Seconda puntata con notizie dalla quindicesima
conferenza globale sulla
tassazione ambientale promossa dall’università di Aarhus e svoltasi due
settimane fa a Copenaghen.
L’altro giorno ho raccontato dell’esperienza della carbon
tax canadese in British Columbia, un esempio di successo in termini di effetti
sui consumi di combustibili fossili e di riduzione delle tasse sul reddito. Si
tratta di una carbon tax che si applica sui soli combustibili ed è raccolta e
trasmessa all’amministrazione dal rivenditore finale. Quindi abbastanza facile
da applicare. Più complicata sarebbe un’imposta indiretta sui tutti i beni in
base alle emissioni di CO2. A quali emissioni ci si riferirebbe? Quelle per
produrre il bene? Per consumarlo? E supponendo quali tecnologie? È chiaro che
servono semplificazioni per attuare una carbon tax olistica. E poi applicata in
che fase della produzione? Solo sui beni finali?
Secondo David G. Duff
dell’Università della British Columbia, anche lui autore di un paper presentato
alla conferenza, è immaginabile una carbon tax sul valore aggiunto, che si costruisce
come l’IVA e che a ogni transazione su un bene prevede di essere pagata dal
compratore e incassata dal venditore, da applicare non però al prezzo dello
scambio ma alle emissioni dannose per il clima.
Ma quanto dovrebbe essere grossa una tassa del genere per
fornire segnali sufficienti a innescare cambi tecnologici o di abitudini
rilevanti? Se torniamo all’esempio semplice di una accisa sui combustibili equivalente
a un prezzo della CO2 di qualche decina di Euro, che è anche l’impostazione
della bozza di direttiva europea in materia, parliamo di un ordine di grandezza
di una decina di centesimi di euro, per esempio, al litro di gasolio. Non poi
tanto.
Ma secondo Silvia Tiezzi e Stefano F. Verde dell’università di Siena, anche
loro a Copenaghen con i risultati di uno studio basato su dati osservati negli
USA, c’è un effetto imprevisto dalla teoria e molto interessante.
Questo: la gente reagisce in modo più forte a un aumento di
prezzo di un carburante se sa che è causato da un tassa. Questa sorta di avversione
fiscale, secondo Tiezzi e Verde, fa sì che l’elasticità al prezzo dei consumi
(cioè la reattività dei consumatori a cambiamenti di prezzo) potrebbe essere
sottostimata quando si parla di imposte al consumo, incluse quelle ambientali.
Se così è, e nei dati visti dagli autori lo è, l’effetto di scoraggiamento al
consumo di una tassa ambientale potrebbe andare al di là delle attese
razionali, purché, certo, ci sia adeguata informazione (perché è difficile esplicare
avversione per ciò di cui non si conosce l’esistenza, quand’anche sia una tassa).
Nessun commento:
Posta un commento