lunedì 31 marzo 2025

Il doge (Puntata 665 in onda l'1/4/2025)

Questa puntata si può ascoltare qui.

Oggi mi prendo un po’ di libertà rispetto all’argomento e torniamo a uno già affrontato qui in almeno un paio di puntate: Elon Musk, di cui abbiamo parlato come imprenditore e riguardo alle sue capacità di imporre svolte notevoli ai settori di cui si occupa. L’Economist ne ha fatto qualche mese fa una copertina in cui lo definiva se non sbaglio il grande “disruptor”, parola che forse non ha una traduzione esatta e la più vicina che mi viene in mente, ma suona più debole di quella inglese, è innovatore. Ma si potrebbe dire pure: demolitore in senso anche positivo, demolitore di ciò che c’è al fine di costruire, si spera, velocemente e radicalmente qualcosa di nuovo.

Ci focalizziamo sul Musk capo di fatto (ma non formalmente, e questo è inquietante) dell’agenzia per l‘efficientamento della pubblica amministrazione statunitense (DOGE). Agenzia che con un manipolo di fedelissimi a Musk sta lavorando in modo a dir poco aggressivo, con vere e proprie invasioni, a volte addirittura effrazioni fisiche o informatiche, nei vari dipartimenti o agenzie pubbliche per scoperchiarne le attività e dismettere quelle che il DOGE ritiene costi inutili. In altri casi l’invasione è stata con mail mandate a milioni di dipendenti pubblici con proposta di un piano di dimissioni oppure con la richiesta di spiegare in breve su cosa il ricettore della mail stesse lavorando negli ultimi tempi.

Bene, sapete una cosa? Se io diventassi CEO di un’azienda in effetti chiederei a tutti su cosa stanno lavorando, e lo chiederei in termini sintetici come ha fatto il DOGE. Se penso alla mia lunga esperienza di lavoro in aziende e organizzazioni molto diverse ho imparato che inevitabilmente, soprattutto quando un rapporto di lavoro è percepito come di lungo termine, chi lavora cerca di costruire attorno a sé una barriera rispetto al rischio di perdere le proprie prerogative o le proprie leve di potere, piccole o grandi che siano. Talvolta anche miserabili, ma sufficienti a perpetuare l’apparente necessità di una funzione. Quante volte ci è stato chiesto di riempire moduli con dati che altri pezzi dell’organizzazione che ce li stava chiedendo avevano già? Quante volte ho visto dipendenti, magari io stesso, scrivere note informative su qualcosa, da fornire al superiore di turno o all’ufficio adiacente, che non se ne sarebbero forse fatti nulla? E quante di queste note in ogni caso potrebbero essere scritte dall’intelligenza artificiale, che tra le prime cose che ha imparato è l’arte dei luoghi comuni né più né meno di tanti impiegati che non vogliono grane?

O invece: quante volte abbiamo visto mandare via gente per scarsa produttività? Nella mia esperienza: poche. Mentre ho visto tanti mandati via perché davano fastidio, perché volevano esercitare davvero le responsabilità che in teoria gli spettavano, anziché assecondare il potente della cordata.

Il modo migliore per farsi assumere non è fare un colloquio stupefacente, tutt’altro: è farne uno rassicurante.

Quel che ho imparato del mondo del lavoro è che una buona parte delle cose che si fanno è una rappresentazione che serve a giustificare il proprio stipendio. Poi capita anche di produrre vero valore aggiunto, ma non è la norma e addirittura può creare problemi a chi lo fa, perché per essere produttivi serve rischiare, in un modo o nell’altro.

Ma allora un’azienda o uno Stato con deficit spaventosi come possono rendersi più efficienti in termini di macchina amministrativa? Non certo chiedendo ai vari capi quali delle unità da loro guidate in realtà non servono o sono anzi dannose. Difficilmente funziona. Né è facile misurare in modo convincente il contributo di singole parti di un organismo. Ma nemmeno fare tagli proporzionali ai budget ha senso.

E quindi? E quindi non lo so. Ma penso che occorra ogni tanto un po’ di rimescolamento di carte, di distruzione delle aree di comfort perché possa rinascere qualcosa di più agile, innovativo, efficiente. E questo ha anche a che fare con la mobilità sociale, che penso sia un ingrediente importante sia della crescita economica sia della tenuta delle democrazie.

Dare un futuro alle persone non significa necessariamente garantire quello dei pezzi di organizzazioni in cui lavorano.

Tutte le puntate di Derrick su Elon Musk qui.

lunedì 24 marzo 2025

Debito nucleare francese (Puntata 664 in onda il 25/3/25)

Questa puntata si può ascoltare qui.

Torniamo a parlare di energia nucleare, su cui questo blog ospita una sezione dedicata ricca di fonti qui.

Sappiamo che la Francia è uno dei paesi al mondo che usa di più l’atomo per fare elettricità e sappiamo che l’età media avanzata delle sue centrali avvicina per il Paese la questione difficile di come finanziare lo smantellamento degli impianti da chiudere e la costruzione dei nuovi che Macron ha annunciato.

Come sono stati pagati e a quale prezzo viene venduta l’energia degli impianti oggi in servizio in Francia?

Sono stati pagati dallo Stato con le tasse dei francesi. Il che rende poco sensato misurare l’economicità della macchina energetica francese guardando il solo prezzo locale di mercato dell’energia. Coerentemente, la Francia ha un programma chiamato ARENH (Accès Régulé a l’Èléctricitè Nucléaire Historique) nell’ambito del quale Électricité de France cede circa un quarto dell’elettricità delle sue centrali nucleari agli altri fornitori di energia a un prezzo politico che attualmente è poco più di 40 €/MWh, un prezzo più basso di quello medio di mercato all’ingrosso del Paese degli ultimi tempi, prezzo peraltro molto volatile che nel giorno in cui scrivo (22 marzo 2025) è di soli 30 € contro i 120 in Italia.

