martedì 30 ottobre 2012

La speculazione - Parte 1 - D136

 Cosa diavolo è la speculazione? È pieno di politici e intellettuali che la esecrano. Soprattutto se si tratta di "speculazione finanziaria". In questa e altre puntate di Derrick speciale economia proverò a fare una carrellata di posizioni che ho sentito riguardo al termine. Mi muoverò in libertà, saltabeccando tra punti di vista che mi sembrano rilevanti.

Credo che la parola speculazione venga da specola, osservatorio, luogo da cui si cerca di vedere lontano. I dizionari definiscono speculazione, in economia, l'attività tesa a trarre vantaggio dalla previsione del valore futuro di un bene (attività che, per inciso, può andar bene o male, cioè far guadagnare o perdere chi la fa) e, in senso esteso, i dizionari definiscono speculazione lo svolgimento di questa attività senza scrupoli.
Renato Brunetta intervistato da Radio Radicale nel settembre 2012 ha detto che il problema del costo del debito pubblico italiano c'è solo a causa della speculazione. A Brunetta vorrei chiedere: se un'organizzazione è talmente indebitata da essere a rischio di non restituire i soldi, è così strano che dipenda dagli umori dei finanziatori? Io, se presto soldi a uno, valuto la probabilità che me li restituisca prima di decidere le condizioni.

I sostenitori del complotto sui titoli di Stato deboli dell'area Euro dicono: e gli Stati Uniti allora? Anche loro hanno numeri da insolventi, eppure pagano poco il debito, grazie alle loro agenzie di rating che attaccano il debito europeo. Vero, le agenzie di rating americane non hanno contraddittorio. Ma chi vieta la nascita di altre agenzie di rating che competano in credibilità? Non solo: sono proprio le nuove norme bancarie europee che hanno istituzionalizzato il valore del rating delle agenzie esistenti nella valutazione del rischio di portafoglio delle banche, come ha notato tra gli altri Oscar Giannino intervenendo a Vedrò 2012.
In un suo articolo su Il Sole 24 Ore, Guido Rossi ha contrapposto la speculazione finanziaria addirittura allo Stato di diritto Europeo, e in un altro afferma che le grandi società per azioni, finalizzate alla sola ricerca del profitto, stanno acquisendo un sinistro controllo sugli stessi governi, sovvertendo gli equilibri democratici.
Allora mi chiedo: cosa dovrebbero fare le Spa anziché perseguire il profitto, cioè la remunerazione degli azionisti? Dove inizia quella mancanza di scrupoli che ci fa passare all'accezione negativa del termine "speculazione"? Da liberale, tenderei a dire che il confine è il rispetto delle regole stabilite dalle istituzioni democratiche.

Se una S.p.A. (o una banca) persegue finalità diverse dal profitto, è verosimile che qualche suo azionista di controllo (fondazioni nel caso delle banche italiane) sia d'accordo nella definizione di questo interesse e ne tragga quindi vantaggio, mentre gli azionisti di minoranza, che ingenuamente mirano ai soli dividendi, sono fregati. Questo l'ha evidenziato Luigi Zingales con un intervento secondo me rivoluzionario a un convegno in cui ha interrotto il numero uno di Banca Intesa Bazoli, il tutto ripreso da uno splendido articolo sul Fatto Quotidiano di Giorgio Meletti lo scorso settembre [2012].
Se Zingales ha ragione, che una S.p.A. persegua fini diversi dal profitto può solo preoccupare, perché sposta la concorrenza delle aziende su un piano opaco.

lunedì 15 ottobre 2012

Derrick Economia – La proposta Giavazzi di tagli dei trasferimenti alle aziende

Nel luglio 2012 il prof. Giavazzi ha presentato al Governo un'analisi dei contributi pubblici alle imprese, e una proposta di come potrebbero essere ridotti. Sarebbero circa 10 miliardi all'anno i sussidi da eliminare per il bene dell'economia, con la prospettiva, se si usano quei soldi per ridurre la pressione e in particolare il cuneo fiscale, di aumentare il pil a regime dell'1,5%.
I trasferimenti eliminati comporterebbero sì un danno immediato per chi subisce il taglio, ma aumenterebbero il reddito complessivo. E su questo Giavazzi è confortato anche da un altro recente studio di Prometeia.

Il documento deve aver avuto una certa influenza visto che, per esempio, al recente congresso della Lega, il segretario Maroni e il presidente di Confindustria Squinzi la pensavano proprio come Giavazzi e i suoi e chiedevano meno tasse in cambio della rinuncia ai sussidi. E ancora più chiaro è stato Luigi Zingales che a un incontro di Fermare il Declino a Milano per dire come la pensa ha parafrasato così una frase che di solito si trova scritta negli zoo: "Vietato dar da mangiare alle aziende".
Curioso allora che un soggetto apparentemente poco interessato a far uso dei suggerimenti di Giavazzi sia proprio il Governo che lo studio l'ha commissionato.

