martedì 25 dicembre 2012

D143/144 - I numeri del World Energy Outlook 2012

Lo scorso venerdì 14 dicembre 2012 il Ministero dello Sviluppo Economico ha ospitato nella sua sala degli arazzi in via Veneto a Roma una presentazione dell'appena uscita edizione 2012 del World Energy Outlook, il ponderoso e prezioso annuario mondiale dell'energia edito dall'International Energy Agency di Parigi, d'ora in poi IEA, agenzia partecipata dai paesi Ocse e con collaborazioni anche al di fuori dell'area Ocse.

A presentare l'annuario c'era il capo economista della IEA, Fatih Birol, e ad ospitarlo il ministro dello sviluppo economico Passera, il sottosegretario con delega per l'energia Claudio De Vincenti e il capo-dipartimento energia Leonardo Senni. Dipartimento che è autore, dopo anni di annunci mancati dei precedenti governi, del documento di strategia energetica nazionale attualmente in consultazione che ha incassato da Fatih Birol un convinto apprezzamento in apertura della sua relazione. La stretegia energetica nazionale proposta dal Governo italiano, ha detto Birol, va nella direzione giusta.

E come esempio ha citato l'accento dato all'importanza dell'efficienza energetica, e fatto un parallelismo con gli Stati Uniti. Se gli USA – ha detto Birol – stanno affrancandosi dalle importazioni di combustibili fossili, è anche grazie alle politiche di efficienza – in particolare sugli autoveicoli – messe in piedi dal governo Obama.
Gli USA hanno un ruolo importante nell'attualità dell'energia globale. Secondo l'outlook la loro capacità di produzione di petrolio aumenterà fino al 2020 grazie soprattutto alle risorse non convenzionali, rendendo gli USA nello stesso tempo anche il più grande produttore mondiale, e con prospettiva di diventare esportatore netto nel 2030. Mentre nel gas l'abbondanza statunitense ha portato i prezzi nazionali già oggi a un quinto di quelli europei e a un ottavo di quelli giapponesi.
Ma la nuova disponibilità di petrolio non è solo americana. Le prospettive irachene sono in particolare favorevoli a un aumento di produzione, così come quelle africane e brasiliane. Si prospetta insomma, come Derrick da tempo ritiene, un nuovo rinvio della tesi del picco globale di capacità produttiva del petrolio, il che non è una buona notizia per le prospettive dell'economia decarbonizzata.
[...]
Alessandro Lanza, ex capo economista dell'Eni, lo scorso 12 dicembre era al Politecnico di Milano per una relazione in cui io gli facevo da – come si usa dire – discussant, e ha ricordato che parlare di sostenibilità nell'uso delle fonti fossili è in senso stretto una contraddizione in termini, visto che prima o poi si è costretti a smettere di consumare una risorsa che non si riproduce.
Ma c'è anche un'insostenibilità fatta di incentivi perversi nell'economia delle fonti fossili. Gli aiuti economici a queste fonti – riporta l'Outlook – continuano ad aumentare e hanno superato al mondo il mezzo miliardo di dollari nel 2011, soprattutto a causa delle politiche in nord Africa e Medio Oriente. Sentite qua: il mondo sussidia le fonti fossili 6 volte di più di quanto sussidi le fonti rinnovabili di energia.
Politiche del genere, insieme a prospettive di prezzi relativamente bassi per olio e gas, non aiutano nemmeno l'efficienza energetica, che pure non è solo nell'agenda politica di Europa e Stati Uniti, ma anche della Cina, che punta a una riduzione della sua intensità energetica del 16% nel 2015. Gli scenari IEA proposti nell'Outlook 2012 confermano peraltro la visione dell'agenzia secondo cui gli investimenti già decisi e altri aggiuntivi in efficienza energetica si ripagheranno anzitutto grazie alla minor dipendenza dalle fonti fossili. Resta, come dicevo, l'incognita di quanto questi ritorni siano a rischio se le prospettive di scarsità economica di petrolio e gas si allontanano nel tempo.

In chiusura, provo a fare uno zoom all'indietro, visto che parliamo di relativa e temporanea abbondanza di energia. Sapete quante persone al mondo non hanno accesso all'energia elettrica? 1,3 miliardi.


Derrick 143 su Radio Radicale
Derrick 144 su Radio Radicale
Derrick video: spunti dalla bozza di strategia energetica nazionale (ott. 2012)

martedì 20 novembre 2012

La speculazione - Parte 4 - D139

Siamo alla quarta puntata (qui la terza) di Derrick speciale economia dedicata alla speculazione, o meglio a una carrellata delle sue possibili accezioni, di questi tempi perlopiù negative dal punto di vista del cosiddetto sentire popolare.

