domenica 26 aprile 2015

DEF e riforma fiscale ecologica - D238

La Commissione Ambiente della Camera ha espresso il 21 aprile 2015 parere favorevole al DEF, soggetto a condizioni tra cui l’adozione delle misure di fiscalità ambientale previste nella Legge Delega fiscale (legge 23 del 2014, art. 15) che a Derrick abbiamo ampiamente trattato, a partire da questa puntata del 2013.

La delega, nell’indicare la riforma ecologica del fisco, usa parole a tratti un po’ generiche e confuse in accozzaglie di giustapposizioni che sembrano più un tentativo di mettere d’accordo tutti che di scrivere direttive applicabili, come capita spesso alle nostre leggi. Tuttavia ci sono anche richiami specifici come quello a una carbon tax, che in passato in Italia c’era ma che è stata tolta anni fa come abbiamo raccontato in precedenza.

Raccontammo anche che la riforma prevista nella Delega ha un tallone d’achille esiziale: si richiama a una direttiva europea in lavorazione che però l’attuale Commissione Europea Junkcer ha congelato. Per questo ora il parere della commissione ambiente al Governo è importante: perché esprime la necessità di procere indipendentemente dalla direttiva UE sulla tassazione dei prodotti energetici.

La stessa commissione della Camera, però, ha respinto la risoluzione del M5S che chiedeva anche l’eliminazione dalle bollette dell’energia dei sussidi alle fonti fossili e ai grandi consumatori. Un’estensione invece opportuna quella tentata dai Cinquestelle, visto che la portata della parafiscalità in bolletta è crescente e che tipicamente aggira la discussione politica sul fisco. Infatti con le bollette si fanno perequazioni, politica industriale, si elargiscono sussidi proprio come con le tasse.

E poi com’è andata al DEF nella plenaria parlamentare? Entrambi i rami l’hanno approvato con una risoluzione che stando ai commenti che leggo prevede di procedere alle riforme fiscali previste nella delega. Inclusa quindi la revisione ecologica. Peccato che io non sia riuscito a trovare per ora nei siti istituzionali il testo della risoluzione.

Insomma il Parlamento ha ribadito al Governo la richiesta di cambiare il fisco per renderlo più coerente agli obiettivi di politica ambientale peraltro già condivisi. Il Governo per ora non ha fatto nulla, ma l’annuncio del Green Act fa ben sperare. Nel frattempo, significativamente, sono 43 grandi aziende europee, compresa l’Enel che tra le sue attività ne ha anche ad alta intensità di emissioni-serra, a chiedere ai legislatori politiche più coerenti per la decarbonizzazione, anche attraverso l’esplicitazione dei costi ambientali delle emissioni. Leggasi: carbon tax.

Perché lo fanno queste aziende? Lo spiega efficacemente Giovanni Battista Zorzoli su Staffetta Quotidiana: perché fare fughe in avanti aziendali verso la sostenibilità – per quanto encomiabili - è meno razionale e più oneroso che avere regole valide erga omnes. In altri termini: il legislatore e i Governi non possono sancire l’obiettivo di decarbonizzare l’economia e poi fornire segnali contraddittori, come i sussidi alle attività che danno un contributo negativo a quello stesso obiettivo.

Altrimenti le imprese virtuose rischiano d’esser fatte fesse.

La lettera dei 43 AD sulle politiche ecologiche (dal sito di QualEnergia, in inglese) è qui: http://www.qualenergia.it/sites/default/files/articolo-doc/Open%20letter.pdf

L’articolo di G.B. Zorzoli su Staffetta Quotidiana (a pagamento), qui:

martedì 21 aprile 2015

La guerra dei sussidi (ennesima) - D237

Oggi ci aggiorniamo su una delle storie senza fine che Derrick ha sempre seguito: la guerra dei sussidi alimentati dalle bollette dell’energia. Tempo fa avevo dato notizia delle proteste di aziende non manifatturiere contro una norma di legge che attribuisce alle aziende energivore del solo manifatturiero il diritto di avere sconti sull’energia a spese di tutte le altre bollette.

