martedì 27 febbraio 2024

Quanti "hub del gas" in Europa? (Puntata 612 in onda il 27/2/24)

Casa a Carpinone
I lettori assidui sanno che cito spesso l’Economist, ma stavolta l’articolo che mi ispira è da El Economista e parla dell’aspirazione di un paese a diventare “hub” del gas, cioè luogo di transito del gas in arrivo via nave nei suoi porti e poi esportato nell’Europa centrale.

Alvaro Moreno di El Economista ne parla anche a partire da uno studio di IEEFA (istituto di economia e analisi finanziaria dell’energia) che nota come a fronte di consumi europei di gas in calo è inverosimile che le nuove infrastrutture possano essere usate in futuro più di quanto si faccia adesso. E il livello di loro utilizzo è oggi nel paese solo di un terzo della capacità.

Quando il gas è arrivato a oltre 300 €/MWh nella prima estate dopo l’invasione dell’Ucraina, a molti sembrava che pagare qualunque cifra per poterlo importare da luoghi alternativi alla Russia fosse l’unica strada possibile. In parte era giustificato, ma alcuni paesi europei si sono un po’ fatti prendere la mano con la costruzione contemporanea di nuovi porti del gas proprio mentre i clienti reagivano ai prezzi alti consumando meno, e attrezzandosi a farlo in parte strutturalmente grazie a investimenti in efficienza e fonti rinnovabili.

E così, il paese di cui parla El Economista non può che aspirare a ripagare le infrastrutture del gas esportandolo ad altri.

Di che paese parliamo? Come suggerisce la lingua della testata, della Spagna. Ma la situazione è del tutto simile a quella italiana. Anche l’Italia sta approntando due nuovi punti di approdo per navi gasiere e si accinge a costruire una rete sud-nord di metanodotti capiente come mai in passato. E lo fa mentre il suo fabbisogno di gas è il più basso da quando ne esiste un mercato moderno. Per trovare consumi ridotti come nel 2023 occorre risalire al 1997, mentre il massimo dei volumi è stato toccato nel 2005.

Naturalmente l’infrastruttura non si dimensiona sui flussi annuali, bensì sulle esigenze di punta, così come un’autostrada non può andare sistematicamente in crisi con i flussi dei weekend. Ma anche tenendo in conto questo la contraddizione è evidente: oggi abbiamo più stoccaggi nazionali di gas che servono proprio a fornire capacità di punta, due nuovi porti al nord ben posizionati per sopperire alla fine (definitiva?) del flusso russo, eppure stiamo anche per rafforzare la dorsale sud-nord dei gasdotti.

Uno studio curato da Francesca Andreolli e Gabriele Cassetti di ECCO, organizzazione con cui collaboro, evidenzia come gli investimenti in nuove infrastrutture gas siano sensati solo nell’ipotesi di consumi che tornino a salire e di sostanziale indifferenza agli obiettivi climatici. Per quanto sia uno scenario improbabile e non augurabile, è quello su cui si stanno scommettendo soldi sostanzialmente pubblici, cioè da ripagare con gli oneri obbligatori delle bollette o con le tasse.

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domenica 18 febbraio 2024

Il punto sull'energia nucleare (Puntata 611 in onda il 20/2/24)

La piazza di Fidenza
È molto ingenuo pensare che il nucleare termoelettrico in Italia non sia stato più preso in considerazione solo a causa dei referendum dell’87 e del 2011.

Da un lato, purtroppo il sistema normativo italiano è costellato di referendum abrogativi poi superati da leggi successive, dall’altro le leggi sono – ed è naturale che siano – una risposta ai contesti culturali, economici, tecnologici. E infatti, quando gli investitori lo vogliono, le condizioni sembrano esserci e i lobbisti si mettono legittimamente al lavoro, le leggi per accompagnare le opportunità industriali si fanno eccome.

In effetti prima dell’incidente di Fukushima un revival del nucleare in Italia si stava preparando. Una legge predisponeva la costituzione di un’agenzia apposita e l’Autorità per l’Energia arrivò a mettere in consultazione un meccanismo di fissazione del prezzo di lungo periodo non molto diverso da quello che con polemiche è stato discusso recentemente in Europa su spinta della Francia. Enel entrò anche nel capitale di uno dei disastri finanziari del nucleare recente europeo: un nuovo reattore (in costruzione dal 2007) a Flamanville, nella Francia del nord, ma la quota di Enel (per nostra fortuna di suoi azionisti tramite la partecipazione pubblica) fu liquidata dopo il secondo referendum in Italia.

