domenica 18 novembre 2018

Mobilità urbana sostenibile (Puntate 377-8 in onda il 20-27/11/18 e in replica il 25/12/18 e 1/1/19)

Queste puntate si basano su un articolo di Michele Governatori con Gino Scaccia, capo di gabinetto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, uscito nel numero di novembre 2018 di Quale Energia (link sotto alla pubblicazione originale).

Una Sharen'Go elettrica
fotografata a Roma da Elisa Borghese
Gl’italiani apprezzano il car sharing più di tedeschi, inglesi e francesi, secondo un sondaggio di Alix Partners del 2017. Ma parliamo per l’Italia di numeri ancora piccoli in assoluto secondo l’Osservatorio Nazionale per la Sharing Mobility del MATTM e della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile: circa 8.000 vetture di car sharing nel 2017 (numero irrisorio rispetto ai quasi 2 milioni di auto immatricolate complessivamente in Italia nello stesso anno) a cui si aggiungono circa 40.000 bici e 500 scooter, con affermazione ormai consolidata del modello “free floating” (cioè senza obbligo di riconsegna del veicolo in luoghi predefiniti) che introduce una libertà a cui difficilmente chi l’ha provata è disposto a rinunciare successivamente. Se poi è molto facile parcheggiare (come con le piccole auto a due posti o ancora di più con le microcar elettriche e gli scooter) il vantaggio è ancora più evidente.


Mobilità condivisa e congestioni
La mobilità condivisa è anche una clamorosa opportunità di efficienza nell’uso dello spazio urbano, ed è su questo che vogliamo concentrarci qui: sulla possibilità di ridurre il numero di veicoli presenti sulle strade anche a parità di chilometri percorsi.
Le congestioni urbane sono molto dannose per la collettività. Comunque lo si calcoli (reddito mancato o anche solo perdita di qualità della vita) il tempo perso nel traffico costa caro. Inrix stima in 34 miliardi di $ (sic) il danno economico del traffico di New York nel 2017. E gli effetti sulla salute non si limitano a quelli dovuti all’esposizione prolungata agli inquinanti generati dallo stesso traffico: per esempio, uno studio dell’American University di Beirut citato dall’Economist dell’8 settembre 2018 ha accertato che restare imbottigliati aumenta notevolmente la pressione del sangue.
E le auto fanno male anche da ferme se sottraggono spazio ai pedoni e a qualunque altro uso.
I dati TomTom sul traffico nelle principali metropoli indicano Roma al sesto posto nella classifica europea dei casi peggiori, con un rallentamento medio del 40% e picco diurno oltre il 70%. Numeri tristi, anche se per fortuna non siamo ai livelli delle città più congestionate al mondo tra cui Cairo, Delhi, Lagos, caratterizzate anche da un trend d’incremento dei veicoli privati. Trend che nelle nostre città dovrebbe essersi invece finalmente invertito, anche grazie al fatto che dal 2015 al 2017 in Italia i veicoli condivisi (inclusi cicli e motocicli) sono più che raddoppiati e che i sistemi di sharing sono potenzialmente utilissimi nella riduzione del numero complessivo di veicoli circolanti. Utilissimi, ma non sufficienti al risultato.
Perché no?
Perché potrebbe verificarsi che gran parte dei movimenti di un car sharing si concentri nel tempo (oltre che nel verso), cioè che i veicoli condivisi tendano a lasciare i quartieri residenziali tutti insieme all’inizio della giornata di lavoro per poi essere riutilizzati per il rientro. Nel caso estremo, potrebbe succedere che – a parità di spostamenti effettuati con auto – servano lo stesso numero di auto condivise di quante ne servirebbero private per lo stesso numero di passaggi.
Naturalmente non tutti gli spostamenti sono quelli casa-lavoro, e quindi un vantaggio nel rapporto tra viaggi e numero di veicoli con il car sharing di norma c’è, ma è un vantaggio che può essere più o meno rilevante. I dati riportati dall’Osservatorio ci dicono che nelle maggiori città italiane nel 2016 un’auto shared non veniva utilizzata più di 4 volte al giorno. E da questo valore, basso, dipende anche il ritorno economico di chi gestisce i sistemi e quindi, in un contesto competitivo, il loro costo per gli utenti. In altri termini, se il car sharing lavora molto, finiamo per pagare meno ogni minuto di utilizzo, e viceversa.
Se è così, è ragionevole chiedersi se sia sensato cercare di incidere sulle abitudini di spostamento urbano.


