domenica 26 novembre 2017

Le camminate (im)possibili III (Puntata 337 in onda il 28/11/17)

Ho ricevuto segnali di interesse verso un paio di vecchie puntate di Derrick in cui facevo il reportage di miei spostamenti a piedi tra luoghi molto frequentati della periferia romana. Percorsi che moltissimi pedoni suppongo avrebbero interesse a fare ma che la città non sembra progettata per assecondare, oppure che per pigrizia o cultura non vengono tentati.

In rosso, con partenza dal basso, il percorso a piedi.
Bene, questa è una nuova puntata della serie, e stavolta la sfida è particolarmente semplice: andare a piedi a Roma dalla fermata della metro B di Ponte Mammolo alla sede degli uffici di Terna, il gestore della rete elettrica d’alta tensione in via Galbani 70.

Un chilometro scarso in linea d’aria nella periferia nordest della città, vicino a dove la via Tiburtina incrocia il fiume Aniene.


Affronto il tragitto il 23 novembre 2017 approfittando del sole e di una riunione di lavoro a Terna, e vi dico subito l’esito: a differenza dei casi precedenti, stavolta non trovo mancanza di infrastrutture pedonali. Nessuno svincolo automobilistico non protetto da percorrere o attraversare, nessun cul de sac, nessun guardrail da scavalcare. Solo rifiuti e stato d’abbandono dei percorsi pedonali esistenti, e la sensazione d’essere l’unico in chissà quanto tempo ad avventurarmi col semplice fine di transito e non per trovare rifugio o gettare rifiuti.

Dunque esco dalla fermata ponte Mammolo, con le sue bancarelle, e verso Nord raggiungo l’arteria viale Togliatti che da queste parti fa un evidente tornante per connettersi
         La Chevrolet Corvette dell'86         
alla Tiburtina, tornante che come vedremo è reso meno utile dalla chiusura di uno svincolo, tanto che il tratto appare trasformato più che altro in parcheggio per chi prende la metro. Il marciapiede c’è e costeggia una scarpata piena di rifiuti. Lo percorro fino al tornante, nei pressi di un piazzale con un carrozziere dove ammiro una Chevrolet Corvette del 1986 in vendita, bianca con strisce blu. Peccato il parabrezza incrinato.
Mi tornano ricordi di quando ventenne mi aggiravo in piazzali vagamente western di sfasciacarrozze, temendone i cani da guardia, per cercare ricambi d’occasione per la mia Fiat Ritmo rossa dell’84.

Foto di Derrick, 2017
Un bus e auto in vendita fermi sullo svincolo chiuso
in uscita dalla Tiburtina

Torno in me e lascio il carrozziere verso lo svincolo in uscita dalla Tiburtina che pur apparentemente integro è chiuso al traffico, tanto che il suo tratto finale sembra usucapito dall’autocarrozzeria, con addirittura un bus gran turismo in sosta forse in attesa di cure. Mi sembra un caso evidente di infrastruttura pesante fatta e poi abbandonata.

     Il fiume Aniene e, a destra, gli orti     
Risalgo lo svincolo fin dove si stacca dalla Tiburtina (punto in cui è chiuso con blocchi di cemento) nei pressi del ponte sull’Aniene, fiume che là sotto scorre tra detriti e vegetazione rigogliosa, con una discarica di rifiuti gettati dal viadotto da un lato, e orti dall’altra parte.

Rifiuti sulla riva destra dell'Aniene
sotto lo svincolo chiuso
Sempre in percorso pedonale abbandonato e pieno di rifiuti, ma esistente, raggiungo la vasta via Furio Cicogna, poco attraente seppur costeggiata da verde e marciapiedi da entrambi i lati, e la percorro lungamente verso Nord-Ovest.

