martedì 26 maggio 2020

BTP Italia 2020 (Puntata 439 in onda il 26/5/20)

Questa puntata è tratta da un articolo già pubblicato al link sotto e scritto con Matteo di Paolo

La piazza di Innsbruck
Nella terza settimana di maggio 2020 sono stati collocati dal Tesoro oltre 20 miliardi di € di BTP Italia a 5 anni, perlopiù a investitori retail, a fronte di oltre 30 miliardi di richieste.

Un successo?
Da un lato sì, perché non era scontato che ci fossero abbastanza soggetti disposti a scommettere contro un default di uno Stato che con il disastro in corso veleggia verso un debito doppio della dimensione annuale della sua economia già stagnante prima del virus.

Non si tratta però di un regalo. Questa emissione si è svolta senza procedure competitive, cioè con un rendimento prefissato e che non poteva ridursi in caso di buona accoglienza. Tutti i sottoscrittori riceveranno infatti una cedola dell’1,4% (più 0,8% di premio alla scadenza quinquennale per gli investitori retail che avranno mantenuto per tutto il periodo il titolo) più una componente di copertura dall’inflazione. Un’assicurazione quest’ultima che da qui a 5 anni ha un valore significativo, visto che lo shock d’offerta globale potrebbe vedere l’inflazione rialzarsi di colpo con la ripartenza della domanda.
Si tratta di una remunerazione elevata e quindi costosa per lo Stato? Sì: il giorno dell’emissione il BTP 5 anni (stessa scadenza) aveva un rendimento di mercato all’1,39%, cioè identico alla cedola prevista dal BTP Italia, mentre il rendimento garantito dalla copertura per l’inflazione sarà in più. In altri termini, con questa emissione l’investitore avrà una cedola con rendimento reale (cioè al netto dell’inflazione) pari al rendimento nominale di mercato sulla stessa scadenza.
Martedì 26 maggio scopriremo a quale prezzo il BTP Italia verrà scambiato sul mercato. Se sarà maggiore di 100 (la parità rispetto al valore nominale a cui è stato collocato), la differenza corrisponderà alla cifra che il Tesoro avrebbe potuto raccogliere con lo stesso costo per interessi e che invece ha dato in più agli investitori. [Nota di aggiornamento: in effetti il titolo a circa un'ora dall'inizio della negoziazione sul mercato MOT di Borsa Italiana era scambiato a premio di poco meno di 0,5%].

Insomma: i nuovi finanziatori non hanno regalato nulla allo Stato. I contribuenti di domani dovranno remunerarli senza sconti, anzi: a premio.

Questo collocamento attraverso banche italiane e con protezione da inflazione italiana risponde anche alla scelta politica di collocare il debito presso prestatori italiani. Il che potrebbe aver senso se essi fossero disposti a farsi remunerare meno del mercato, cosa che in questo caso non è stata affatto testata, come abbiamo visto.
D'altra parte, in qualunque normale asta prestatori italiani o meno disposti a minori tassi avrebbero la precedenza. Non si è mai visto che cercare di limitare la platea di un collocamento ne aumenti il successo.

Ora che gli italiani hanno mobilitato circa l’1% dei loro depositi su conti correnti per questa emissione finalizzata a compensare la fuga degli investitori stranieri, più risparmi italiani sono sottratti all’economia reale in ossequio alla retorica nazionalista e antieuropea. Quella stessa economia reale che dovrebbe permetterci di pagare gli interessi.


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lunedì 18 maggio 2020

La controglobalizzazione? (Puntata 438 in onda il 19/5/20)

Sulla tangenziale del Cairo a bordo di una vecchia Toyota
Mentre scrivo questo Derrick, i giornali descrivono il contenuto del Decreto rilancio passato al Consiglio dei ministri il cui testo non è stato ancora diffuso, e tra le novità ci sarebbe quella, che a me sembra ottima, di riapertura prevista per giugno delle frontiere in arrivo in Italia dai Paesi Schengen. Fossi il Governo farei anche di più: comprerei pagine sui giornali internazionali per annunciare che l’Italia si attrezzerà per rendere il turismo sicuro, e stabilirei anche regole e garanzie in modo che chi si arrischia a venire da lontano sappia cosa gli succede se in un controllo all’aeroporto mostra sintomi sospetti. L’incertezza dell’applicazione delle norme e la paura di trovarsi di fronte a forze dell’ordine che prendono decisioni arbitrarie aumentano in modo gratuito i danni delle misure di contenimento.

