Quinta e ultima puntata sugli idrocarburi non convenzionali,
dove per non convenzionali s’intende che sono intrappolati in formazioni
geologiche diverse da quelle su cui le tecnologie di estrazione fino a pochi
anni fa erano in grado di operare con efficacia e convenienza economica.
Si tratta di risorse che per la stessa quantità di
idrocarburo richiedono un’attività di perforazione di nuovi pozzi enormemente
più intensa rispetto alle risorse tradizionali, e uno dei motivi per cui il
boom per ora è solo negli USA è la disponibilità locale di macchine adeguate all’attività.
Leonardo Maugeri ha recentemente scritto in un paper per l’Harvard Kennedy
School che nel 2012 gli USA hanno perforato in totale oltre 45 mila pozzi
contro i meno di 4mila del resto del mondo, Canada escluso.
Altrove il boom per ora non c’è, e potrebbe anche non arrivare
mai per diversi motivi che abbiamo visto nelle scorse puntate. In Europa, e qui
ci eravamo fermati l’ultima volta, si è in ogni caso aperta una discussione
politica sulla sicurezza ambientale della tecnica di estrazione degli
idrocarburi non convenzionali, il cosiddetto fracking (fratturazione idraulica ad altra pressione).
Abbiamo visto il caso inglese, dove sono state avviate
operazioni di sfruttamento di un giacimento non convenzionale tra forti
polemiche.
La Francia invece ha detto no alla fratturazione idraulica
nel 2011 con Sarkosy, e il no l'ha confermato Hollande due anni dopo. Nick Grealy, esperto americano e militante pro-shale, ritiene che questa sia una decisione su cui la politica transalpina
probabilmente tornerà, viste la debolezza dei verdi in Parlamento e la forza
dell'industria petrolifera francese che in altri Paesi sta investendo sullo
shale.
Intanto la corte costituzionale di Parigi dovrebbe a breve pronunciarsi
rispetto al ricorso di Schuepbach Energy, un'azienda americana che si è vista limitare
i suoi diritti minerari acquisiti prima della moratoria del 2011.
E l'Italia? Si è espressa con una quasi-chiusura nella
Strategia Energetica Nazionale del governo Monti. La SEN non ritiene che lo
sviluppo dello shale possa avere in
Europa un impatto rilevante nel medio periodo, e nel capitolo dedicato
all'auspicato (dalla SEN) sviluppo delle risorse di idrocarburi nazionali cita
lo shale in modo un po' sibillino:
"Il Governo non intende perseguire lo sviluppo di progetti in aree
sensibili in mare o in terraferma, ed in particolare quelli di shale gas". Non è molto chiaro
quanto perentoria sia quest’esclusione, né quanto sia limitata alle "aree
sensibili".
Questo preferire una tecnologia a un'altra, in modo
apodittico, non è certo uno dei punti onorevoli (che peraltro non mancano) della
Strategia Energetica. Se la SEN propone una valutazione costi-benefici dello
sfruttamento dei giacimenti convenzionali (valutazione su cui Derrick ha già
motivato le proprie riserve), non si capisce perché lo stesso metodo non
dovrebbe essere applicato agli idrocarburi non convenzionali.
Resta il fatto che, finché la preclusione, per quanto fumosa,
c'è, sembra violarla l'episodio di cui ha scritto Maria Rita d'Orsogna
il 15 maggio in un articolo sul Fatto Quotidiano riferendo di attività già operative di Eni di rivitalizzazione di giacimenti di
gas esausti proprio attraverso la tecnica del fracking.
(Per il reperimento di alcune fonti di questa puntata ringrazio Cristina Corazza).
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