I costi e tempi insostenibili di progetti come Flamanville e gli altri 2 allora in costruzione in Europa sono probabilmente la ragione principale del calo di investimenti in nucleare in Europa e in altre regioni. Globalmente dagli anni Novanta si sono chiusi più impianti di quelli aperti, ma negli ultimi anni una ripresa dei progetti e della costruzione c’è, soprattutto in Cina dove la grande capacità di produzione a carbone giustifica un aumento del nucleare ai fini della politica climatica.

Invece il nucleare è inadatto a convivere con sistemi che abbiano già sviluppato molto le fonti rinnovabili, perché per motivi tecnici ed economici produce in modo costante e non modulabile. Non può, se non con batterie esterne, aumentare o ridurre la potenza sulla base del bisogno momentaneo. E quindi quando ci sono sole e vento la compresenza di nucleare e molta produzione da rinnovabili implica buttare l’energia in più, o stoccarla (aggiungendo i relativi costi), o spedirla altrove, di nuovo aggiungendo costi a quelli già proibitivi della produzione nucleare in sé, e senza nemmeno contare quelli di smaltimento delle scorie e degli impianti a fine vita, questioni mai risolte in modo definitivo in nessun luogo del mondo.

Questo cambierà a breve con nuove tecnologie?

Se per nuove tecnologie intendiamo gli small modular reactor (SMR), cioè versioni miniaturizzate e modulari di reattori convenzionali a fissione, non c’è per ora evidenza né di minori costi complessivi né di alcuna innovazione tecnologica drastica rispetto ai principi di funzionamento delle macchine attualmente disponibili. In ogni caso dovremo aspettare perché al mondo non ci sono ancora SMR commerciali in funzione e, delle tre principali aziende che li hanno annunciati, una, l’americana NuScale, ha recentemente ridimensionato i suoi programmi.

Se per nuove tecnologie intendiamo invece fusione nucleare, allora la questione-chiave è il tempo. Una vecchia battuta dice che la fusione è quella cosa che da cinquant’anni arriva tra trent’anni. Se anche siamo ottimisti (ed è giusto e ragionevole esserlo), i reattori a fusione potrebbero sostituire la generazione successiva di rinnovabili rispetto a quella che installiamo oggi. Non proprio un’opzione per domattina.

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martedì 13 febbraio 2024

Il monopolio delle reti dati (Puntata 610 in onda il 13/2/24)

"Musico" di F. Botero
Quanta energia consumano i sistemi di trasmissione, elaborazione e stoccaggio dei dati?

Quando partì la stagione delle criptovalute e degli elaboratori in azione per decrittarne le transazioni, molti osservatori notarono quanto l’apparato fosse costoso in termini economici ed ecologici per l’energia consumata.

In realtà la macchina mondiale dei dati e delle telecomunicazioni consuma non più dell’1,5% dell’elettricità secondo la IEA di Parigi ed emette circa l’1% dei gas-serra. Se paragoniamo quest’ultimo numero al circa 15% dei trasporti, ci rendiamo conto di quanto spostare i bit anziché le persone o le cose sia probabilmente un buon affare in termini di efficienza e uso delle risorse.

Questioni energetiche a parte, è in termini di governance probabilmente che il settore dei media legati a internet ci dà più grattacapi. È diventato per esempio comune lamentarsi del modo in cui noi stessi, se le usiamo, siamo costretti a regalare a piattaforme come Google o Facebook il diritto di sfruttamento economico di un sacco di opere del nostro ingegno oltre che informazioni dettagliate sulla nostra vita. Per usare termini più vicini al linguaggio dell’antitrust, ci rendiamo conto che il grande successo di queste piattaforme le ha anche rese monopoliste di fatto e che questo legame è autoalimentante, visto che i servizi che offrono funzionano bene proprio in quanto aggregano molti utilizzatori e informazioni.

Forse più raramente pensiamo a un’altra forma di monopolio di fatto che pure è più tradizionalmente basata sulle infrastrutture fisiche, e riguarda le reti internet anche satellitari.

Torniamo all’energia: le prime reti elettriche cittadine furono realizzate privatamente dalle stesse aziende che intendevano poi vendere l’energia che ci sarebbe passata. Solo più tardi molti Governi decisero di nazionalizzare quelle aziende e quindi evitare che la concorrenza dovesse passare per la costruzione inefficiente di reti parallele e, nello stesso tempo, evitare che le reti esistenti potessero discriminare l’accesso ai loro servizi per motivi arbitrari. Ancora più tardi, nelle economie di mercato le aziende già nazionalizzate sono state rivendute e riorganizzate in modo che solo le reti dovessero operare con concessioni pubbliche come monopolisti regolati, mentre altre attività del settore potevano essere affidate alla concorrenza.