Alla fine dell'ultima puntata parlavo dei certificati legati all'andamento della borsa venduti da molte banche, che permettono di guadagnare se la borsa sale, ma evitando parte dei rischi di discesa. Sono anche quelli assimilabili a derivati. Dicevo che un loro problema è che è difficile per un risparmiatore capire se i guadagni a cui si rinuncia sono troppi rispetto ai rischi evitati. Un possibile trucco, allora, se questi certificati sono scambiati in un mercato, è non comprarli in prima emissione al prezzo stabilito dalla banca, bensì poi, sul mercato secondario. Che se è sufficientemente liquido – cioè frequentato – tende ad attribuire ai certificati il loro valore "giusto", o meglio quello che per la comunità che ci partecipa rende indifferente l'acquisto in termini di valore del portafoglio.

E qui mi scappa una considerazione generale: nel periodo buio che attraversiamo, la parola "mercato" a molti fa paura. Meglio, si pensa, un amministratore pubblicistico che decida il prezzo dei beni. Questo implica un'enorme fiducia verso questo decisore che fa il prezzo, e verso la sua assenza di interessi privatistici. Un mercato liquido e ben regolato, invece, non ha bisogno di gente altruista per fare il prezzo equo: ha solo bisogno che più soggetti possibili facciano i loro interessi privati e abbiano accesso all'arena con lo stesso livello di informazioni.

Torno ai derivati. Un motivo per cui non godono di buona stampa sono le perdite che stanno causando agli enti locali. Oltre 1 miliardo secondo Bankitalia. Che cos'è successo? È successo che banche hanno stipulato con gli enti locali contratti derivati che attribuivano agli enti, probabili rischi futuri, in particolare sull'andamento dei tassi di interesse, a fronte di un iniziale flusso di cassa verso gli enti stessi. L'atteggiamento degli enti locali era speculativo? Sì, visto che si assumevano un rischio, anziché moderarlo. Anzi, peggio, a fronte di un vantaggio iniziale introducevano costi probabili e di ammontare incerto alla comunità e ai suoi futuri amministratori. Da un lato quindi c'erano amministratori pubblici ignoranti o in mala fede, dall'altro banche che, a meno che non fosse tutta malafede degli amministratori, non fornivano loro corretta informazione.
Sono diabolici i derivati sui cambi o sui tassi di interesse, come scrivono Elio Lannutti di Adusbef e Rosario Trefiletti? No: era irresponsabile l'uso che ne facevano gli enti locali, che per fortuna dal 2008 non possono più.

martedì 13 novembre 2012

La speculazione - Parte 3 - D138

Questa è la terza puntata (qui la seconda) di Derrick speciale economia dedicata alla cosiddetta speculazione. Che per chi ne usa le accezioni negative vuol dire cupidigia applicata ai soldi e ai mercati. Non ho mai sentito nessuno prendersela con la speculazione di uno che compra un bene che gli serve cercando di pagarlo il meno possibile. Ma se uno compra qualcosa per rivenderlo e farci una differenza, beh allora rischia la bolla di speculatore. Come mai? E chi lo sa.

L'altra volta accennavo ai derivati, simbolo forse per antonomasia della speculazione e della finanza deteriore. Guido Rossi ha scritto sul Sole 24 Ore che i derivati son diventati da strumenti di copertura del rischio a scommesse da casinò.
Cosa sono i derivati? Sono contratti finanziari il cui valore dipende da qualcos'altro che è detto sottostante, e che di solito è il prezzo di un bene scambiato in mercati organizzati, oppure un indice finanziario pubblicato.

Facciamo un esempio: il contratto con cui una parte s'impegna a cedere all'altra i futuri aumenti di prezzo del sottostante, e a vedersi invece riconosciute le sue eventuali riduzioni, si chiama future, ed è il più semplice derivato. Un future sul cherosene, per esempio, può essere comprato da una compagnia aerea per proteggersi dal rischio che il prezzo del carburante aumenti (perché in tal caso spende sì di più per fare il pieno, ma guadagna dal future), ma implica la perdita del vantaggio se il prezzo scende. La controparte di questo future può essere un'azienda che invece vuole proteggersi dalle riduzioni di prezzo del cherosene, per esempio un raffinatore. Oppure può essere un operatore che scommette sulla riduzione del prezzo, in modo speculativo.

Dove sta la malvagità di questi contratti derivati? Non c'è una malvagità intrinseca: esistono dal '700 accordi tra operatori industriali o commerciali che vogliono modificare la propria esposizione al rischio di fluttuazione del prezzo di un bene con cui hanno a che fare. Però è vero che i derivati sono oggetti delicati, perché espongono il sistema a forti rischi di insolvenza delle controparti. Perché? Perché i derivati, pur esponendo a piacere ai rischi di fluttuazioni del valore del bene sotteso, non prevedono di acquistare o vendere questo bene fisicamente, né di pagarlo. Quindi manca una garanzia naturale sul fatto che la controparte abbia i soldi per pagare poi le eventuali perdite.
Inoltre, e qui parliamo invece di rischio per i risparmiatori, i derivati più esotici, per esempio quelli che includono opzioni, possono essere difficili da valorizzare per una controparte non professionale.

