quanto lo sono invece, per esempio, gli impianti a gas. Così la Francia si trova in difficoltà a bilanciare la rete malgrado la grande capacità di esportazione del sovrappiù produttivo che le interconnessioni europee le permettono.

Più saranno le rinnovabili in Francia e in Europa, più sarà un problema per la Francia gestire la rigidità della produzione nucleare, a meno che non si doti di quantità di stoccaggio in misura proibitiva rispetto ai paesi senza o con poco nucleare, cioè pressoché tutti gli altri.

Dei tanti, il più grosso punto debole delle nuove velleità nucleari italiane è proprio la scarsa capacità di convivenza tra nucleare e rinnovabili non programmabili (l’esatto contrario di quanto ripetono periodicamente anche alcuni ministri), che per essere risolta richiederebbe un ulteriore ricorso agli stoccaggi oltre a quelli già necessari per le rinnovabili, oppure grandi flessibilità da parte di consumatori di elettricità o calore. Cose i cui costi si aggiungerebbero a quelli già proibitivi del nuovo nucleare.

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martedì 15 aprile 2025

Efficientamento e autoproduzione domestica a Torino (Puntata 667 in onda il 15/4/25)

Illustrazione di Copilot



Una puntata con intervista telefonica a Silvia Bodoardo, professoressa torinese, e suo marito Mauro Rajteri su un caso di efficientamento e autoproduzione energetica domestica da fotovoltaico.

Ascoltabile qui.

domenica 6 aprile 2025

Dazi al gas di Trump? (Puntata 666 in onda l'8/4/25)

Illustrazione di Copilot
(che spiega la scritta "tatirri"
come un errore)
 

Questa puntata si può ascoltare qui.

Facciamo il punto sul mercato europeo e italiano del gas naturale approfittando di un eccellente articolo di Bruegel a firma Keliauskaité, Tagliapietra, Zachmann uscito il 2 aprile 2024 il cui link metto qui sotto.

Nel 2024 rispetto all’inizio della guerra l’Europa ha ridotto a 1/3 le importazioni di gas russo, malgrado l’aumento notevole di quelle via nave. Queste ultime peraltro sono le uniche in cui l’UE abbia introdotto un qualche tipo di sanzione, vietando da qualche tempo il transhipping di questo gas, cioè la possibilità di reinstradarlo verso mercati terzi. Questa limitazione riduce le possibilità della russa Gazprom di raggiungere mercati dell’Est non sufficientemente interconnessi da gasdotti in partenza dalla Siberia, e quindi dovrebbe essere un altro colpo ai bilanci già devastati di Gazprom.

Un’altra azione europea è stata all’inizio di quest’anno il non rinnovo dell’accordo di transito di gas russo sui gasdotti ucraini.

Tutto sommato un atteggiamento molto cauto da parte dell’Europa, sebbene (ma col senno di poi è facile dirlo) i numeri mostrino che l’abbondanza di infrastrutture e il calo dei consumi rispetto all’inizio della guerra avrebbero permesso di essere più duri con il gas russo senza aspettare, come di fatto è avvenuto, che fosse Mosca a chiudere perlopiù i rubinetti.

L’introduzione di sanzioni sul gas russo via tubo, tra l‘altro, come scrive Bruegel, aiuterebbe gli importatori europei a terminare unilateralmente contratti d’importazione di lungo termine con meno rischi di penali negli arbitrati che ne gestiscono le controversie.

Ma secondo Bruegel c’è un’alternativa più furba al bandire il gas russo o al limitarne le quantità con quote. E sono i dazi, un tema parecchio di moda recentemente.

I dazi non colpiscono solo l’esportatore, ma anche il consumatore del Paese che li impone, che perde una fonte competitiva di un bene. E il bilanciamento tra i due dipende dalle alternative di chi compra e di chi vende, e dai costi di chi vende. Se un esportatore non ha margini per abbassare il suo prezzo o ha alternative altrettanto remunerative per piazzare la merce, l’importatore del Paese che ha messo i dazi, se vuole ancora consumare quel bene importato, dovrà pagare un prezzo aggravato di gran parte del dazio. Ma se l’esportatore non ha validi mercati alternativi e ha ampi margini sui costi vivi di produzione, allora verosimilmente abbasserà lui il suo prezzo per difendere la quota di mercato. Secondo Bruegel, la Russia è in questa condizione per l’export di gas – soprattutto via tubo – in Europa, e quindi imporre tariffe potrebbe essere un’ottima sanzione, producendo un gettito per l’Europa senza rinunciare subito a gran parte della fornitura e senza aumentarne troppo il prezzo.

La riflessione che aggiungo io è: potremmo fare lo stesso con il gas liquefatto americano per rispondere ai dazi di Trump? Vediamo: negli USA il prezzo interno del gas è una frazione di quello eurasiatico, e il principale mercato alternativo, la Cina, ha addirittura rinunciato ad approvvigionarsi dagli USA.

Quindi ci sono margini per abbassare il prezzo e criticità nel trovare mercati alternativi. Di conseguenza sì: dazi sul gas di Trump potrebbero essere un’ottima idea. O almeno una minaccia efficace e credibile che l’imbarazzata Meloni - a nome dell'Europa - potrebbe usare per ritrovare un po’ della sua sicurezza nei rapporti con gli USA.

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