Dal lato dell’Aniene tra la vegetazione incolta dev’esserci un sentiero, disperatamente segnalato come “ciclabile” da due grandi cartelli in legno il cui artefice, se ci fosse un paradiso, lo meriterebbe. Dall’altro lato c’è invece un vero e proprio parco pubblico recintato, dall’aria ben tenuta e delimitato sulla strada perfino da qualche palma, per quanto malaticcia.
Via Cicogna incrocia via Galbani a poche centinaia di metri dalla mia destinazione.
"SENTIERO CICLABILE" recita il cartello
Ma il percorso ha ancora in serbo qualcosa per me: il museo archeologico comunale di Casal de’ Pazzi, dotato credo di percorsi interattivi per giovani, che se non fossi atteso alla mia riunione visiterei.

“Come sei venuto?” chiede una collega quando sono già nei corridoi di Terna.
“A piedi dalla fermata di Ponte Mammolo” rispondo.
“Solo a te vengono in mente certe idee” fa lei.
Già, ma mi chiedo perché siano idee così poco comuni.


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domenica 19 novembre 2017

L'elettricità del futuro (Puntate 282 e 336)

Qui a Derrick periodicamente diamo conto di nuovi studi sugli scenari energetici globali. Questo periodo dell’anno in particolare è quello in cui esce l’outlook della IEA, l’agenzia indipendente di Parigi. Vediamone qualche tendenza interessante: 
  • Il mondo avrà sempre più bisogno d’energia (30% in più di oggi nel 2040 quando saremo 9 miliardi d’abitanti) la quale sarà sempre più usata in forma di elettricità. Solo l’Europa, notevolmente, il Giappone e leggermente gli Stati Uniti contrarranno i propri consumi. L’aumento dell’India varrà da solo 5 volte il risparmio europeo.
  • La domanda di petrolio, che dipende soprattutto da consumi non elettrici, aumenterà ancora per tutto il periodo considerato, anche se a un tasso decrescente. Gli USA dal 2020 saranno esportatore netto anche di petrolio e non solo gas, grazie alla sopravvivenza dell’industria dello shale oil e gas (cioè gl’idrocarburi di scisti) al periodo recente di prezzi bassissimi.
  • D’altra parte l’elettricità verrà prodotta sempre più da fonti rinnovabili, il 40% nel 2040 (livello che in Italia è già raggiunto), grazie all’impressionante calo dei costi. La parte del leone, soprattutto fuori dall’Europa, la farà il solare fotovoltaico.

40% di penetrazione delle rinnovabili nel 2040 non è un obiettivo estremamente ambizioso, tanto che la IEA immagina anche uno scenario di maggior impegno nella riduzione delle emissioni-serra, scenario nel quale il mondo sarebbe in grado di fare meglio. Dipende dalle politiche, naturalmente.
Se le politiche coerenti vengono attuate, il mondo può addirittura produrre tutta l’elettricità da fonti rinnovabili senza aspettare troppo. Si tratta di un’affermazione non nuova, e che in particolare di recente è stata illustrata in uno studio di Energy Watch Group, una non-profit tedesca, in collaborazione con il politecnico di Lappeenranta, in Finlandia. Secondo lo studio, emettere zero CO2 nella produzione elettrica del 2050 richiederebbe un mix di generazione quasi al 70% basato su fotovoltaico e un’enorme quantità di batterie installate per far fronte all’intermittenza delle rinnovabili.

A quali costi? Sempre secondo lo studio tedesco e finlandese, l’elettricità tutta rinnovabile costerebbe comunque meno di quella attuale, con un costo medio futuro di generazione di 52 €/MWh contro quello medio del 2015 stimato in 70.

Attenzione, non stiamo parlando di consumi energetici interamente carbon free, ma solo (si fa per dire) di una produzione interamente rinnovabile di elettricità, la quale, pur costituendo una fetta sempre più importante dei consumi energetici finali, non riuscirà nemmeno nel 2050 a coprire l’intero fabbisogno degli usi, per esempio, di trasporto e riscaldamento.