Facciamo un esempio. Se siete clienti di una banca aggressiva nella raccolta del risparmio, vi sarà capitato di sentirvi offrire certificati legati all'andamento di un indice di mercato, del tipo, per esempio, che se la borsa sale vi spetterà una parte predefinita e limitata di guadagno, mentre se scende fino a un certo punto non perderete nulla. Vi si propone quindi una rinuncia a certe opportunità e a certi rischi. C'è qualcosa di male? Di principio no. Peccato che un risparmiatore non abbia i mezzi per valutare l'equità del patto.

Mettiamola in questi termini: è più probabile che ex post ci avrà guadagnato la banca, o voi? Beh, una cosa è certa: la banca è preparata a fare questo conto, e difficilmente vi vende un certificato il cui valore atteso è negativo per lei.
Forse allora abbiamo un risultato parziale: la finanza, che non è cattiva in sé, se comporta scambi con assimetrie informative, può diventare parassitaria.
Riguardo ai derivati, comunque, siamo solo all'inizio. Ci sentiamo la prossima settimana.

martedì 6 novembre 2012

La speculazione - Parte 2 - D137

Eccoci a Derrick speciale economia, seconda puntata a chiederci cos'è la speculazione. (La prima è qui).

Qualche settimana fa [ottobre 2012] un commissario dell'Autorità per l'Energia Elettrica veniva audito dalla X commissione del Senato, e si sentiva rivolgere l'auspicio che i sussidi alle fonti rinnovabili d'energia vengano in futuro attribuiti meno a operatori speculativi, e più a auto produttori, cioè produttori-consumatori.

Quesito: se ottengo un sussidio per pescare, sono più speculatore se rivendo il pesce piuttosto che se lo uso nel mio ristorante?

Nella posizione del relatore del Senato, e di tanti, è implicita la risposta affermativa.

Estremizzo un po', ma io ho l'impressione che chi se la prende con la cosiddetta speculazione, talvolta ce l'abbia di fatto con la moneta, cioè con la ricchezza non direttamente espressa in disponibilità di beni concreti. O meglio: l'interesse per la ricchezza diventa speculativo nel momento in cui questa ricchezza transita sui mercati. Il che implica una sorta di amore per la disintermediazione che, se ci fate caso, è anche tipico delle filiere cosiddette eque e solidali.

Anche l'avversione per la finanza forse nasce da idiosincrasie simili. Un indicatore che di solito viene usato per riferirsi alla crescita abnorme della finanza rispetto alla cosiddetta "economia reale" è che le transazioni in derivati tendono a essere in alcuni settori multiple rispetto a quelle sui beni o sui contratti sottesi.
L'esplosione della cosiddetta economia di carta: fenomeno incontrovertibile. Così come è reale la crescita del trading ad alta velocità, cioè di transazioni sui mercati finanziari fatte in modo automatico e con posizioni che si aprono e chiudono in tempi e con margini minuscoli, ma con frequenze e volumi elevati.

Quello del trading automatico, sulla base di protocolli computerizzati, è un fenomeno che per molti autorevoli osservatori può comportare problemi. Da un lato in termini di stabilità dei mercati, perché i protocolli automatici talvolta reagiscono in modo uniforme ai movimenti di prezzo e possono quindi generare eccessi di reazione tutti nella stessa direzione. Fino a effetti come il cosiddetto flash crash della borsa di New York, che il 6 maggio 2010 perse in un istante il 9% per poi riguadagnarlo (ma con effetti distributivi probabilmente forti).
Dall'altro lato gli strumenti del trading automatico danno un vantaggio strutturale ai trader professionisti rispetto a chi invece usa i mercati solo per modificare il proprio portafoglio in modo stabile, come per esempio i cosiddetti cassettisti azionari o in generale i risparmiatori.

Ho nominato i derivati, oggetti di solito esecrati quanto misconosciuti dai non tecnici, e bisognerà senz'altro tornarci la prossima volta. Anche Guido Rossi, che già l'altra volta abbiamo citato come avversario della "speculazione", naturalmente ce l'ha anche coi derivati, e ha scritto sul Sole 24 Ore che i derivati son diventati da strumenti di copertura del rischio a scommesse da casinò.

martedì 30 ottobre 2012

La speculazione - Parte 1 - D136

 Cosa diavolo è la speculazione? È pieno di politici e intellettuali che la esecrano. Soprattutto se si tratta di "speculazione finanziaria". In questa e altre puntate di Derrick speciale economia proverò a fare una carrellata di posizioni che ho sentito riguardo al termine. Mi muoverò in libertà, saltabeccando tra punti di vista che mi sembrano rilevanti.

