martedì 20 novembre 2012

La speculazione - Parte 4 - D139

Siamo alla quarta puntata (qui la terza) di Derrick speciale economia dedicata alla speculazione, o meglio a una carrellata delle sue possibili accezioni, di questi tempi perlopiù negative dal punto di vista del cosiddetto sentire popolare.

Alla fine dell'ultima puntata parlavo dei certificati legati all'andamento della borsa venduti da molte banche, che permettono di guadagnare se la borsa sale, ma evitando parte dei rischi di discesa. Sono anche quelli assimilabili a derivati. Dicevo che un loro problema è che è difficile per un risparmiatore capire se i guadagni a cui si rinuncia sono troppi rispetto ai rischi evitati. Un possibile trucco, allora, se questi certificati sono scambiati in un mercato, è non comprarli in prima emissione al prezzo stabilito dalla banca, bensì poi, sul mercato secondario. Che se è sufficientemente liquido – cioè frequentato – tende ad attribuire ai certificati il loro valore "giusto", o meglio quello che per la comunità che ci partecipa rende indifferente l'acquisto in termini di valore del portafoglio.

E qui mi scappa una considerazione generale: nel periodo buio che attraversiamo, la parola "mercato" a molti fa paura. Meglio, si pensa, un amministratore pubblicistico che decida il prezzo dei beni. Questo implica un'enorme fiducia verso questo decisore che fa il prezzo, e verso la sua assenza di interessi privatistici. Un mercato liquido e ben regolato, invece, non ha bisogno di gente altruista per fare il prezzo equo: ha solo bisogno che più soggetti possibili facciano i loro interessi privati e abbiano accesso all'arena con lo stesso livello di informazioni.

Torno ai derivati. Un motivo per cui non godono di buona stampa sono le perdite che stanno causando agli enti locali. Oltre 1 miliardo secondo Bankitalia. Che cos'è successo? È successo che banche hanno stipulato con gli enti locali contratti derivati che attribuivano agli enti, probabili rischi futuri, in particolare sull'andamento dei tassi di interesse, a fronte di un iniziale flusso di cassa verso gli enti stessi. L'atteggiamento degli enti locali era speculativo? Sì, visto che si assumevano un rischio, anziché moderarlo. Anzi, peggio, a fronte di un vantaggio iniziale introducevano costi probabili e di ammontare incerto alla comunità e ai suoi futuri amministratori. Da un lato quindi c'erano amministratori pubblici ignoranti o in mala fede, dall'altro banche che, a meno che non fosse tutta malafede degli amministratori, non fornivano loro corretta informazione.
Sono diabolici i derivati sui cambi o sui tassi di interesse, come scrivono Elio Lannutti di Adusbef e Rosario Trefiletti? No: era irresponsabile l'uso che ne facevano gli enti locali, che per fortuna dal 2008 non possono più.

martedì 13 novembre 2012

La speculazione - Parte 3 - D138

Questa è la terza puntata (qui la seconda) di Derrick speciale economia dedicata alla cosiddetta speculazione. Che per chi ne usa le accezioni negative vuol dire cupidigia applicata ai soldi e ai mercati. Non ho mai sentito nessuno prendersela con la speculazione di uno che compra un bene che gli serve cercando di pagarlo il meno possibile. Ma se uno compra qualcosa per rivenderlo e farci una differenza, beh allora rischia la bolla di speculatore. Come mai? E chi lo sa.

L'altra volta accennavo ai derivati, simbolo forse per antonomasia della speculazione e della finanza deteriore. Guido Rossi ha scritto sul Sole 24 Ore che i derivati son diventati da strumenti di copertura del rischio a scommesse da casinò.
Cosa sono i derivati? Sono contratti finanziari il cui valore dipende da qualcos'altro che è detto sottostante, e che di solito è il prezzo di un bene scambiato in mercati organizzati, oppure un indice finanziario pubblicato.

Facciamo un esempio: il contratto con cui una parte s'impegna a cedere all'altra i futuri aumenti di prezzo del sottostante, e a vedersi invece riconosciute le sue eventuali riduzioni, si chiama future, ed è il più semplice derivato. Un future sul cherosene, per esempio, può essere comprato da una compagnia aerea per proteggersi dal rischio che il prezzo del carburante aumenti (perché in tal caso spende sì di più per fare il pieno, ma guadagna dal future), ma implica la perdita del vantaggio se il prezzo scende. La controparte di questo future può essere un'azienda che invece vuole proteggersi dalle riduzioni di prezzo del cherosene, per esempio un raffinatore. Oppure può essere un operatore che scommette sulla riduzione del prezzo, in modo speculativo.

