martedì 1 ottobre 2013

D175 - Il punto sullo shale gas - Parte 5

Quinta e ultima puntata sugli idrocarburi non convenzionali, dove per non convenzionali s’intende che sono intrappolati in formazioni geologiche diverse da quelle su cui le tecnologie di estrazione fino a pochi anni fa erano in grado di operare con efficacia e convenienza economica.

Si tratta di risorse che per la stessa quantità di idrocarburo richiedono un’attività di perforazione di nuovi pozzi enormemente più intensa rispetto alle risorse tradizionali, e uno dei motivi per cui il boom per ora è solo negli USA è la disponibilità locale di macchine adeguate all’attività.
Leonardo Maugeri ha recentemente scritto in un paper per l’Harvard Kennedy School che nel 2012 gli USA hanno perforato in totale oltre 45 mila pozzi contro i meno di 4mila del resto del mondo, Canada escluso.

Altrove il boom per ora non c’è, e potrebbe anche non arrivare mai per diversi motivi che abbiamo visto nelle scorse puntate. In Europa, e qui ci eravamo fermati l’ultima volta, si è in ogni caso aperta una discussione politica sulla sicurezza ambientale della tecnica di estrazione degli idrocarburi non convenzionali, il cosiddetto fracking (fratturazione idraulica ad altra pressione).
Abbiamo visto il caso inglese, dove sono state avviate operazioni di sfruttamento di un giacimento non convenzionale tra forti polemiche.
La Francia invece ha detto no alla fratturazione idraulica nel 2011 con Sarkosy, e il no l'ha confermato Hollande due anni dopo. Nick Grealy, esperto americano e militante pro-shale, ritiene che questa sia una decisione su cui la politica transalpina probabilmente tornerà, viste la debolezza dei verdi in Parlamento e la forza dell'industria petrolifera francese che in altri Paesi sta investendo sullo shale.
Intanto la corte costituzionale di Parigi dovrebbe a breve pronunciarsi rispetto al ricorso di Schuepbach Energy, un'azienda americana che si è vista limitare i suoi diritti minerari acquisiti prima della moratoria del 2011.

E l'Italia? Si è espressa con una quasi-chiusura nella Strategia Energetica Nazionale del governo Monti. La SEN non ritiene che lo sviluppo dello shale possa avere in Europa un impatto rilevante nel medio periodo, e nel capitolo dedicato all'auspicato (dalla SEN) sviluppo delle risorse di idrocarburi nazionali cita lo shale in modo un po' sibillino: "Il Governo non intende perseguire lo sviluppo di progetti in aree sensibili in mare o in terraferma, ed in particolare quelli di shale gas". Non è molto chiaro quanto perentoria sia quest’esclusione, né quanto sia limitata alle "aree sensibili".
Questo preferire una tecnologia a un'altra, in modo apodittico, non è certo uno dei punti onorevoli (che peraltro non mancano) della Strategia Energetica. Se la SEN propone una valutazione costi-benefici dello sfruttamento dei giacimenti convenzionali (valutazione su cui Derrick ha già motivato le proprie riserve), non si capisce perché lo stesso metodo non dovrebbe essere applicato agli idrocarburi non convenzionali.

Resta il fatto che, finché la preclusione, per quanto fumosa, c'è, sembra violarla l'episodio di cui ha scritto Maria Rita d'Orsogna il 15 maggio in un articolo sul Fatto Quotidiano riferendo di attività già operative di Eni di rivitalizzazione di giacimenti di gas esausti proprio attraverso la tecnica del fracking.

(Per il reperimento di alcune fonti di questa puntata ringrazio Cristina Corazza).

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