Credo che la parola speculazione venga da specola, osservatorio, luogo da cui si cerca di vedere lontano. I dizionari definiscono speculazione, in economia, l'attività tesa a trarre vantaggio dalla previsione del valore futuro di un bene (attività che, per inciso, può andar bene o male, cioè far guadagnare o perdere chi la fa) e, in senso esteso, i dizionari definiscono speculazione lo svolgimento di questa attività senza scrupoli.
Renato Brunetta intervistato da Radio Radicale nel settembre 2012 ha detto che il problema del costo del debito pubblico italiano c'è solo a causa della speculazione. A Brunetta vorrei chiedere: se un'organizzazione è talmente indebitata da essere a rischio di non restituire i soldi, è così strano che dipenda dagli umori dei finanziatori? Io, se presto soldi a uno, valuto la probabilità che me li restituisca prima di decidere le condizioni.

I sostenitori del complotto sui titoli di Stato deboli dell'area Euro dicono: e gli Stati Uniti allora? Anche loro hanno numeri da insolventi, eppure pagano poco il debito, grazie alle loro agenzie di rating che attaccano il debito europeo. Vero, le agenzie di rating americane non hanno contraddittorio. Ma chi vieta la nascita di altre agenzie di rating che competano in credibilità? Non solo: sono proprio le nuove norme bancarie europee che hanno istituzionalizzato il valore del rating delle agenzie esistenti nella valutazione del rischio di portafoglio delle banche, come ha notato tra gli altri Oscar Giannino intervenendo a Vedrò 2012.
In un suo articolo su Il Sole 24 Ore, Guido Rossi ha contrapposto la speculazione finanziaria addirittura allo Stato di diritto Europeo, e in un altro afferma che le grandi società per azioni, finalizzate alla sola ricerca del profitto, stanno acquisendo un sinistro controllo sugli stessi governi, sovvertendo gli equilibri democratici.
Allora mi chiedo: cosa dovrebbero fare le Spa anziché perseguire il profitto, cioè la remunerazione degli azionisti? Dove inizia quella mancanza di scrupoli che ci fa passare all'accezione negativa del termine "speculazione"? Da liberale, tenderei a dire che il confine è il rispetto delle regole stabilite dalle istituzioni democratiche.

Se una S.p.A. (o una banca) persegue finalità diverse dal profitto, è verosimile che qualche suo azionista di controllo (fondazioni nel caso delle banche italiane) sia d'accordo nella definizione di questo interesse e ne tragga quindi vantaggio, mentre gli azionisti di minoranza, che ingenuamente mirano ai soli dividendi, sono fregati. Questo l'ha evidenziato Luigi Zingales con un intervento secondo me rivoluzionario a un convegno in cui ha interrotto il numero uno di Banca Intesa Bazoli, il tutto ripreso da uno splendido articolo sul Fatto Quotidiano di Giorgio Meletti lo scorso settembre [2012].
Se Zingales ha ragione, che una S.p.A. persegua fini diversi dal profitto può solo preoccupare, perché sposta la concorrenza delle aziende su un piano opaco.

lunedì 15 ottobre 2012

Derrick Economia – La proposta Giavazzi di tagli dei trasferimenti alle aziende

Nel luglio 2012 il prof. Giavazzi ha presentato al Governo un'analisi dei contributi pubblici alle imprese, e una proposta di come potrebbero essere ridotti. Sarebbero circa 10 miliardi all'anno i sussidi da eliminare per il bene dell'economia, con la prospettiva, se si usano quei soldi per ridurre la pressione e in particolare il cuneo fiscale, di aumentare il pil a regime dell'1,5%.
I trasferimenti eliminati comporterebbero sì un danno immediato per chi subisce il taglio, ma aumenterebbero il reddito complessivo. E su questo Giavazzi è confortato anche da un altro recente studio di Prometeia.

Il documento deve aver avuto una certa influenza visto che, per esempio, al recente congresso della Lega, il segretario Maroni e il presidente di Confindustria Squinzi la pensavano proprio come Giavazzi e i suoi e chiedevano meno tasse in cambio della rinuncia ai sussidi. E ancora più chiaro è stato Luigi Zingales che a un incontro di Fermare il Declino a Milano per dire come la pensa ha parafrasato così una frase che di solito si trova scritta negli zoo: "Vietato dar da mangiare alle aziende".
Curioso allora che un soggetto apparentemente poco interessato a far uso dei suggerimenti di Giavazzi sia proprio il Governo che lo studio l'ha commissionato.

Commenti introduttivi a parte, ecco i punti salienti del documento secondo Derrick:

-      Intanto si apre con quello che gli anglosassoni chiamano un disclaimer. Gli estensori, sta scritto, non hanno avuto sufficiente accesso alle informazioni per fare stime precise dei contributi tagliabili. Curioso che studiosi al servizio del Governo trovino ostacoli nell'accesso ai numeri dello stesso Governo, ma è anche vero che gran parte degli aiuti è erogata dagli enti locali. In ogni caso la parziale abdicazione di Giavazzi forse è indicativa dello stato della burocrazia e della trasparenza dalle nostre parti.