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Archivio: la puntata 282 di giugno 2016 sullo stesso tema

Da dove verrà l’energia elettrica del futuro? Il 13 giugno [2016] è uscito il nuovo numero di un outlook di Bloomberg New Energy Finance (BNEF) di cui parla diffusamente, tra gli altri, un articolo di Karen Beckman sull’Energy Post.
Rapporti di questo tipo non li definirei propriamente “previsioni”, se mai esercizi di scenario che quasi sempre si basano anche su ipotesi sulle politiche pubbliche da cui dipendono i numeri stessi. Politiche influenzare le quali è per giunta obiettivo di questi studi…
Detto questo, vediamone le conclusioni più rilevanti secondo Derrick:

  1. Gas e carbone continueranno a costare industrialmente poco, e con loro costerà poco l’elettricità prodotta usandoli, al netto di politiche per internalizzarne i danni ambientali. Si tratta di una tendenza a cui ci stiamo già abituando e che si vede da un po’ nella componente energia, sempre più magra, delle nostre bollette.
  2. Anche i costi di produrre energia da sole e vento scenderanno. Entro il 2030 queste tecnologie saranno le più economiche per produrre elettricità in quasi tutto il mondo. L’eolico di terra, già oggi la fonte rinnovabile elettrica più economica, costerà oltre un terzo in meno che oggi in media, fino a raggiungere nel 2025 secondo lo studio i 5 centesimi di dollaro al kWh. Il solare fotovoltaico addirittura dimezzerà i prezzi e sarà solo di poco meno economico. Attenzione però: le ipotesi dietro questi numeri sono inevitabilmente opinabili, soprattutto perché i trend tecnologici potrebbero avere discontinuità che oggi non immaginiamo, e perché i costi – sostanzialmente di investimento – di queste fonti dipendono molto da variabili macroeconomiche come i tassi di interesse, che sono esogene rispetto allo studio.
  3. L’Asia e le aree del Pacifico da sole saranno la sede della maggioranza degli investimenti in generazione elettrica.
    Il nuovo quartere di Porta Nuova a Milano
    visto da Derrick dall'ultimo piano di Palazzo Lombardia
  4. Le auto elettriche faranno il boom e nel 2040 avranno il 35% di quota di mercato secondo l’outlook del BNEF tra i veicoli da trasporto leggero su gomma. Questo avverrà in parallelo con lo sviluppo di batterie economiche rispetto a oggi.
  5. Nella produzione di elettricità secondo l’outlook non ci sarà un boom del gas in attesa della decarbonizzazione (invece anticipato negli anni scorsi dalla IEA). Ci sarà invece una crescita del carbone trainato in primis dall’Asia (India in particolare) e dall’Africa, in completa divergenza rispetto al forte calo in Europa determinato dalle politiche locali. (L’ipotesi naturalmente è che nei Paesi in via di sviluppo i consumi totali di energia aumenteranno di molto, questo rende compatibile il boom del carbone con quello delle rinnovabili).
Infine, la brutta notizia: la tendenza naturale degli investimenti in generazione elettrica, quella descritta in questi punti e che lo studio quantifica in oltre 9 mila miliardi di dollari, non sarà sufficiente a garantire il contenimento dell’aumento della temperatura globale in due gradi rispetto al livello preindustriale. Per raggiungere l’obiettivo, servirebbero oltre 5 mila miliardi in più entro il 2040 per stare sotto le 450 parti per milione di CO2 in atmosfera considerate soglia massima di sicurezza dall’ONU.

martedì 14 novembre 2017

Distribuzione degli oneri in bolletta (Puntata 335, su Radio Radicale il 14/11/17)


Oggi torniamo su un tema che abbiamo già visto in passato ma di cui è utile seguire le evoluzioni: gli oneri generali nelle bollette elettriche, quelli non strettamente dovuti all’approvvigionamento della materia prima energetica. Quanto pesano? E in che modo le varie categorie di consumatori vi contribuiscono?
Ci occupiamo in particolare di due famiglie di oneri: quelli per la realizzazione e mantenimento delle reti, e quelli per l’incentivo alle fonti rinnovabili.