Commenti introduttivi a parte, ecco i punti salienti del documento secondo Derrick:

-      Intanto si apre con quello che gli anglosassoni chiamano un disclaimer. Gli estensori, sta scritto, non hanno avuto sufficiente accesso alle informazioni per fare stime precise dei contributi tagliabili. Curioso che studiosi al servizio del Governo trovino ostacoli nell'accesso ai numeri dello stesso Governo, ma è anche vero che gran parte degli aiuti è erogata dagli enti locali. In ogni caso la parziale abdicazione di Giavazzi forse è indicativa dello stato della burocrazia e della trasparenza dalle nostre parti.

-      Quanto valgono i trasferimenti a imprese? 36 mld di euro nel 2011 secondo il bilancio consolidato di cassa del settore pubblico, e senza contare le agevolazioni fiscali (altri 30 mld secondo un precedente studio della Commissione Ceriani), che vanno soprattutto al settore trasporti (11,5 miliardi circa nel 2010) e a quello agricolo (4,5).
E non ci sono nemmeno dentro i sussidi che passano per il sistema delle tariffe energetiche. Di cui Giavazzi sembra consapevole solo in parte. Lo studio infatti cita i sussidi alle fonti rinnovabili di produzione di energia elettrica (oggi dell'ordine dei 10 miliardi anno), ma dimentica il sistema di aiuti a pochi consumatori energivori industriali in settori perlopiù maturi, che includendo il cosiddetto CIP6 a fonti non rinnovabili valgono una cifra dell'ordine dei 5 miliardi all'anno e pesano sulle bollette in particolare di piccole aziende e famiglie.

Che fare dunque? Secondo lo studio, dei trasferimenti conviene eliminare (in coerenza con DL 1/12 del Governo) quelli che:

1.      non servono a risolvere i cosiddetti fallimenti del mercato (un esempio di fallimento del mercato è l'insufficiente produzione di un bene rispetto a quanto convenga all'economia nel suo complesso). E non è detto, poi, quand'anche un trasferimento sia efficace nel risolvere un fallimento del mercato, che esso sia la soluzione giusta. Per esempio anche le norme sui brevetti possono incentivare un aumento di spesa privata in ricerca e sviluppo

2.      hanno costi amministrativi superiori ai benefici per i percettori

3.      non sono efficaci a superare situazioni di sottosviluppo locale, perché non generano di fatto un aumento di attività dei beneficiari. (E l'evidenza empirica dice che questa è una situazione comune, soprattutto nel caso di contributi a bando).
     
Il testo si chiude con uno schema di norma di iniziativa governativa per attuare i tagli, che si è nel frattempo evoluto in un'ulteriore versione di lavoro cui Derrick ha avuto accesso e a cui si riferiscono quindi le osservazioni seguenti:

o   La proposta è di eliminare aiuti a imprese non giustificati da fallimenti del mercato e di subordinarli in ogni caso al requisito di effettiva addizionalità e di controllo delle prestazioni.
o   L'autorità antitrust acquisirebbe un ruolo di controllore delle azioni di abrogazione delle norme sui trasferimenti da parte delle Regioni.
o   Eccezione all'eliminazione è prevista per alcuni servizi pubblici obbligatori in particolare nei seguenti settori, e limitatamente all'effettivo perseguimento del servizio pubblico: istruzione e ricerca, sanità, assistenza sociale, trasporti

Una delle conseguenze di un'applicazione così correttamente selettiva delle esclusioni è la necessità di segregare ciò che è servizio pubblico e ciò che sta sul mercato senza bisogno di supporto. Sarà interessante per esempio il caso delle Ferrovie dello Stato, che hanno ricevuto nel 2011 secondo il documento 2,9 miliardi, e che oggi gestiscono con scarse garanzie di separazione sia attività in monopolio e di natura pubblicistica – come la rete e alcuni servizi minimi garantiti – sia attività in piena concorrenza con altri operatori, come l'alta velocità). È evidente che il rischio di sussidi incrociati opachi tra servizio pubblico e mercato è critico, con potenziali conseguenze nefaste sulla concorrenza.

Altra eccezione ai tagli nei trasferimenti alle imprese, piuttosto critica e nello stesso tempo probabilmente inevitabile, la si trova nelle disposizioni transitorie della norma proposta, e riguarda interventi previsti da norme, quand'anche abrogate, la cui realizzazione sia già in corso o i cui atti di impegno siano già stati deliberati. (E qui ci vorrebbe un amministrativista per spiegare a Derrick e agli ascoltatori cos'è un atto di impegno. Si accettano candidature).

È forse la difficile quantificazione dei trasferimenti esclusi dai tagli (del resto assente anche nel lavoro di Giavazzi) il tallone d'Achille della proposta, che l'ha resa per ora inattuata? Oppure il Governo non ha la volontà politica di procedere, e preferisce affievolire i lampioni? A Derrick invece piacerebbe vederci più chiaro.