Dove sta la malvagità di questi contratti derivati? Non c'è una malvagità intrinseca: esistono dal '700 accordi tra operatori industriali o commerciali che vogliono modificare la propria esposizione al rischio di fluttuazione del prezzo di un bene con cui hanno a che fare. Però è vero che i derivati sono oggetti delicati, perché espongono il sistema a forti rischi di insolvenza delle controparti. Perché? Perché i derivati, pur esponendo a piacere ai rischi di fluttuazioni del valore del bene sotteso, non prevedono di acquistare o vendere questo bene fisicamente, né di pagarlo. Quindi manca una garanzia naturale sul fatto che la controparte abbia i soldi per pagare poi le eventuali perdite.
Inoltre, e qui parliamo invece di rischio per i risparmiatori, i derivati più esotici, per esempio quelli che includono opzioni, possono essere difficili da valorizzare per una controparte non professionale.

Facciamo un esempio. Se siete clienti di una banca aggressiva nella raccolta del risparmio, vi sarà capitato di sentirvi offrire certificati legati all'andamento di un indice di mercato, del tipo, per esempio, che se la borsa sale vi spetterà una parte predefinita e limitata di guadagno, mentre se scende fino a un certo punto non perderete nulla. Vi si propone quindi una rinuncia a certe opportunità e a certi rischi. C'è qualcosa di male? Di principio no. Peccato che un risparmiatore non abbia i mezzi per valutare l'equità del patto.

Mettiamola in questi termini: è più probabile che ex post ci avrà guadagnato la banca, o voi? Beh, una cosa è certa: la banca è preparata a fare questo conto, e difficilmente vi vende un certificato il cui valore atteso è negativo per lei.
Forse allora abbiamo un risultato parziale: la finanza, che non è cattiva in sé, se comporta scambi con assimetrie informative, può diventare parassitaria.
Riguardo ai derivati, comunque, siamo solo all'inizio. Ci sentiamo la prossima settimana.

martedì 6 novembre 2012

La speculazione - Parte 2 - D137

Eccoci a Derrick speciale economia, seconda puntata a chiederci cos'è la speculazione. (La prima è qui).

Qualche settimana fa [ottobre 2012] un commissario dell'Autorità per l'Energia Elettrica veniva audito dalla X commissione del Senato, e si sentiva rivolgere l'auspicio che i sussidi alle fonti rinnovabili d'energia vengano in futuro attribuiti meno a operatori speculativi, e più a auto produttori, cioè produttori-consumatori.

Quesito: se ottengo un sussidio per pescare, sono più speculatore se rivendo il pesce piuttosto che se lo uso nel mio ristorante?

Nella posizione del relatore del Senato, e di tanti, è implicita la risposta affermativa.

Estremizzo un po', ma io ho l'impressione che chi se la prende con la cosiddetta speculazione, talvolta ce l'abbia di fatto con la moneta, cioè con la ricchezza non direttamente espressa in disponibilità di beni concreti. O meglio: l'interesse per la ricchezza diventa speculativo nel momento in cui questa ricchezza transita sui mercati. Il che implica una sorta di amore per la disintermediazione che, se ci fate caso, è anche tipico delle filiere cosiddette eque e solidali.

Anche l'avversione per la finanza forse nasce da idiosincrasie simili. Un indicatore che di solito viene usato per riferirsi alla crescita abnorme della finanza rispetto alla cosiddetta "economia reale" è che le transazioni in derivati tendono a essere in alcuni settori multiple rispetto a quelle sui beni o sui contratti sottesi.
L'esplosione della cosiddetta economia di carta: fenomeno incontrovertibile. Così come è reale la crescita del trading ad alta velocità, cioè di transazioni sui mercati finanziari fatte in modo automatico e con posizioni che si aprono e chiudono in tempi e con margini minuscoli, ma con frequenze e volumi elevati.

Quello del trading automatico, sulla base di protocolli computerizzati, è un fenomeno che per molti autorevoli osservatori può comportare problemi. Da un lato in termini di stabilità dei mercati, perché i protocolli automatici talvolta reagiscono in modo uniforme ai movimenti di prezzo e possono quindi generare eccessi di reazione tutti nella stessa direzione. Fino a effetti come il cosiddetto flash crash della borsa di New York, che il 6 maggio 2010 perse in un istante il 9% per poi riguadagnarlo (ma con effetti distributivi probabilmente forti).
Dall'altro lato gli strumenti del trading automatico danno un vantaggio strutturale ai trader professionisti rispetto a chi invece usa i mercati solo per modificare il proprio portafoglio in modo stabile, come per esempio i cosiddetti cassettisti azionari o in generale i risparmiatori.

Ho nominato i derivati, oggetti di solito esecrati quanto misconosciuti dai non tecnici, e bisognerà senz'altro tornarci la prossima volta. Anche Guido Rossi, che già l'altra volta abbiamo citato come avversario della "speculazione", naturalmente ce l'ha anche coi derivati, e ha scritto sul Sole 24 Ore che i derivati son diventati da strumenti di copertura del rischio a scommesse da casinò.