Gli aggiornamenti partono da fine 2014 quando il TAR di Milano ha rigettato il ricorso di un gruppo di aziende della grande distribuzione contro le norme dell’Autorità per l’Energia attuative di questa discriminazione. Il TAR scrive che la logica sottesa, presente anche nelle norme europee, è difendibile, perché identifica correttamente nel manifatturiero l’ambito dei settori sottoposti a concorrenza internazionale. E quindi alla perdita di competitività dovuta al fatto che in altri Paesi le bollette non subiscono gli aggravi dovuti alle politiche ambientali europee che pesano invece sulle bollette interne. Inoltre, sentenzia il TAR, non si capisce in che modo la grande distribuzione italiana, che opera in un mercato invece locale, dovrebbe essere danneggiata dalla mancata partecipazione al sussidio per energivori.

Stanno in piedi queste argomentazioni del TAR? Poco. È vero che l’Europa ha introdotto il principio dei sussidi energetici per chi compete internazionalmente, ma è anche vero che farne coincidere il novero col manifatturiero è una semplificazione grossolana. E poi sì che c’è distorsione della concorrenza discriminando i sussidi tra settori: anche quella è concorrenza.

Un articolo di Gionata Picchio direttore di Staffetta Quotidiana del 16 aprile 2015 dà conto di una decisione in senso diverso di un altro tribunale amministrativo: la VI sezione del Consiglio di Stato. Tutto nasce da un ricorso, simile a quello della grande distribuzione, da parte di Fondazione Santa Lucia, nel settore della sanità.

Il consiglio di Stato in questo caso ha deciso di chiedere aiuto, per la propria decisione, alla Corte di Giustizia europea, riguardo a due punti:

1)      Se la direttiva europea sulla tassazione dell’energia – che permette gli sgravi agli energivori - riguardi anche gli oneri parafiscali delle bollette, su cui si applicano gli sconti di cui stiamo parlando;

2)      se gli Stati membri abbiano diritto di applicare questi sussidi in modo selettivo per singoli gruppi d’aziende.

Sono aspetti molto interessanti, nell’ambito della politica industriale in bolletta. Speriamo la corte risponda presto.

mercoledì 1 aprile 2015

Intervista per Nuova Energia 2/2015

Intervista a Michele Governatori apparsa su Nuova Energia 2/2015

Tempo fa in Italia, nell’energia si parlava di colli di bottiglia che ne frenavano una vera liberalizzazione. A che punto stiamo?
Se parliamo di colli di bottiglia fisici, e in particolare di vincoli alle interconnessioni con l’estero di gas ed elettricità, direi che la situazione per quanto riguarda l’Italia continua a migliorare non solo per il trend di aumento, anche in prospettiva, della capacità fisica, ma anche perché i prezzi italiani all’ingrosso, oggi più vicini a quelli europei, hanno reso più bassa la perdita di benessere economico dovuta ai vincoli residui. Inoltre, nell’elettricità il market coupling partito quest’anno permette uso più efficiente della capacità disponibile.
Le cose vanno meno bene internamente, dove è sempre complicato fare nuove linee elettriche e dorsali gas. Se guardiamo alla nuova interconnessione elettrica Calabria-Sicilia, ancora bloccata, è triste dover constatare che i prezzi dell’isola e del continente si sono sì avvicinati molto rispetto al passato (e questo è un bene per i consumatori), ma attraverso un intervento dirigistico che ha reso sostanzialmente amministrata la remunerazione delle centrali siciliane.
E poi ci sono i colli di bottiglia nel disegno di mercato, ancora più gravi, ma ne parliamo dopo.