Per un Paese orientato all’export e in cui il turismo vale il 5% del PIL (più forse il doppio di tanto in termini di indotto) e il 6% degli occupati, la chiusura delle frontiere è un impoverimento certo. E restrizioni ai movimenti internazionali sono purtroppo ciò che sta succedendo globalmente: il protezionismo come reazione alla paura. Una tendenza che c’era a dire il vero già prima del virus e cui il nostro Paese non fa eccezione, e che si manifestava anche solo in forma di esortazioni a un “buy Italian” che fatto davvero avrebbe costi enormi per i consumatori. Anche nei beni per antonomasia più italiani è spesso diffusa una componente di semilavorati d’importazione. Per esempio basta leggere l’etichetta di un pacco di pasta, anche di quello di produttori di qualità e italianissimi, per scoprire che i suoi grani vengono spesso anche da fuori Europa.

Quello del cibo è un settore da tenere d’occhio perché rischia di vedere aumenti di prezzi a fronte di una minore disponibilità, mentre la domanda con il Covid non si è ridotta ma spostata tutta sul consumo finale a detrimento di mense e ristoranti. Un cambio che nel breve periodo sta causando enormi sprechi di prodotti confezionati per la ristorazione professionale e che è costoso ora recuperare. Così come stanno andando a male molti dei fusti di birra destinati al consumo nei locali.

Oggi l’inflazione è ferma perché alcuni beni come l’energia hanno visto crollare il loro prezzo. Ma il comparto del cibo è in controtendenza, e un aumento consistente dei suoi prezzi farebbe calare il potere d’acquisto soprattutto per le famiglie più in difficoltà, che vi destinano una quota importante del reddito.
Auguriamoci che il riso vietnamita o il grano ucraino (oggi al mio supermercato le lenticchie più economiche erano statunitensi) continuino ad arrivare nella nostra economia, e non trasformino anche un primo piatto in un lusso. E auguriamoci anche che i nostri pomodori possano essere raccolti da lavoratori di qualsiasi nazionalità che trovano in quei pomodori, per nostra forse più che per loro fortuna, un veicolo di emancipazione economica.

domenica 10 maggio 2020

Primo, riaprire le scuole (Puntata 437 in onda il 12/5/20 e in replica il 2/6/20))

Illustrazione di Andrea Ucini (@andreaucini su Twitter) per The Economist
Un articolo sull’Economist del 2 maggio 2020 s’intitola: “Open schools first” e argomenta perché chiudere le scuole provoca danni, anche economici, maggiori ai benefici di riduzione del contagio.

Una questione fondamentale, forse la principale, è il ruolo della scuola nel promuovere parità di opportunità.
L'attitudine di studenti e famiglie ad assecondare la formazione a distanza è molto disuguale, e non solo per il cosiddetto digital divide: la formazione a distanza funziona ma richiede una maggior collaborazione di chi la riceve e un set di competenze già acquisite, e difficilmente permette di costruire lo stesso rapporto di fiducia e lealtà che un docente in gamba stabilisce in aula. Questo vale soprattutto per la scuola primaria, ma se ripenso alla mia formazione io ricordo ancora anche singoli sguardi, consigli, reazioni, gesti di miei insegnanti di liceo che ancora ringrazio non solo per la loro competenza, ma per aver contribuito a sviluppare il mio senso critico e i miei valori nel loro complesso.

In termini di mobilità sociale, è ampia la letteratura che mostra il ruolo decisivo soprattutto della scuola primaria. Non c’è cosa più efficace che uno Stato possa fare per aumentare le chance di benessere ai figli di famiglie disagiate, e quindi in prospettiva alle famiglie stesse, che una buona scuola.

Anna Ascani, viceministro MIUR, in un’intervista a Radio Radicale raccolta da Massimiliano Coccia il 9 maggio 2020 (link sotto, anche a un'altra precedente di Giovanna Reanda) ricorda alcune iniziative già prese dal Ministero per ridurre il digital divide e non esclude (e difficilmente avrebbe potuto del resto) che in particolare per le scuole superiori si prospetti per il prossimo anno scolastico una riduzione dell’attività didattica in presenza.
“Nessuno in ogni caso perderà l'anno” dice Ascani, affermazione che personalmente trovo preoccupante perché lega, in modo implicito, la perdita dell’anno alla perdita del valore legale dell’istruzione per quell’anno anziché al mancato raggiungimento degli obiettivi formativi.
Ma se il problema fosse non perdere il valore legale dell’anno scolastico, un 6 politico risolverebbe tutto.
Il danno grave, se mai, è quello al capitale umano perso per gli studenti (tanto che da genitore potrei avere interesse a chiedere piuttosto la ripetizione di un anno che non si sia potuto svolgere in modo efficace).