-      Quanto valgono i trasferimenti a imprese? 36 mld di euro nel 2011 secondo il bilancio consolidato di cassa del settore pubblico, e senza contare le agevolazioni fiscali (altri 30 mld secondo un precedente studio della Commissione Ceriani), che vanno soprattutto al settore trasporti (11,5 miliardi circa nel 2010) e a quello agricolo (4,5).
E non ci sono nemmeno dentro i sussidi che passano per il sistema delle tariffe energetiche. Di cui Giavazzi sembra consapevole solo in parte. Lo studio infatti cita i sussidi alle fonti rinnovabili di produzione di energia elettrica (oggi dell'ordine dei 10 miliardi anno), ma dimentica il sistema di aiuti a pochi consumatori energivori industriali in settori perlopiù maturi, che includendo il cosiddetto CIP6 a fonti non rinnovabili valgono una cifra dell'ordine dei 5 miliardi all'anno e pesano sulle bollette in particolare di piccole aziende e famiglie.

Che fare dunque? Secondo lo studio, dei trasferimenti conviene eliminare (in coerenza con DL 1/12 del Governo) quelli che:

1.      non servono a risolvere i cosiddetti fallimenti del mercato (un esempio di fallimento del mercato è l'insufficiente produzione di un bene rispetto a quanto convenga all'economia nel suo complesso). E non è detto, poi, quand'anche un trasferimento sia efficace nel risolvere un fallimento del mercato, che esso sia la soluzione giusta. Per esempio anche le norme sui brevetti possono incentivare un aumento di spesa privata in ricerca e sviluppo

2.      hanno costi amministrativi superiori ai benefici per i percettori

3.      non sono efficaci a superare situazioni di sottosviluppo locale, perché non generano di fatto un aumento di attività dei beneficiari. (E l'evidenza empirica dice che questa è una situazione comune, soprattutto nel caso di contributi a bando).
     
Il testo si chiude con uno schema di norma di iniziativa governativa per attuare i tagli, che si è nel frattempo evoluto in un'ulteriore versione di lavoro cui Derrick ha avuto accesso e a cui si riferiscono quindi le osservazioni seguenti:

o   La proposta è di eliminare aiuti a imprese non giustificati da fallimenti del mercato e di subordinarli in ogni caso al requisito di effettiva addizionalità e di controllo delle prestazioni.
o   L'autorità antitrust acquisirebbe un ruolo di controllore delle azioni di abrogazione delle norme sui trasferimenti da parte delle Regioni.
o   Eccezione all'eliminazione è prevista per alcuni servizi pubblici obbligatori in particolare nei seguenti settori, e limitatamente all'effettivo perseguimento del servizio pubblico: istruzione e ricerca, sanità, assistenza sociale, trasporti

Una delle conseguenze di un'applicazione così correttamente selettiva delle esclusioni è la necessità di segregare ciò che è servizio pubblico e ciò che sta sul mercato senza bisogno di supporto. Sarà interessante per esempio il caso delle Ferrovie dello Stato, che hanno ricevuto nel 2011 secondo il documento 2,9 miliardi, e che oggi gestiscono con scarse garanzie di separazione sia attività in monopolio e di natura pubblicistica – come la rete e alcuni servizi minimi garantiti – sia attività in piena concorrenza con altri operatori, come l'alta velocità). È evidente che il rischio di sussidi incrociati opachi tra servizio pubblico e mercato è critico, con potenziali conseguenze nefaste sulla concorrenza.

Altra eccezione ai tagli nei trasferimenti alle imprese, piuttosto critica e nello stesso tempo probabilmente inevitabile, la si trova nelle disposizioni transitorie della norma proposta, e riguarda interventi previsti da norme, quand'anche abrogate, la cui realizzazione sia già in corso o i cui atti di impegno siano già stati deliberati. (E qui ci vorrebbe un amministrativista per spiegare a Derrick e agli ascoltatori cos'è un atto di impegno. Si accettano candidature).

È forse la difficile quantificazione dei trasferimenti esclusi dai tagli (del resto assente anche nel lavoro di Giavazzi) il tallone d'Achille della proposta, che l'ha resa per ora inattuata? Oppure il Governo non ha la volontà politica di procedere, e preferisce affievolire i lampioni? A Derrick invece piacerebbe vederci più chiaro.

martedì 24 luglio 2012

Lo Stato azionista dell'energia - D126

Spesso da questi microfoni abbiamo parlato del conflitto di interessi patito da un Governo azionista di aziende dell'energia e nello stesso tempo principale arbitro dei mercati energetici (perché primario legislatore in materia, e non solo detentore del potere esecutivo). E anche nella scorsa puntata, sulla proposta poi archiviata di bloccatariffe nell'ambito della spending review, ci siamo chiesti se le decisioni in proposito siano alla fine state prese più per preoccupazione dei corsi azionari di Eni e Enel che dell'effettiva sensatezza della misura.