È davvero iniziata una ripresa dei consumi energetici nel nostro Paese? E questo significa che possiamo stare tutti più tranquilli, oppure...
I dati recentissimi di ripresa nell’elettrico sembrano mostrare aumenti di consumi simili a quelli del PIL. Quindi probabilmente siamo di fronte a un effetto fisiologico di ripresa indotta da quella dell’economia. Quest’ultima però è una ripresa debole, soprattutto se confrontata con l’eccezionalità delle misure di politica monetaria per stimolarla (il QE) e del contesto favorevole (petrolio a buon mercato, Euro deprezzato).
Dubito poi che vedremo un aumento dell’intensità energetica del sistema (cioè del rapporto tra consumi di energia e PIL), credo anzi che gli effetti permanenti della crisi, che corrisponde a un’evoluzione dolorosa ma per certi versi anche sana dell’economia, stabilizzeranno al ribasso l’intensità energetica a causa della selezione di aziende a maggior valore aggiunto e quindi con minore incidenza degli acquisti energetici in rapporto al valore della produzione. A questo si aggiungono gli effetti delle politiche di efficienza che credo soprattutto nei consumi domestici e del terziario stiano dando risultati strutturali. Io stesso consumo in modo molto diverso rispetto a quando avevo lampade a incandescenza, una caldaia senza condensazione dei fumi e finestre a maggiore trasmittanza, e non tornerò indietro.
C’è, per l’altro verso, una prospettiva rilevante di concorrenza tra fonti di energia, che potrebbe avvantaggiare l’elettrico (soprattutto grazie a pompe di calore e auto elettriche) a meno che non prendano piede tecnologie di microgenerazione diffusa a gas.
Per finire la risposta: un’azienda di mercato credo non possa stare mai tranquilla. O “imbrocca” la sua visione del futuro e vi trova uno spazio coerente, o non guadagnerà.

L’Europa dell’energia non sembra procedere a passo spedito…
Siamo abituati a sentirci dire che il mercato unico non è completo e che tanti Paesi sono in ritardo nell’applicazione delle direttive mercato. Che è per molti versi vero. Ma è anche vero che l’UE, pur in una fase di debolezza della Commissione rispetto ai Governi e che spero si superi con la gestione Juncker, è ancora il motore principale delle istanze pro mercato. Basta vedere la procedura d’infrazione in corso nei confronti dell’Italia riguardo all’applicazione del terzo round di direttive mercato, che tocca aspetti decisivi come l’unbundling tra gestione delle reti e vendita di energia anche a livello locale e l’autonomia dell’Autorità di settore.
E ancora: il coupling dei mercati del giorno prima ormai compiuto in gran parte dell’Europa occidentale (e non solo) è un risultato importante di integrazione. Certo ci sono incognite riguardo all’integrazione dei mercati del bilanciamento e di quelli – nascenti – della capacità, e c’è stata la resa molto grave proprio di Juncker riguardo all’armonizzazione della fiscalità energetica.
Ma nel complesso ho l’impressione che sia ancora l’UE a dare il “la” ai mercati liberalizzati.

Il crollo del prezzo del barile sta mettendo in difficoltà il settore shale. Che cosa sta cambiando?
Credo stia avvenendo, in modo particolarmente repentino, una cosa fisiologica nel settore oil&gas: l’alternanza di momenti in cui il prezzo della commodity giustifica investimenti massicci con altri in cui accade il contrario. A questo si aggiunge il cambio del trend della domanda dovuto credo in parte a cambi tecnologici nell’uso dell’energia e, soprattutto, al rallentamento della crescita globale, dovuta all’andamento dei Paesi che ci avevano abituati a uno sviluppo più rapido. È un sistema che si autoregola ma che richiede spalle larghe da parte degli investitori. Le risorse minerarie sono destinate a diventare scarse e scarsissime nel lungo periodo, ma questo ha poco a che fare con la loro scarsità di breve che dipende dalla capacità produttiva installata in un determinato momento (una cosa che incredibilmente i fan della teoria del picco del petrolio non afferrano). Mi aspetto che la produzione di shale per qualche tempo resterà alta, perché il boom di investimenti (eccessivo secondo i critici che parlano di “bolla shale”) ha portato a una capacità estrattiva che conviene far funzionare finché i prezzi della commodity sono superiori ai soli costi operativi di estrazione. Per questo ci potrebbe volere del tempo prima che i prezzi oil&gas inizino a fornire di nuovo un segnale di scarsità.