Cavi elettrici a Santiago de Cuba
(agosto 2015) di Laura Zigiotti
Tra il 2011 e il 2017, la variazione delle componenti tariffarie nella bolletta domestica tipo ha mostrato un aumento del peso delle componenti regolate, cioè gli oneri di rete sostenuti per il trasporto dell’energia e per la gestione del contatore, sia stato superiore all’aumento del peso della parafiscalità per le rinnovabili, cioè gli incentivi pagati tramite i cosiddetti oneri di sistema. In numeri, nella seconda metà del 2016, tali sussidi rimangono comunque superiori ai costi di rete di tre punti percentuali, pesando rispettivamente per il 22 e il 19% della bolletta.

Nel 2016, i costi per la gestione della rete sono stati sopportati prevalentemente dalle utenze domestiche, che hanno pagato il 42% di questi prelevando dalla rete poco più del 20% dell’elettricità. Hanno contribuito in misura minore le piccole e medie imprese, i clienti industriali in media tensione, e le industrie allacciate direttamente alla rete nazionale, ciò è coerente con il fatto che i domestici usufruiscono di più servizi di distribuzione rispetto a un’azienda manifatturiera in alta tensione.

Anche la distribuzione degli oneri per l’incentivazione delle rinnovabili avvantaggia i grandi consumatori, ma con una logica degressiva in parte differente, che premia i grandi consumatori: all’aumentare dei prelievi di energia diminuiscono gli oneri dovuti per unità di consumo. In questo caso sono le utenze non domestiche in bassa e media tensione a pagare la quota più alta, vale a dire le piccole e medie imprese, che verosimilmente non hanno consumi sufficientemente alti da garantirsi sconti sui contributi agli incentivi per le rinnovabili.

Dunque i 15,8 miliardi di oneri di sistema e i circa 12 miliardi di oneri di rete del 2016 hanno gravato in maniera non direttamente proporzionale rispetto ai consumi di energia, mostrando che la categoria che beneficia maggiormente dall’attuale meccanismo è quella dei grandi consumatori.

La degressività sugli oneri per le rinnovabili è destinata ad essere superata a breve, per essere però sostituita da un rafforzamento del meccanismo di sussidio ai clienti energivori, cioè alle aziende con un’incidenza elevata dei costi energetici su quelli operativi complessivi.
Peraltro gli incentivi alle rinnovabili nel 2017 sono entrati nella fase calante, diminuendo di quasi due miliardi rispetto all’anno precedente.
Ma dato il trend di aumento della tariffa di rete che ha caratterizzato gli ultimi anni, che si spiega in parte dalla necessità di integrare sempre più impianti rinnovabili in rete, rimane un’incognita se le minori spese per avere energia pulita si potranno effettivamente concretizzare in una riduzione della bolletta per il cliente domestico o se verranno invece neutralizzate dal costante aumento dei costi per trasportare e distribuire elettricità.

Naturalmente, anche se non ci fosse alcun risparmio economico a lungo termine dalla transizione alle rinnovabili, il bilancio di questa transizione sarebbe comunque strapositivo, visto il vantaggio in termini di messa di sicurezza ecologica del sistema energetico nel frattempo operata.


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domenica 5 novembre 2017

Esportiamo elettricità (Puntate 291, 300, 334)

Qualche luogo comune sull’energia sta per essere sovvertito.

