domenica 16 novembre 2025

Lingua e pensiero (Puntata 695 in onda il 18/11/25)

Illustrazione di Paolo Ghelfi

Questa puntata si può ascoltare qui.

“L’italiano non è l’italiano: è il ragionare”, diceva il professore al suo ex allievo diventato magistrato in un romanzo, Una Storia Semplice, di Leonardo Sciascia. Una sentenza che oggi risuona come un epitaffio per un paese che ha smarrito non tanto la grammatica, quanto la capacità di pensare. E, forse, anche la capacità di rimediare a questa situazione.

[…] A fine ottobre, Terna – il gestore della rete elettrica nazionale […] – ha recapitato ai propri manager […] una email dalla responsabile “Academy” che annunciava l’obbligo di recarsi a Roma per un test di italiano. Attenzione, non operai stranieri per cui i test linguistici sono previsti per legge. […]. Poi, una volta uscita la notizia, il dietrofront. L’imbarazzo. Il silenzio.

Questo è l’esordio di un articolo del 3 novembre 2025 di Marco di Salvo, autore per la testata “Gli stati generali” (link sotto).

Il fatto che Sciascia, e immagino anche qualche linguista prima di lui, avesse già espresso il concetto non rende meno brillante il modo in cui lo elabora uno scrittore contemporaneo, Matteo Galiazzo, nel suo Cargo (Einaudi), che scrive:

Ogni tanto mi ritrovo a chiedermi […] quanta importanza abbia la grammatica all'interno delle attività del nostro cervello. E mi chiedo anche quanta della filosofia e della logica di tutti i tempi sia dipesa semplicemente dalle costruzioni grammaticali necessarie a sostenere tali pensieri […]. Cioè, quanta dell'analisi della realtà effettuata dalla filosofia sia veramente analisi della realtà e quanta semplicemente analisi grammaticale delle frasi necessarie a descrivere tale realtà.

Qui Galiazzo fa un passaggio ulteriore: suggerisce che la lingua possa essere anche una costrizione dei ragionamenti, o almeno della loro struttura.

Entrambi gli autori mi sembrano comunque sulla stessa linea su questo: c’è un legame tra la padronanza della lingua e quella dei pensieri.

Io, che negli ultimi anni mi occupo un po’ di insegnamento, più modestamente noto che se un allievo non sa usare, o evita di usare la lingua è difficile valutare i suoi progressi. Gli esami a scuola e all’università si basano su conversazioni, o sull’accoppiata di comprensione e scrittura di testi, come con la tesi di laurea. Finché non avremo uno spinotto-dati da attaccare a una porta nel cervello, sarà impossibile fare altrimenti.

Le tesi di laurea nell’era dell’intelligenza artificiale diventano a volte il frustrante continuo tentativo del docente di capire se l’allievo sta effettivamente ragionando dietro alle cose che scrive, e se le ha verificate con fonti attendibili. Nei casi peggiori anche le richieste del docente di approfondire o sfidare qualche affermazione vengono gestite con un run di riformulazione software. Con il prof. Fulvio Fontini, con cui collaboro a Padova e che abbiamo già ospitato a questi microfoni, per prevenire il problema recentemente abbiamo prescritto che un elaborato fosse scritto con l’intelligenza artificiale, ma redigendo in parallelo un diario delle interazioni con il sistema, per responsabilizzare gli studenti riguardo all’uso dello strumento.

Per adesso, io credo di avere un certo occhio nel riconoscere testi “scritti a macchina” almeno da parte dei sistemi meno specializzati. Tendono a essere ripetitivi, piani anziché strutturati, usano spesso formule enfatiche stereotipate, traggono conclusioni tipiche del senso comune anziché con caratteri di originalità foss’anche solo nella formulazione.

Quando lavoravo in azienda avevo sviluppato una mia modalità di test di assunzione. Tra le prove c’era il dettato (sic) di italiano. Era un testo di poche righe con una serie di parole-trappola in cui l’ortografia, pur non sentendosi alla lettura, segnala il senso logico nella frase. Per esempio il “fa” di “mi fa male la testa” si scrive in modo diverso da quello di “fa’ vedere dove sei” (nel senso di fammi vedere).