Bene, mi sembra che oggi nelle dorsali e nei satelliti per internet (in questi il più grande operatore privato è Starlink di Elon Musk), siamo nella fase che l’energia attraversò prima della nazionalizzazione, e cioè la fase della costruzione di infrastrutture con logica privata spontanea. Che se da un lato mostra quanto spesso gli imprenditori sappiano guardare più lontano dei governi (o siano maggiormente nelle condizioni di fare scelte lungimiranti), dall’altro rende i governi responsabili di intervenire a un certo punto se il comportamento monopolistico e discriminatorio delle nuove entità (anche solo in potenza) diventa socialmente dannoso.
Interventi questi complicati dal fatto che si tratta di servizi e infrastrutture di rilevanza globale. Il che rende ineludibile la cooperazione globale.

martedì 6 febbraio 2024

Il dumping ambientale (Puntata 609 in onda il 6/2/24)

In kayak sul lago di Idro
Un luogo comune sbagliato è che la Cina sia un inquinatore indifferente alle politiche globali del clima, mentre è il Paese dei grandi numeri anche sulle nuove fonti rinnovabili e sul nucleare per generare elettricità senza danno al clima, ma anche sull’elettrificazione dei consumi energetici.

Di recente infatti il produttore cinese di veicoli elettrici BYD ha superato Tesla per numero di veicoli prodotti in un anno, e da tempo, mi dice chi frequenta la Cina, nelle grandi metropoli del dragone gli scooter sono elettrici mentre da noi sospetto che si possano ancora immatricolare i motorini a combustione a due tempi, quelli che bruciano olio insieme al carburante lasciando scie bluastre di idrocarburi incombusti.

La Cina è diventata economicamente più simile all’occidente anche da altri punti di vista: più ricca, con crescita ormai ridotta, pochi figli e debito in aumento, e con un costo del lavoro non più basso come un tempo. Nel frattempo, i problemi geopolitici con Taiwan e gli Stati Uniti rendono incerte le prospettive.

Ne sta beneficiando il vicino Vietnam, che secondo un articolo dell’Economist (link sotto) si avvantaggia proprio della sua equidistanza nei rapporti tra Cina e USA oltre che di costo del lavoro più basso e di un sistema di servizi e infrastrutture accettabile.

C’è un settore però in cui il Vietnam è arretrato: quello della produzione di elettricità, con centrali vecchie e una penetrazione minima di fonti rinnovabili dovuta anche – sempre secondo l’Economist – alla pressoché nulla possibilità di competere con l’operatore ex (o forse tuttora) monopolista di Stato. Questo implica che tra i vantaggi di costo nello spostare produzioni energivore in Vietnam c’è quello dei mancati costi di investimento in energie pulite, un classico caso di dumping ambientale.

Come se ne proteggono i mercati che invece hanno introdotto al loro interno meccanismi di disincentivo al danno climatico o all’inquinamento, come l’Europa con il suo meccanismo di permessi limitati e in molti casi onerosi alle emissioni-serra?

Nel caso dell’Europa un sistema ora in fase di pre-rodaggio è il cosiddetto “CBAM”, che sta in inglese per sistema di aggiustamento di frontiera in base al danno climatico. Questo prevederà a regime che i beni, almeno quelli più rilevanti in termini di danno, importati in Europa da paesi senza simili sistemi di disincentivo dovranno pagare alla frontiera la differenza rispetto alla carbon tax europea (uso questo termine impropriamente a vantaggio della comprensibilità).

Un meccanismo complicato, quello del CBAM, se non altro perché richiede collaborazione o intelligence proprio coi Paesi che lo subiscono, ma virtuoso e interessante, perché da un lato riduce gli spazi di dumping ambientale, dall’altro introduce l’interesse degli esportatori ad attivarsi localmente per una carbon tax o meccanismi simili anziché pagarla all’Europa. Dovrebbe così favorirsi un’emulazione e di fatto un’estensione del sistema di carbon tax europea, che in effetti ha già ispirato aree come la California e la stessa Cina.

È evidente che mercati globali correttamente competitivi devono prevedere anche omogeneità nelle regole ambientali. Serve quindi un processo politico che va nella direzione opposta a quella del disimpegno di reazione a un presunto autolesionismo europeo nelle politiche del clima.


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