Se alcune scuole riprenderanno le lezioni frontali con classi dimezzate, è evidente che si dovrà ricorrere a nuovi docenti. È in grado il sistema scolastico di trovarli da qui a settembre o di chiedere a quelli curricolari di lavorare significativamente di più? Avrebbero i nuovi docenti le stesse competenze di quelli da affiancare, o si stravolgerebbe anche il programma di studi?
Se metà delle ore diventassero un doposcuola con meno insegnamenti scientifici o di lingua italiana avremmo probabilmente un problema in prospettiva, se è vero che quelle scientifiche e logiche, insieme alla capacità di comprendere un testo complesso, sono competenze fondamentali perché una società civile sia meno prona a fake news e a politici ignoranti.

I dati di alfabetizzazione scientifica in Italia sono in miglioramento, secondo uno studio Observa di qualche anno fa, e non è certo il caso di invertire il trend, se è vero che nel 2016 secondo lo stesso studio più del 37% del campione pensava che il sole fosse un pianeta. Con un andamento migliore dei giovani rispetto agli anziani, ai numi piacendo.


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lunedì 4 maggio 2020

La ripresa dei trasporti (Puntata 436 in onda il 5/5/20)


Ben il 44% del petrolio è consumato nei trasporti terrestri e un altro 12% in navi e aerei. Dati della Energy Information Administration americana riportati in un vastissimo reportage di Laura Hurst su Bloomberg del 25 aprile mostrano negli USA il dimezzamento dei consumi di benzina nella prima parte di aprile 2020 in seguito alla riduzione degli spostamenti privati, mentre il calo del gasolio, più legato in America ai trasporti commerciali, è meno marcato.

Previsioni a breve di andamento dei consumi di prodotti petroliferi per mobilità sono difficili da fare, visto che ci sono due effetti contrastanti. Uno è il probabile consolidamento strutturale dell’uso delle piattaforme di telelavoro per ridurre gli spostamenti fisici dopo che abbiamo provato l’effetto che fa (come dicevamo nell’ultimo Derrick). L’altro, di segno opposto, è che ci saranno probabilmente restrizioni o anche solo remore nell’uso di mezzi pubblici di trasporto. Se guardiamo alle città, è però improbabile che ci siano spazi per un incremento del traffico a motore, perlomeno quello a quattroruote: quasi ovunque nei paesi sviluppati le metropoli si stanno attrezzando per affrancarsene e non credo proprio che sarebbe saggia una battuta d’arresto ora. Fuori città è invece forse più probabile che una parte degli spostamenti fatti in treno e in bus passi all’auto privata in attesa del vaccino. Dati dalla Cina sono abbastanza impressionanti in questo senso e hanno visto nella prima metà di aprile 2020 un incremento notevole e stabile del traffico privato a motore rispetto all’anno precedente.

Quello del traffico aereo, per quanto come abbiamo visto meno decisivo per quota di consumi, è forse il settore dei trasporti in cui è più evidente il gap tra blocco forzato di passeggeri e capacità produttiva, quest’ultima molto poco flessibile e basata sui costi fissi. Gli aerei a terra e gli aeroporti vuoti in tutto il mondo sono una situazione finanziariamente molto critica che sta già richiedendo massicci interventi pubblici (perfino l’australiano Richard Branson di Virgin, normalmente così tracotante, ha dovuto chiedere un prestito al governo britannico e anche impegnare, se ho letto bene, un’isola caraibica (sic) di sua proprietà). Di mezzo ci sono non solo le compagnie aeree, ma le banche che danno loro in leasing gli aeromobili e la stessa industria aeronautica, un duopolio globale Europa-Usa ormai completo che spazia dai grandi jet intercontinentali wide body a quelli di corto raggio dopo le recenti annessioni di Bombardier a Airbus e Embraer a Boeing e il fallimento commerciale del velleitario progetto italo-russo del “Sukhoi superjet”. Un’industria, quella dei due giganti dei jet, con stabilimenti produttivi in mezzo mondo e molto legata alla protezione e ai sussidi dei due macroblocchi UE e Usa, mentre la grande Cina non sembra attrezzata a competere in questo campo.
Forse è proprio il settore aereo, che veniva da uno stabile trend di crescita, il candidato più credibile a riprendere i suoi consumi appena si potrà volare (e del resto chiudere le frontiere per combattere un virus ormai globale ha ben poco senso, casomai aveva senso prima). Anche perché, in attesa di una diffusione di biocarburanti e carburanti di sintesi, di cui parleremo presto, gli aerei sono l’unico mezzo di trasporto che difficilmente potrà andare a elettricità a breve.


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