martedì 9 dicembre 2014

Aspetti economici della coltivazione di idrocarburi nazionali - Parte 1 - D221

Ha senso tirare fuori il petrolio e il gas del nostro sottosuolo?

Questo tema è tornato molto d’attualità dopo che prima la Strategia Energetica Nazionale del marzo 2013, poi il decreto Sbloccaitalia nell'autunno 2014 hanno rilanciato lo sfruttamento di queste risorse.
Sempre del 2014 è un protocollo tra la Regione Sicilia e Assomineraria, in rappresentanza dell’Eni e di altre aziende petrolifere, per favorire lo sfruttamento di pozzi vecchi e nuovi, in particolare al largo delle coste meridionali siciliane, di cui parlerò in dettaglio nella prossima puntata.

Dunque torniamo al quesito iniziale: il senso economico (inteso in modo olistico, dove anche gli effetti su ambiente e attività alternative sono valutabili economicamente) dello sfruttamento delle risorse nazionali di petrolio e gas.
Nei regimi concessori, come da noi, il petrolio appartiene allo Stato. Le sue riserve sono quindi una posta attiva in un ipotetico stato patrimoniale delle risorse pubbliche, che però non viene redatto o almeno non con la completezza e facilità d'accesso che dovrebbe avere un bilancio almeno nei confronti degli azionisti (in questo caso: noi).
Quando le riserve geologiche vengono consumate, la posta attiva dell'ipotetico stato patrimoniale si riduce e produce redditi privati, parte dei quali tornano allo Stato sotto forma di royalty e di tasse.

Uno studio di Nomisma Energia del 2012 mostra che le royalty nei paesi OCSE dove sono applicate sono generalmente più alte che in Italia, ma in qualche caso nel nord Europa (Norvegia, Irlanda, Danimarca) sono state abolite e sostituite da imposte sul reddito ad hoc. Il risultato generale secondo Nomisma è comunque che da noi la tassazione specifica per le attività di coltivazione degli idrocarburi è relativamente bassa, mentre si torna a livelli più allineati solo includendo tutte le imposte sul reddito delle aziende.
Un favore alle aziende petrolifere operanti in Italia? Proprio Davide Tabarelli, direttore di Nomisma Energia, in una conversazione a margine di un convegno mi diceva che parte di questo gap tra le nostre royalty e quelle di altri Paesi potrebbe invece spiegarsi con la necessità di compensare, rispetto agli investitori, la maggiore incertezza e inefficienza dell’apparato burocratico italiano rispetto ad altri.

Resta il fatto che più basse sono le royalty meno della rendita di estrazione il nostro Stato si riprende. E perché la riduzione delle riserve di idrocarburi sia più sostenibile almeno dal punto di vista economico occorrerebbe destinare le royalty a investimenti che aumentino il valore di altre parti di questo patrimonio.
Un’operazione di compensazione di questo tipo il Ministero dello Sviluppo Economico aveva previsto con il ministro Zanonato, attraverso un “fondo investimenti per i territori interessati” al quale destinare tra il 15 al 30% dell’IRES pagata da aziende di coltivazione di idrocarburi per i nuovi progetti. Fondo che credo desse attuazione all’articolo 16 del decreto-Legge del 24 gennaio 2012 come convertito, che prevede la destinazione a “progetti  infrastrutturali  e  occupazionali  di crescita” dei territori interessati. Definizione, che, ne converrete, è piuttosto generica e si presta a scelte arbitrarie.
Chiarimenti arrivarono però con un decreto del Ministero dell’Economia del 12 settembre 2013, art. 1 comma 3, che completa la definizione così (la riporto com’è scritta):
“L'intervento  del  Fondo  e'  finalizzato  al  finanziamento  di progetti  strategici,  sia  di  carattere  infrastrutturale  sia   di carattere immateriale, di rilievo regionale, provinciale  o  locale, aventi natura di grandi progetti  o  di  investimenti  articolati  in singoli interventi di consistenza progettuale ovvero realizzativa tra loro funzionalmente connessi, in relazione a  obiettivi  e  risultati quantificabili e misurabili, anche  per  quanto  attiene  al  profilo temporale.”

Il discorso continua qui

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