Ci credete?: il dettato si dimostrò tra le prove più selettive tra i laureati che esaminavamo, quasi sempre già preselezionati sulla base del voto di laurea. Chi l’ha superato a pieni voti, guarda caso, è poi decollato in brillanti carriere. Alcuni ancora oggi ogni tanto li disturbo per farmi aiutare a capire qualcosa.

Chiudiamo da dove eravamo partiti con Di Salvo: la polemica contro la “Academy” di Terna, a cui va invece il mio plauso per averci almeno provato, probabilmente l’ha fatta partire qualche dirigente che temeva il test non perché fosse irrispettoso, ma per paura di non passarlo. In una puntata del podcast “Ecoglossia”, scritto da me con Roberto Carvelli e Federico Platania, insieme ad Andrea Terenzi raccontiamo di come in un’altra azienda dell’energia, l’Eni, fu lo stesso amministratore delegato, Vittorio Mincato, a diffondere consigli di scrittura in un vademecum che abbiamo recuperato e che quarant’anni dopo è ancora utilissimo.

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martedì 11 novembre 2025

Il clima di Roma (Puntata 694 in onda l'11/11/25)

Questa puntata si ascolta qui.

Si è aperta il 10 novembre a Belem, città brasiliana alle porte della foresta amazzonica, la trentesima conferenza per il clima nell’ambito della convenzione-quadro sui cambiamenti climatici dell’ONU.

Capita ancora di sentire politici dalla debole logica argomentativa affermare che una comunità piccola rispetto al mondo intero non può assumersi responsabilità rilevanti su una questione globale. Invece l’azione per il clima mostra come tutto conti, dalle scelte di tecniche agricole o forestali in luoghi remoti, alle politiche di investimenti pubblici, alle iniziative dimostrative di singoli soggetti, passando per laboratori e sperimentazioni di comunità anche piccole.

Relativamente piccole sono le singole città, ma rilevanti in termini di effetti climatici subìti, e anche di sviluppo di nuove forme di convivenza ed efficienza soprattutto se nell’ambito di un coordinamento internazionale. Efficienza in cui le città partono avvantaggiate perché rispetto ai villaggi isolati usano meno risorse logistiche ed energetiche in rapporto all’emancipazione professionale e culturale che permettono a chi ci vive, da cui deriva la loro inarrestata capacità di attrazione.

Parliamo di clima e città oggi con Edoardo Zanchini, direttore dell’ufficio Clima del comune di Roma. Gli ho chiesto anzitutto di introdurci il rapporto tra città e clima.

[Zanchini 1 - Link in alto per l'ascolto]

Nello specifico di Roma ho chiesto poi a Zanchini come il clima colpisce la capitale e in quali settori è necessario lavorare, in particolare in termini di adattamento.

[Zanchini 2 - Link in alto per l'ascolto]

Sul portale romaperilclima.it ci sono i vari documenti su questo lavoro, tra cui il rapporto del monitoraggio degli effetti climatici, dove leggo per esempio che nel 2024 a Roma la temperatura non è mai stata sotto zero (mentre tra il ’91 e il 2020 ci sono stati in media 6 giorni all’anno con gelate notturne), che la necessità di riscaldamento (misurata in gradi giorno, cioè la somma dello scostamento tra 20 gradi e la media di temperatura del giorno) si è quasi dimezzata, mentre è più che raddoppiata quella di raffrescamento.

Riguardo alle strategie di adattamento, è interessante il lavoro su come aumentare l’ombra urbana, e la capacità delle superfici di non assorbire i raggi solari. Da uno dei tanti grafici del portale, che mostra l’incidenza delle cosiddette onde di calore, si vede come da un lato queste onde siano temibili, dall’altro quanto i romani siano fortunati per la disponibilità di parchi in cui rifugiarsi. Molti dei quali, aggiungo io, hanno ancora aree in abbandono restituibili all’uso, così come in grandi zone verdi di fatto inaccessibili (per esempio il parco agricolo di Casal del Marmo e le zone della riserva dell’Insugherata più vicine a via Trionfale) c’è da lavorare per acquisire servitù pubbliche per il passaggio di bici e pedoni.