Cosa emerge? Che la Francia ha effettivamente prezzi (non costi) bassi dell’energia perché le centrali storiche, il cui grosso dei costi fissi è stato ammortizzato, sono state pagate non coll’attuale prezzo dell’energia, che anzi come abbiamo visto è tenuto artificialmente basso dall’ARENH, ma con le tasse pregresse dei francesi.

Ma cosa c’è da aspettarsi per il futuro? Per le nuove centrali e siti di trattamento di combustibile e scorie necessari il Governo d’oltralpe ha lanciato un piano pubblico di finanziamento dell’investimento necessario che secondo il sito Énérgies Rénouvables pour Tous (link sotto) costerà tra i 50 e gli 80 miliardi di € al contribuente.

In aggiunta a questo costo, il Governo prevede che la costruzione delle centrali sia resa economicamente fattibile per gli investitori privati dalla garanzia pubblica di acquisto di lungo termine dell’energia prodotta a 100 €/MWh, meccanismo simile a quello che ha permesso la costruzione – sempre da parte del gruppo EdF - del nuovo reattore inglese di Hinkley Point. Prezzo che secondo la fonte già citata si alza virtualmente a 160 tenendo conto del finanziamento pubblico di cui dicevo sopra.

Una riflessione che per qualche motivo non sento mai è: se l’obiettivo è fare un prezzo politico basso dell’energia, come nel programma ARENH, dove sta scritto che occorra anche farsi male in Italia producendola a costo più alto rispetto alle alternative disponibili? Se proprio si deve socializzare il prezzo dell’energia – cosa che a me non piace affatto visto che consumo e pago poco – almeno si evitino investimenti pubblici folli aumentando ulteriormente la bolletta fiscale. Così, quando sento gli entusiasmi confindustriali per l’avventura nucleare italiana mi chiedo da dove arrivi per Confindustria l’interesse, oltre che a chiedere un prezzo politico basso per gli energivori, anche ad aumentare il costo della macchina energetica nazionale.


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martedì 18 marzo 2025

Quali reti energia e a che costo? (Puntata 663 in onda il 18/3/25)

Schema di trasformatore elettrico. Da qui
Questa puntata si può ascoltare qui.

La scorsa settimana Riccardo Zucconi, parlamentare di Fratelli d’Italia, ha lanciato un allarme piuttosto rilevante di cui ho appreso da articoli su Quotidiano Energia e Staffetta Quotidiana. Zucconi nota che il collegio dell’ARERA, l’Autorità indipendente per energia e altro, sta per mettere mano a uno dei componenti con cui viene calcolato il costo del capitale sulla base del quale è stabilita la remunerazione delle reti dell’energia elettrica e del gas. La modifica comporterebbe un aumento con effetti rilevanti nelle bollette in una fase in cui i tassi di interesse di mercato (determinante fondamentale del costo del capitale investito nelle reti) sono in discesa stabile da una decina di mesi. Secondo Zucconi, la modifica in arrivo vanificherebbe questo calo. Il costo del capitale riconosciuto oggi in Italia ai gestori delle reti energia (al netto del possibile aumento) va dal 5,5% circa fino a oltre il 6,5% a seconda del tipo di cespite, mentre è impressionante notare che in Svizzera l’Autorità locale si ferma ben due punti più in basso, circa un terzo in meno.

Zucconi fa anche notare che la decisione verrebbe presa da ARERA proprio mentre si avvicina la scadenza del mandato del suo collegio, di cui si attende il rinnovo per l’estate o subito dopo in caso di proroga. E anche questo è rilevante.

Ma quanto contano i costi delle reti nelle bollette? Sempre di più, perché sempre di più con le fonti rinnovabili l’energia costa poco generarla ma di più trasmetterla in sicurezza limitando il più possibile che la rete diventi un collo di bottiglia per produzioni meno prevedibili. Per una bolletta elettricadomestica con consumi attorno ai 100 kWh/mese e una potenza installata in grado di reggere pompe di calore o elettrodomestici impegnativi, i costi di rete equivalgono oggi a quelli della materia prima energia. Non si tratta quindi di un valore irrilevante.

Ha certamente ragione quindi Zucconi a essere vigile e critico: perché da noi il capitale investito nelle reti energia è così ben remunerato?. E la domanda è da porsi a maggior ragione quando la politica ha deciso scandalosamente, con un blitz nell’ultima legge di bilancio, di rinnovare senza gara le concessioni di distribuzione elettrica, cioè il diritto degli attuali monopolisti delle reti cittadine, a continuare a operare senza gara. Rendite alte, quindi, e nessuna contendibilità.

C’è anche questo dietro al caro bollette, e le decisioni sembrano andare verso un loro aumento ulteriore.

Le cose si complicano, e richiedono discernimento, quando ci chiediamo quali investimenti vengano remunerati. Se nel caso dell’elettricità è unanime il riconoscimento che soprattutto a livello di bassa tensione serva un grande adeguamento della rete per assecondare l’elettrificazione dei consumi, per quanto riguarda il gas la costruzione di nuove infrastrutture, sia a livello di dorsali sia di reti locali, sta profilando un colossale sovrainvestimento che renderà le bollette o le tasse ulteriormente alte – e su questo a Derrick abbiamo citato vari esperti in puntate anche recenti.