Torniamo nel nostro Paese. Il settore dell'energia, almeno in Italia, sembra essere piuttosto conflittuale. Qualsiasi provvedimento, delibera, decisione, venga annunciato... c'è sempre qualcuno che si sente danneggiato. Ma è davvero così difficile mettere d'accordo le varie componenti?
Non credo che la conflittualità sia necessariamente un problema. Che ci siano interessi contrastanti è normale, il punto discriminante piuttosto è con quanta efficacia e trasparenza un sistema riesce a contemperarli. La definizione diritti acquisiti l’ho sempre trovata poco utile, e qualche volta viene usata a sproposito intendendo la più vasta categoria delle aspettative acquisite. Tecnicamente un contratto o una convenzione a tempo determinato sono sì diritti acquisiti, ma non lo è per esempio l’aver confidato nell’immutabilità delle norme. Uno che investe deve avere un’idea del futuro, e se questa gli potesse essere garantita non chiameremmo “di rischio” il capitale che lui ci mette: gli investimenti possono andare male.
Se mi consenti di allargarmi un po’ nella risposta, io credo che in Italia noi abbiamo un concetto di politica industriale fatta di stampelle alle aziende in crisi anziché di idee strategiche di futuro e aiuto alle imprese che devono nascere per realizzare quel futuro. Einaudi diceva che un’economia di mercato ha bisogno della sanzione (il fallimento) per le imprese “male gerite”. Io aggiungerei anche per quelle che hanno sbagliato le scommesse. Solo così le loro risorse (persone, capitali) possono liberarsi e rientrare nel circolo dell’economia.
Tornando all’energia: il legislatore e l’Autorità hanno il dovere di cambiare le regole quando ritengono sia necessario, condividendo quando è possibile in anticipo le direttrici strategiche con cui lo fanno. Condivisione che l’Autorità dell’energia fa nei documenti di consultazione, ma con un piglio che trovo troppo burocratico, e che il Governo ha fatto con un documento importante ma poi apparentemente snobbato e quasi abbandonato: la strategia energetica nazionale. Infine: probabilmente non ha molto senso che norme di settore vengano sfidate da tribunali amministrativi e con esiti che derivano da ragioni spesso formali. Un altro sistema, una sorta di arbitrato istituzionale di settore, magari sarebbe meglio, ma come?

Oggi sembra che tutto ciò che ruota attorno al mondo dell'energia debba essere preceduto dal prefisso smart, altrimenti è da buttare. Ha davvero senso parlare di smart energy?
È vero! Non se ne può più. Se io avessi il coraggio di fare l’imprenditore in questo settore (uno dei sogni irrealizzati della mia vita, come quello di diventare un bravo jazzista) sceglierei una ragione sociale, tanto per distinguermi, del tipo Energia Gonza. Scherzi a parte: se una cosa è davvero intelligente non dovrebbe servire autodichiararla tale perché ce ne si accorga.
Poi, lo scrive anche l’Autorità in una sua recente consultazione: se li dobbiamo pagare in tariffa, bisogna valutare analiticamente dove stanno i vantaggi dei progetti “smart”. Se sono progetti di mercato, invece, dovrebbe valere quella sana selezione naturale di cui dicevo prima.
Una cosa che si sente di continuo preconizzare è l’opportunità di stoccare energia di fonte rinnovabile verde per superare i vincoli di dispacciamento. Magari facendone idrogeno, o addirittura nei casi più fantasiosi molecole di sintesi in grado poi di ri-liberare energia. Peccato che a volte si consideri l’obiettivo di produrre tutto il producibile come un postulato indipendente dai costi. Ricordo l’analisi costi-benefici che fece Terna anni fa per giustificare l’investimento in batterie sulla rete di trasmissione elettrica: partiva dal presupposto che si dovesse azzerare subito l’energia verde non dispacciata (che oltretutto era già poca). Una dichiarazione di missione costi quel che costi, più che un’analisi costi-benefici. Per fortuna l’Autorità poi si è attivata per correggere almeno in parte l’impostazione.