Il presidente di Confindustria chiudendo col suo intervento a Capri la convention dei giovani industriali 2016 ha detto che le aziende italiane continuano a pagare l’energia più di quelle tedesche.
Rispetto alle grandi aziende manifatturiere energivore, non è vero. Esse hanno prezzi perlopiù allineati e sia da noi sia in Germania sono sussidiate: in Italia prevalentemente a spese delle bollette delle aziende più piccole e non manifatturiere (e quindi se mettiamo insieme tutte le imprese Boccia ha ragione), in Germania a spese delle bollette domestiche.

Un altro luogo comune, questo fino a ora fondato, è che l’Italia sia un paese fortemente importatore di elettricità.
Un motivo importante per cui è stato a lungo così è che la Francia, a cui siamo molto interconnessi, produce prevalentemente da nucleare. Una tecnologia complessivamente costosa ma i cui costi sono perlopiù fissi e non legati al volume della produzione, con prezzi per unità d’energia quindi di norma competitivi sul mercato all’ingrosso rispetto a quelli italiani.
(Un cittadino francese potrebbe chiedersi perché con le sue tasse debba mantenere centrali che sono servite a lungo ad abbassare il prezzo dell’energia in Italia).


Inverno 2016-2017

Il guaio è che le centrali nucleari francesi sono sempre più vecchie. Molte andranno sostituite, e molte in questo periodo sono sottoposte a interventi di manutenzione massicci, anche in seguito alla sconcertante scoperta della falsificazione di documenti sulla resistenza dei materiali da parte di fornitori di parti delle macchine. Il risultato, all'inizio di ottobre 2016, è stata una capacità produttiva transalpina mai così bassa dal 1998.
Il prezzo all’ingrosso dell’elettricità oltralpe ne ha risentito passando nell'autunno 2016 in pochi mesi da 30 a 70 €/MWh, superando quindi quello italiano che prima si aggirava sui 40 € e che, trascinato dalla Francia, ha poi avuto fiammate fino a 60. Nell'inverno successivo la situazione si è esacerbata a causa dei consumi elettrici per il riscaldamento francese, portando spesso i prezzi d'oltralpe oltre 100 €/MWh e i nostri oltre 80.

Traliccio elettrico sulle montagne di Cogne
fotografato da Derrick
Cosa succede tra due mercati collegati?
Succede che quello con i prezzi interni più bassi esporta. E così, il flusso dell’energia tra Italia e Francia si è recentemente spesso invertito rispetto al solito, rendendo l'Italia esportatrice.

Un altro effetto dell'interconnessione tra mercati è che i prezzi tendono ad allinearsi, alzandosi nel mercato che esporta e abbassandosi in quello che importa.
E così anche la battuta che facevo prima riguardo ai francesi s’inverte: chi normalmente da noi si lagna del fatto che importiamo elettricità sarà felice di pagarla più cara nei periodi in cui la esportiamo

I Radicali dai tempi della prima strategia energetica nazionale (ora in procinto di essere aggiornata), ma soprattutto da quelli di Chernobyl con Marco Pannella, sostengono che il nucleare non è una soluzione conveniente per produrre elettricità, e l’esperienza recente sembra dar loro ragione. Centrali con enormi costi di investimento, poco flessibili e scarsamente gestibili in una logica di mercato, e pressoché mai finanziabili senza garanzie pubbliche.
La Francia e i suoi consumatori stanno pagando care le difficoltà tecniche ed economiche di rinnovare il proprio parco, che è vecchio e può continuare a funzionare solo a fronte di verifiche severe da parte della locale autorità per la sicurezza nucleare.
(Una parte importante dei problemi di adeguatezza produttiva francese è emersa anche a causa della rigidità dell'inverno 2017, che ha aggiunto alla domanda elettrica quella da riscaldamento. La punta di consumo transalpina avviene infatti in inverno e non a luglio come da noi per i condizionatori, con un picco di domanda complessivo quasi doppio del nostro, che senza riscaldamento elettrico sarebbe invece più o meno allineato).