Segnali economici o "command & control"?
Alcuni modi per farlo sono già tecnologicamente attuabili e non richiedono all’utente di modificare uno spostamento, ma lo inducono a scegliere o il car sharing o il TPL.
Per esempio piattaforme di osservazione e monitoraggio in grado di fornire dati in tempo reale del traffico e del meteo nel tratto di percorrenza, o la disponibilità di spazi pubblici destinati al car sharing, che dovrebbero essere previsti nei PUMS (Piani Urbani della Mobilità Sostenibile).
I segnali economici poi sono sempre importanti. Per esempio: un’auto shared parcheggiata in una zona dov’è improbabile un suo riutilizzo potrebbe essere proposta a prezzo più basso agli abbonati al servizio. O il suo prezzo potrebbe dipendere da quanto è appetibile il luogo di destinazione, o dalla disponibilità (come già avviene per alcuni gestori per le auto a motore termico) a fare rifornimento. Per le auto shared a trazione elettrica, potrebbe essere premiato il cliente che lascia l’auto collegata a una colonnina di ricarica, fino a permettere al servizio di funzionare senza addetti alla ricarica. (Qui è evidente che la disponibilità di colonnine e il tipo di tariffazione sono decisive: nessun utilizzatore dovrebbe essere incentivato a occupare una stazione di ricarica più del necessario, rischio che con un’auto elettrica shared è endemicamente ridotto rispetto a una privata).
Altro vantaggio del car sharing elettrico è l’”educazione” alla mobilità elettrica: un modo per provarne i vantaggi senza dover correre i rischi di acquistare un veicolo prima che gli standard in termini di infrastrutture di ricarica e batterie si siano consolidati. Un modo cioè per essere pionieri senza dover fare privatamente scommesse tecnologiche.
Una via ulteriore per controllare le congestioni è attribuire prezzi agli ingressi urbani di veicoli che tengano conto dell’effettiva congestione del momento. Sistemi che qualche anno fa potevano esser complicati, ora tecnologicamente sono quasi banali, ma non è detto che sia banale la disponibilità dei cittadini di accettare che le esternalità del loro uso dello spazio urbano vadano pagate.
D’altra parte, tutti accettiamo che un treno nell’ora di punta costi più di uno nelle ore vuote, e tutti constateremmo l’assurdità di una tariffazione che non incentivasse chi è indifferente all’orario a evitare l’ora di punta. Uno studio sull’uso di corsie a pagamento opzionali nelle strade di Los Angeles, sempre citato dall’Economist, mostra che gli automobilisti locali sono disposti a pagare 11$ per risparmiarsi un’ora di traffico.

Il "time management"
Un passo in più, nel congestion management, è l’intervento pubblico di tipo “dirigistico” riguardo agli orari delle attività. Una bestemmia? È accettabile che un’autorità ci dica per esempio a che ora dobbiamo andare al lavoro? Messa così forse no. Ma se pensiamo perlomeno alle attività come scuola e uffici della pubblica amministrazione, perché non dovremmo essere disponibili a che le lezioni dei nostri figli, per esempio, inizino e finiscano un po’ più tardi (o un po’ prima) se questo fa recuperare tempo e qualità nella vita loro e di tutti? Per fare questo però serve modernizzare i contratti di lavoro e la necessità che i datori di lavoro (pubblici e privati) passino a una remunerazione meno basata su orari rigidi di presenza e più sulle prestazioni. Qualcuno ricorda il fotofinish di Fantozzi per timbrare il cartellino in orario malgrado una serie di disavventure mostruose nel percorso da casa? Dopo uno sforzo così, difficile che gli siano rimaste energie per lavorare…
Molte amministrazioni cittadine, soprattutto nel Nord, hanno gli uffici “Tempi”. In passato alcuni di essi ebbero il compito di valutare anche la strada di scaglionamento delle attività cittadine. Proprio l’approccio che qui sopra abbiamo definito “dirigista”, ma che lo diventerebbe molto meno se fosse associato a strumenti di condivisione preventiva con i cittadini.

Insomma: quando parliamo di infrastrutture di trasporto e di congestione, e ne parliamo in termini di costi e benefici, non è affatto detto che le nostre abitudini di spostamento urbano debbano considerarsi una variabile indipendente. Una città è una comunità caratterizzata da grande densità e da forme di convivenza complesse e delicate. Forse, senza essere né illiberale né davvero dirigista, un’amministrazione dovrebbe anche lavorare con i cittadini su come usare meglio la città e non solo su come adattarla al nostro attuale trantran.

Ringrazio, oltre al coautore Gino Scaccia, Elisa Mastidoro (informazioni nella pagina "collaboratori esterni" di questo blog) per l'attività di documentazione.


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