Ne parleremo ancora magari sempre con Zanchini, che intanto ringrazio.


lunedì 3 novembre 2025

La manetta del gas (Puntata 693 in onda il 4/11/25)

Illustrazione di Paolo Ghelfi
Questa puntata si può ascoltare qui.

Capita di prendere una decisione, iniziare a comportarsi di conseguenza e poi temere di aver sbagliato.

Quando ha senso tornare indietro e quando no? La mente umana è nota per alcune famiglie di comportamenti irrazionali frequenti, per esempio non voler accettare di aver usato inutilmente risorse, con la conseguenza di insistere su decisioni anche quando con le nuove informazioni disponibili queste appaiono irrazionali.

Ma un errore opposto è quello di dimenticare i fondamenti della decisione precedente solo perché alcuni segnali sembrano in contraddizione con quanto ci saremmo aspettati, e farsi prendere quindi dal panico quando è troppo presto per valutare che la strategia non funziona.

Nell’aviazione civile ci sono protocolli per aiutare un pilota a decidere in quali casi è ammissibile modificare una manovra in una fase critica delle operazioni come il decollo. Si ritiene per esempio che oltre una certa velocità, detta di non ritorno, sia quasi sempre da evitare un rigetto del decollo, sebbene la discrezione del pilota permetta di farlo in condizioni eccezionali se lui si convince che l’aereo non sia in grado di staccarsi da terra. In tal caso perfino la certezza di non potersi più fermare entro la fine della pista è preferibile a un tentativo di decollo. Decisioni da prendere nel giro di secondi e la cui esecuzione corretta richiede perfetto coordinamento e rispetto delle gerarchie nel cockpit.

Alla fine di quest’anno l’AD di Porche Oliver Blume lascerà il comando a Michael Leiters, come reazione al crollo nella redditività dell’azienda dovuto al fatto, scrive l’Economist, che l’interesse dei clienti di auto sportive per le versioni elettriche non è sufficiente a mantenere il livello di vendite e di margini precedente. Leiters dovrà quindi decidere per esempio se reintrodurre una versione a benzina per la nuova Macan, un SUV, che al momento è previsto solo elettrico.

Reintrodurne una versione a benzina, scrive l’Economist, comporterebbe almeno un paio d’anni di ritardo sul lancio. Che, tornando all’esempio aeronautico, equivale a dire che la rinuncia al decollo della strategia precedentemente impostata potrebbe comportare di finire fuori pista, subendo danni potenzialmente superiori ai rischi di tirare dritto.

A me in realtà non stupisce che i clienti di auto sportive siano affezionati ai motori tradizionali e a tutto l’immaginario relativo. Mi preoccupa invece che il nuovo CEO di Stellantis Antonio Filosa dichiari in pubblico che il problema dell’azienda è la decisione europea di vietare di vendere motori tradizionali nel 2035. Se davvero Stellantis pensa di fare una quota rilevante di profitti tra dieci anni con motori a combustione interna, vuol dire che non si sente in grado di decollare sull’elettrico nemmeno in tempi più che ragionevoli, nemmeno con una pista molto lunga davanti. E magari ci fosse tutto questo spazio: sappiamo che la concorrenza cinese invece è già in volo e che i suoi modelli elettrici, un po’ per l’attuale eccesso di capacità e aiuti pubblici, un po’ per il fatto di essere partiti prima, sono clamorosamente competitivi sui nostri mercati.

Insomma, spero tanto che i segnali che si vedono dall’industria automobilistica europea non siano quello che sembrano: panico rispetto al futuro. Paura di portare la manetta dei motori al massimo e giocarsela sui nuovi prodotti e le nuove tecnologie.

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