Sempre in tema, il 20 luglio scorso è apparso su Staffetta Quotidiana un articolo di Giovanni Battista Zorzoli che mi sembra piuttosto originale, in cui l'autore si concentra sull'effetto non tanto della privatizzazione o della mancata privatizzazione sul conflitto di interessi del Governo, quanto della trasformazione in società per azioni degli ex enti economici pubblici dell'energia, avvenuta con Amato 20 anni fa.
Fa notare Zorzoli che la continua esposizione alla volatilità di mercato del valore delle partecipazioni dell'energia ha un effetto distorcente ma anche bloccante delle decisioni pubbliche. Il bisogno di dividendi, dice Zorzoli, fa il Governo restio a rendere troppo competitivo il mercato ai danni degli ex monopolisti. E questo è un vizio d'origine dello Stato azionista che anche su Derrick abbiamo sempre ricordato, ma su cui non sono molto sicuro che la forma di società per azioni abbia grandi responsabilità. Nel senso che anche un ente economico dello Stato non sul mercato è una fonte di entrate per la macchina pubblica, senza però, nel caso di mancata quotazione, la trasparenza che perlomeno i dividendi di una SpA comportano.
Ma l'avere partecipazioni quotate è anche, scrive Zorzoli, bloccante nei periodi di crisi rispetto a un'eventuale decisione di procedere a ulteriore collocamento sul mercato, perché quando c'è crisi sul mercato le partecipazioni tendono a valere meno per via dei corsi azionari depressi. Quante volte, discutendo di privatizzazioni in tempo di crisi, si sente dire: "come si fa a privatizzare a questi prezzi"?

Mi viene in mente una delle 2-3 lezioni di base che si trovano nelle dispense per risparmiatori domestici: la decisione di vendere un titolo non dovrebbe dipendere da quanto si guadagna o perde rispetto al prezzo precedente, ma dalle aspettative sul prezzo futuro. Nel caso di partecipazioni pubbliche, però, dovrebbe esserci anche dell'altro: quanto benessere possono guadagnare i consumatori da una maggiore terzietà dell'esecutivo nei settori coinvolti?

martedì 26 giugno 2012

Energia sottocosto - D122

Può l'energia elettrica all'ingrosso essere venduta gratis? In qualche caso, sempre più frequente, succede. Come in vari giorni in Spagna lo scorso aprile, ma perfino in Italia, dove anche all'ingrosso l'elettricità è ancora più cara che nei paesi confinanti, ci sono state di recente ore in cui al Sud l'energia veniva fornita senza remunerazione nella borsa elettrica.

Com'è possibile? I fedelissimi di Derrick naturalmente lo sanno, ma per i nuovi arrivati forse è il caso di dare una piccola spiegazione. Borse elettriche come quella italiana prevedono che tutti gli operatori che fanno offerte di vendita di energia vengano per ogni combinazione di ora e di zona remunerati al prezzo richiesto dall'impianto più esoso tra quelli necessari a soddisfare la domanda. Contrariamente a quel che si potrebbe pensare di primo acchito, la maggior parte degli esperti ritiene che questo sia il meccanismo più efficace per la concorrenza.
Ebbene: nei casi-limite di cui stiamo parlando, l'offerta di energia di impianti a costi variabili nulli e con diritto a incentivi è sufficiente a soddisfare l'intera domanda, e quindi il prezzo in borsa si annulla essendo nulla la richiesta economica in borsa anche dell'ultimo impianto necessario. Ma anche nei casi più frequenti in cui la capacità rinnovabile non soddisfa l'intera domanda, essa spiazza gli impianti termoelettrici più costosi e porta il prezzo in borsa a un livello che remunera i soli costi variabili, ma non quelli d'investimento e mantenimento, delle centrali a gas, quando vengono accese.

È sostenibile per i produttori? Sì per gli impianti da fonti rinnovabili incentivati fuori borsa e in parte per il carbone finché i prezzi dei permessi ad emettere CO2 restano depressi. Gli altri, invece, rimangono spenti a meno che non vengano chiamati a fornire servizi di riserva o di flessibilità dal gestore della rete.

Il risultato è che, se prima che le fonti rinnovabili elettriche prendessero così tanto piede le borse elettriche riuscivano a remunerare anche le centrali convenzionali, ora non più. Da un lato è una normale evenienza visto che il settore ha eccesso di capacità e che una parte crescente dell'offerta ha costi variabili bassi. Dall'altro è una distorsione se si tiene conto che gli incentivi alle rinnovabili, di norma più alti dei costi variabili delle centrali convenzionali, non sono computati nell'ordine di merito della borsa. Ma è una distorsione voluta e necessaria, perché le fonti rinnovabili per decisione strategica politica devono avere la precedenza sulle altre.

