Seconda puntata di un ciclo dedicato agli
idrocarburi non convenzionali e in particolare allo shale gas (gas di scisti).
Ripartiamo,
approfondendo, da dov'eravamo rimasti l'ultima volta. I dati dell'agenzia statunitense per le statistiche sull'energia indicano una
quadruplicazione delle riserve certe USA di shale
gas tra il 2007 e il 2010, con un livello a fine 2010 già di quasi 3000
miliardi di metri cubi, pari a oltre 40 anni di consumi italiani attuali. E
anche la produzione è aumentata tanto da deprimere il prezzo spot a inizio 2012
sotto i 7 centesimi di dollaro al metro cubo (recentemente risalito fino a
raddoppiare, ma ancora molto basso rispetto agli anni precedenti e pari a solo
un terzo del prezzo italiano nel frattempo quasi allineatosi a quello
centroeuropeo).
Da un lato quindi gli
USA, che secondo l'International Energy Agency di Parigi hanno un futuro di
autosufficienza petrolifera, potrebbero azzerare o invertire anche il proprio
import di gas, dall'altro però il crollo così violento del prezzo sta portando
a una riduzione pesante dell'investimento in estrazione da parte di aziende
come BHP e Shell, come riporta recentemente tra gli altri Bloomberg.
Questo rallentamento
negli investimenti secondo i più critici potrebbe essere l'inizio dello scoppio
di una bolla: la bolla della filiera della prospezione ed estrazione dello shale gas. Questo accadrebbe se gli
investimenti fatti fin qui si rivelassero di colpo non sostenibili in termini
di ritorno per producibilità dei giacimenti e prezzo del prodotto. Va in
direzione di questa tesi un lavoro dello scorso febbraio di David Hughes del Post
Carbon Institute, che afferma che il declino di produzione più veloce del
previsto dei giacimenti non convenzionali americani, e la veloce necessità di
metterne in produzione degli altri, rendono più alti del previsto i costi fissi
per gl'idrocarburi non convenzionali.
Ma qui siamo alle solite: se gli
investimenti si fermano, la produzione cala e il prezzo torna in fretta su
livelli più sostenibili in termini di ritorno degli investimenti. Detto diversamente:
le riserve dipendono dagli investimenti in prospezione ed estrazione, che a
loro volta dipendono dal livello e dalla stabilità del prezzo degli
idrocarburi. Se il prezzo del gas scende molto, è normale che crollino
temporaneamente gli investimenti. In generale, delle variabili macroeconomiche,
gli investimenti sono una delle più volatili.
Va in questa direzione,
di criticismo alla teoria del picco, per esempio David Blackmon nel blog di Forbes.
Per quanto mi riguarda,
mi pare che la contrapposizione tra picchisti e non picchisti sia sterile in
termini di conseguenze di politica energetica. Nel senso che le conclusioni a cui
arrivano i picchisti (in primis la necessità di abbandonare gli idrocarburi) restano
corrette anche se il picco non c'è ancora. Perché gli idrocarburi, non
rinnovabili, diventeranno sempre più rari e quindi relativamente costosi da
estrarre, oltre che costosi per l'ambiente in termini di danni e di costi di moderazione
degli effetti negativi. Quindi affrancarsi il prima possibile dai combustibili
fossili è meglio.
La prossima volta
ripartiamo dal boom americano del gas di scisti e dagli scambi commerciali di
gas tra USA e resto del mondo.
Ringrazio Luca Pardi di
Aspo Italia per alcuni dei riferimenti.
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