Questo è anche l'anno dell'EXPO. Qualcuno ha detto che il tema energia – salvo soprese – è stato considerato solo di sponda e senza lo spazio che avrebbe meritato. Dunque, un'occasione persa? Cosa ne pensi?
Io credo che il tema cibo sia un bel tema, non concordo con i detrattori che lo vedono come un settore troppo tradizionale o “arretrato”. Ho l’impressione che stiamo assistendo a un cambio economico-culturale, per cui gli strumenti di frontiera oggi percepiti come più utili ad aumentare il nostro benessere siano da un lato più immateriali, e dall’altro più legati alla salute e alla sostenibilità in generale, e il cibo di qualità richiama questo concetto. Anche l’energia è influenzata da questo trend e il “consumare meglio”, almeno in alcune fasce di clienti, sta diventando un’esigenza sempre più percepita. È una moda? In parte forse sì, ma non per questo è meno rilevante. Una moda è pur sempre il segno di un desiderio da soddisfare e per cui si è disposti a pagare. Io, per esempio, pagherei per un sistema di domotica energetica, e pagherei probabilmente più soldi rispetto ai risparmi che mi comporterebbe. Sono sciocco? Può darsi, embè? Sono un consumatore libero: il portafogli è mio e me lo gestisco io…

Lo scorso 13 aprile si è svolto a Milano il convegno annuale di AIGET. Quali sono gli spunti più interessanti che sono emersi? C'è stata qualche proposta, qualche idea o qualche intervento che ti hanno colpito in particolare?
In Aiget stiamo facendo uno sforzo pazzesco per portare avanti le istanze del mercato, in un contesto di arroccamento (comprensibile ma dannoso al sistema) degli operatori con business regolati e di quelli con posizioni di dominanza. Noi crediamo che se vogliamo tenere basse le bollette e alta la qualità del servizio al cliente l’unica risposta che funziona è la concorrenza efficace. Al convegno, che è corrisposto al lancio del position paper 2015 disponibile sul sito dell’Aiget, abbiamo posto l’accento soprattutto sulla necessità di far funzionare i mercati organizzati a pronti e a termine del gas e di realizzare un unbundling efficace tra distribuzione e vendita di elettricità e gas. Quest’ultima è una condizione indispensabile a garantire una concorrenza equa tra tutti i venditori, e deve passare attraverso una terziarizzazione delle informazioni utili all’acquisizione dei clienti (tramite il Sistema Informativo Integrato di Acquirente Unico) e attraverso un network code che regoli in modo corretto il livello di servizio dei distributori in modo che ne aumenti la qualità e soprattutto che sia omogenea rispetto a tutti i venditori e senza vantaggi impropri per gl’integrati. Oggi, paradossalmente, per alcuni versi i venditori, che fanno un business libero, sono più regolati dei gestori di rete che fanno un business regolato. Per esempio: le bollette di un venditore ad alcune categorie di clienti sono dettate dalle norme, mentre non lo sono i sistemi informatici con cui i distributori forniscono i dati di consumo.
Tra le cose più interessanti uscite nel convegno mi sembra ci siano la convergenza tra i presidenti dell’Autorità Energia e di quella Antitrust riguardo alla necessità dell’unbundling funzionale e di brand a livello retail, e le rassicurazioni da parte di GME e Snam Rete Gas riguardo allo stato di avanzamento del nuovo mercato del bilanciamento gas.

Il tema dell'incontro è stato: “clienti, concorrenza e regole”. Prova a dare un voto ai primi, come ai tempi della scuola. Li promuoveresti?
Ai clienti di sicuro do 10, perché senza di loro non ha senso nulla del nostro lavoro in questa e altre filiere. Però, lo ammetto, è un voto con una componente di adulazione. Magari direi anche loro, benevolmente, che devono accettare un po’ di impegno in più nella difesa attiva, e non passiva e troppo delegata, dei propri interessi. Nello stesso tempo noi fornitori dobbiamo imparare a non abusare della loro disponibilità e dobbiamo cooperare perché ci siano regole del gioco che rendano i più difficili possibile i comportamenti commerciali scorretti.
Senti questa: qualche settimana fa a colle Oppio a Roma ero a una festa in una bella casa tra intellettuali del mondo della scrittura narrativa (un mondo in cui ho avuto la fortuna di affacciarmi in una fase precedente della mia vita) e mi trovavo in un poggiolo dove alcuni si erano assiepati per fumare. Lì chiacchieravo tra gli altri con lo scrittore modenese Ugo Cornia (Sellerio, Feltrinelli) che si ricordava vagamente di me come narratore di scarso successo e mi chiedeva come mi pagassi oggi da vivere. Quando gliel’ho detto, lui mi ha raccontato subito il fastidio con cui rifugge i venditori di energia e telefonia che lo ammorbano di continuo per fargli cambiare contratto. La sua reazione mi ha colpito e fatto riflettere: ai clienti dobbiamo chiedere sì più attenzione e consapevolezza, ma nemmeno possiamo pensare di bombardarli, men che meno se con scarsa qualità informativa.