Ebbene, come reagisce il nostro sistema elettrico, fortemente interconnesso a oltralpe, a questo scenario?
Usando le flessibilità che a differenza di altri ha a disposizione: centrali a gas che possono accendersi usando la notevole capacità di importazione del gas di cui l’Italia dispone e di cui disporrà sempre di più stando agli investimenti già in corso di attivazione. La conseguenza è come abbiamo visto un incremento dei prezzi italiani di breve periodo sia dell’elettricità sia del gas, non però quanto quelli francesi nei momenti di scarsità. Addirittura il 24 gennaio 2017 perfino in Germania i prezzi hanno per un po’ superato i 100 Euro al MWh, mentre in Italia la media nazionale si è assestata in quel periodo poco sopra gli 80 Euro/MWh.

Insomma, i fatti dell'autunno-inverno 2016-2017 sembrano dar ragione alla strategia energetica italiana, che ha puntato su gas e flessibilità, oltre che sulle rinnovabili.
Ci si può aspettare che anche in futuro ci sia spazio perché l’Italia operi come esportatrice d'elettricità? Guardando i prezzi a termine (cioè dei contratti finanziari o fisici riferiti all'elettricità in Italia nei prossimi anni) si direbbe, al momento di questo articolo, di no.
Il motivo è che almeno per un po' il sistema produttivo elettrico italiano continuerà ad avere costi variabili (che non vuol dire totali) più alti rispetto a quelli dei Paesi vicini.

D'altra parte è vero che i prezzi a termine nel periodo di questo articolo continuano a essere bassi per l’Italia, per esempio nella principale borsa elettrica europea (la tedesca EEX), indicando aspettative di scarsa domanda futura per la produzione italiana. E prezzi a termine bassi sono un'opportunità di arbitraggio che qualcuno dall'estero potrebbe cogliere di qui ai prossimi anni comprando contratti d'energia in Italia. Ma si tratta di indicazioni di prezzi futuri basate su piccoli volumi scambiati, che potrebbero quindi rivelarsi poco significative.

Di certo, i tempi del blackout (quello nazionale intendo, e non mi riferisco al recente disastro delle reti abruzzesi sotto la neve) sono molto, molto lontani.


Aggiornamento: verso l'inverno 2017-2018


Gl’indizi per l’inverno 2017-18 sembrano andare nella stessa direzione del precedente, anzi peggio, a causa della siccità non solo estiva, ma anche fino a tutto il mese di ottobre 2017, che affligge i bacini idroelettrici alpini e ancora di più quelli appenninici. A settembre i primi, come ha scritto Jacopo Giliberto sul Sole 24 ore il 2 novembre 2017 riportando dati Terna, erano riempiti a poco più della metà della loro capacità idrica, e i secondi a poco più di un terzo, record negativo dal 1970.

Questo significa che al possibile picco di importazione da parte della Francia nel 2018 l’Italia potrebbe essere meno preparata a causa della minore capacità idroelettrica.
Va molto meglio nel settore della generazione a gas, dove le centrali termoelettriche, così come tutti gli utilizzatori di gas naturale in Italia, possono contare su una batteria di stoccaggi geologici pressoché pieni fino all'autunno 2017, cioè all’inizio della stagione di erogazione, quella in cui i serbatoi iniziano a dare gas anziché riceverlo come in estate.
E sarà capacità di cui c’è bisogno, visto che in Francia gli interventi ad alcune delle centrali nucleari al momento di questo articolo ferme stanno prendendo più tempo del previsto, compresi quelli in una diga nei pressi dell’impianto di Tricastin, a nord di Avignone. Un impianto di un migliaio di MW di potenza costruito negli anni ’70 e operativo dagli ’80, già teatro di due incidenti relativamente gravi nel 2008, con perdita nell’ambiente di uranio e di particelle radioattive. In seguito ai quali un consorzio viticolo della zona ottenne di togliere il toponimo “Tricastin” dal suo vino per contrastare il calo delle vendite successivo agli incidenti.