Ciò che non è voluto è che i produttori da fonti convenzionali, in parte indispensabili a fare da backup alle rinnovabili, se non trovano altre forme di remunerazione sufficienti a mantenersi in esercizio possano decidere di chiudere.

martedì 5 giugno 2012

Il mito dell'autarchia energetica - D119

Rupert Darwall pochi giorni fa su The Wall Street Journal Europe ha scritto un commento velenoso circa la recente svolta della politica energetica del Regno Unito. Che succede nel Regno Unito? Succede che il governo Cameron sta iniziando a tradurre in norme applicative un documento di indirizzo di qualche tempo fa, che prevede un consistente ripensamento della politica energetica britannica, con introduzione di forme di programmazione prima assenti in quel che è stato di gran lunga il primo mercato energetico europeo a liberalizzarsi, indicando ai tempi la strada al resto dell'Unione Europea.

I punti salienti della riforma inglese sono direi un paio:
1)      La riforma e il potenziamento del sostegno alle produzioni energetiche a bassa emissione di CO2 (nucleare incluso) con anche una carbon tax integrativa all'obbligo di acquisto di permessi di emissione già in vigore in tutt'Europa.
2)      L'introduzione di sistemi di supporto alla realizzazione di capacità di generazione elettrica che superino lo spontaneismo degli investimenti privati in sola risposta ai prezzi di breve periodo dell'energia.
Si tratta di misure che, evidenza Darwall, presuppongono, oltre che la necessità di perseguire in modo più efficace la lotta ai cambiamenti climatici, anche prospettive di prezzi crescenti per l'energia, da cui il bisogno di dotarsi di capacità produttiva prima e più di quanto farebbero i mercati spontaneamente.

Darwall fa un parallelismo tra la scelta inglese e le misure pro-indipendenza energetica del presidente americano Carter nel '77, che – a parte forse alcune reazioni al primo shock petrolifero – furono all'avanguardia in termini di visione pro rinnovabili e pro efficienza energetica (curioso che la Casa Bianca installasse allora pannelli solari sul tetto, in seguito smontati e – scrive Darwall, non più rimontati).
Carter in particolare ce l'aveva con la dipendenza dall'importazione di energia, cosa che forse si legava anche alla divisione in blocchi del mondo di allora. Ma l'autarchia energetica, scrive Darwall, non è meno sbagliata e dannosa di quella in qualsiasi altro settore. Derrick in questo stracondivide: non si capisce, o non del tutto, perché in un mondo globalizzato occorra spaventarsi se si è importatori di energia più di quanto lo si faccia riguardo ad altre importazioni comunque vitali, per esempio beni alimentari, commodity minerarie o chimiche, prodotti elettronici.

Insomma: mi piace Darwall quando stigmatizza il mito dell'autonomia energetica. Ma dietro la logica del governo Cameron, e in generale dietro a quella dell'efficienza energetica e della decarbonizzazione, c'è un tentativo di affrancamento più generale: quello dalle prospettive future di scarsità di fonti energetiche fossili e di qualità dell'ambiente. In questo senso, se d'autarchia si tratta, lo è a livello globale, non regionale o nazionale. Un desiderio al quale conviene attenersi, almeno finché non saremo in grado si colonizzare altri pianeti ricchi di risorse.

martedì 17 aprile 2012

Fonti energetiche rinnovabili – Costi e benefici – Parte 2 - D114

Questa è la seconda puntata riguardo ai costi e benefici delle fonti rinnovabili elettriche, tema di estrema attualità dopo che negli ultimi giorni sono stati diffusi gli schemi di decreto governativi che ridimensionano gli incentivi a fotovoltaico e altre rinnovabili. Parlavamo in particolare di uno studio di Agici, commissionato da produttori da fonti rinnovabili e di cui sono stati diffusi in parte i risultati, secondo il quale le rinnovabili elettriche fatte tra il 2008 e il 2011, alla fine della loro vita utile non saranno state, seppur di poco, un buon affare, soprattutto a causa degli alti sussidi al fotovoltaico. Mentre si riveleranno convenienti, secondo lo studio, quelle costruite tra 2012 e 2020, con un beneficio netto totale al 2030 di circa 80 miliardi di Euro.

Ricordiamo quali sono i principali benefici delle rinnovabili elettriche considerati da Agici:
L'occupazione diretta e indiretta.
Le mancate emissioni di CO2 e ossidi di azoto.
Gli effetti in riduzione sul prezzo all'ingrosso dell'elettricità.
Il mancato consumo di combustibili fossili.

Un punto dubbio tra i benefici è quello della nuova occupazione. Ciò che Derrick ha letto dello studio lascia intendere che si siano valutati i redditi da lavoro forniti dal settore rinnovabili negli anni di costruzione, e che se ne sia ipotizzato poi un lieve decremento per il periodo di funzionamento degli impianti già costruiti. È chiaro che la durata di questi posti di lavoro dopo l'installazione degli impianti è un'ipotesi essenziale. E un'altra, a mio parere criticabile, è il non considerare – come sembrerebbe – l'occupazione spiazzata in altri settori. Ovvero: se si fa l'energia con le rinnovabili, non la si fa in altri modi. E bisognerebbe quindi tener conto della mancata occupazione legata a questi altri modi, cosa che lo studio Agici non sembra fare. Il dubbio di Derrick qui, quindi, è che il beneficio sia sopravvalutato.
Riguardo ai benefici da mancate emissioni, anche qui è difficile arrivare a un valore sensato. Anche perché le emissioni considerate sono solo due, quelle per cui esistono, peraltro con problemi di affidabilità e prevedibilità del corrispettivo, forme di internalizzazione economica del danno (cioè gli emettitori devono pagare per le emissioni). Non si tiene invece conto di altri fattori di impatto (per esempio le ceneri o le polveri legate all'uso del carbone). C'è quindi qui un rischio di sottovalutazione del beneficio.