La soluzione non saranno mica le tariffe di tutela?
Giammai! Quelle ritardano la maturazione del mercato, perché producono sussidi incrociati e deresponsabilizzano i clienti. È il mercato stesso – con le regole giuste certo – che può fornire forme di intermediazione tali da rendere comunque semplice l’accesso a un prodotto/servizio complesso da parte di clienti senza ricorrere a nessuna forma di tariffa amministrata (quand’anche basata su indicatori di mercato). Pensiamo ai mutui o alle assicurazioni. È facile sceglierli? No, sono prodotti relativamente complessi la cui valutazione richiede informazioni riguardo alle quali il cliente patisce uno svantaggio rispetto a fornitore. Però esistono servizi di confronto nati spontaneamente proprio per colmare la necessità informativa e di semplificazione. Simili strumenti, uniti all’eventuale aggregazione non forzosa dei clienti e a obblighi informativi efficaci da parte dei fornitori, anche basati su benchmark o indicatori obbligatori, possono essere la risposta per rendere facile e sicura la scelta di un prodotto complesso come quello dell’energia.
Certo, il mercato sottostante deve essere competitivo, altrimenti il cliente non risparmia. Stando al decreto Competitività, abbiamo quasi tre anni per sistemare le cose che non vanno, e fare in modo che i clienti dell’energia, tutti sul mercato libero, guadagnino ulteriormente dal mercato.

Una domanda di carattere più aziendale, legata al tuo ruolo di direttore affari istituzionali e regolatori in Axpo Italia. La vostra è una delle poche realtà straniere che sembra non essersi pentita della scelta di investire sul mercato italiano. Quale il segreto?
Le multinazionali sono entità complesse e non certo costituite da una sola anima tra Paese e Paese. Hanno all’interno culture diverse e il loro successo dipende anche dalla capacità di farle dialogare, cosa in cui la mia casa madre credo abbia in generale fatto bene grazie a un atteggiamento poco “coloniale” come in altri casi invece capita, e anzi puntando sull’autonomia dei manager dei vari Paesi e mercati. E anche in Italia i risultati in termini di redditività sono arrivati, anche se poi messi a dura prova dalle perdite sulla generazione elettrica. Io credo che il segreto, che naturalmente non è tale, è assumere e far crescere gente bravissima. Punto. Nessun investimento paga quanto essere selettivi nella scelta dei collaboratori (e di conseguenza dei capi, se il sistema di carriere interne è agile come è stato in Axpo Italia dove l’attuale direttore generale mercato è arrivato a questa posizione dall’interno grazie alle sue capacità). Io stesso, nel mio piccolo team, se ho ottenuto dei risultati di cui essere contento è perché ho avuto con me persone piene di qualità, e quando ho a che fare con i colleghi del business (quasi tutti a Genova nel caso di Axpo Italia), di norma giovanissimi e con CV di studi di eccellente livello, capisco perché siamo una bella azienda. Quindi per me la prima capacità che serve a un manager è promuovere la meritocrazia tra i suoi collaboratori, assumendosene la responsabilità. Non è affatto una cosa facile e scontata: bisogna scontrarsi con una mentalità diffusa del “vogliamoci bene” che inevitabilmente diventa anche protezione della mediocrità.
Il che si lega, in riferimento alla discussione politica, a quello che per me è un fraintendimento della nostra stessa Costituzione: diritto al lavoro non può voler dire diritto al posto di lavoro indipendentemente dalle proprie capacità. Certo che dobbiamo realizzare la solidarietà a livello sociale e aiutare chi non ce la fa, ma per progredire come economia e avere un futuro di benessere non possiamo fare sconti alla concorrenza tra professionisti, così come tra aziende.