Veniamo all'effetto positivo in termini di riduzione e appiattimento tra giorno e notte del prezzo all'ingrosso dell'elettricità. Questo è il classico cavallo di battaglia dei fan delle rinnovabili elettriche. E lo è giustamente, visto che la concorrenza delle fonti rinnovabili, che non hanno tranne la biomassa costi variabili, spiazza le fonti fossili sul mercato mantenendo accese solo quelle più economiche e quelle indispensabili per bilanciare la rete. Il guaio è che questa economicità nei costi variabili delle rinnovabili la si paga nei sussidi, che rientrano in bolletta tra gli oneri generali, considerati da Agici tra i costi. Quel che manca, o manca parzialmente, nello studio, è che le centrali convenzionali in grado di attivarsi quando sole e vento non ci sono avranno verosimilmente sempre più bisogno, per restare disponibili, di recuperare remunerazione o sul mercato all'ingrosso dell'energia o con un'ulteriore voce di oneri in bolletta. Oppure, peggio, in seguito a difficoltà finanziarie potrebbero riconcentrarsi in pochi operatori ricreando un oligopolio con tanti saluti ai prezzi concorrenziali all'ingrosso dell'ultimo periodo.

Circa il risparmio di combustibili fossili: i prezzi futuri del petrolio si sono pressoché sempre rivelati imprevedibili. E per il gas, vale più o meno la stessa cosa.


In generale, e concludendo: è difficile calcolare costi e benefici da qui al 2030. Ma è ragionevole dire che l'affrancamento almeno parziale dalle fonti fossili è sensato e che la riduzione delle emissioni-serra necessaria. Altrettanto ragionevole che gli incentivi siano sempre il minimo sufficiente per raggiungere gli obiettivi, rispetto ai costi industriali.  

martedì 10 aprile 2012

Fonti energetiche rinnovabili – costi e benefici – Parte 1 - D113

Bisogna tagliare, o non tagliare i sussidi alle fonti energetiche rinnovabili?

Prima di avventurarci in risposte, conviene scomporre la domanda in sottodomande. Ci aiutano alcuni dati diffusi in questi giorni tratti da un paio di studi costi-benefici, uno di Althesys, un altro di Agici Finanza d'Impresa. Di quest'ultimo Derrick è in possesso di un rapporto in bozza più dettagliato del sommario disponibile su www.agici.it, ma comunque incompleto.

Si tratta di studi in entrambi i casi apparentemente di parte (quello di Agici è stato commissionato da produttori da fonti rinnovabili), ma non per questo meno utili per impostare un'analisi.
Entrambi si chiedono quale sia l'effetto economico complessivo netto delle fonti rinnovabili italiane installate, utilizzando diversi intervalli di osservazione. Si chiedono cioè se i benefici superino i costi, in uno scenario futuro di vita utile degli impianti. E rispondono generalmente di sì. Ma con alcuni, decisivi punti opinabili, che secondo Derrick impediscono di considerare affidabili i numeri finali in assenza di maggiori informazioni sulle ipotesi, o di integrazioni.

Vediamo quali sono le voci principali di costo delle fonti rinnovabili elettriche secondo lo studio Agici, tralasciando per ora le biomasse, incluse nello studio, ma che richiedono considerazioni a parte:

- I sussidi a spese delle bollette (circa 10 miliardi di Euro nel 2011, e in fortissima tendenza a salire a norme invariate).
- I costi di gestione dell'intermittenza e della non prevedibilità dell'elettricità da queste fonti.
- L'import dei componenti necessari a costruire gli impianti. (Nota di Derrick: non è chiaro perché solo l'import di componenti sia considerato come costo e non in generale l'intero ammontare dei costi di realizzazione e manutenzione. Ignorare i costi quando sostenuti in Italia è poco comprensibile. E quand'anche dovesse prevalere questa logica autarchica, dovrebbe essere applicata anche a tutti gli altri costi e non solo quelli dei componenti).

Vediamo quali invece i benefici principali delle fonti rinnovabili elettriche secondo Agici:

- Le mancate emissioni di CO2 e ossidi di azoto.
- Il mancato consumo di combustibili fossili.
- L'occupazione diretta e indiretta.
- Gli effetti in riduzione sul prezzo all'ingrosso dell'elettricità.

Anche tra i benefici ci sono punti la cui valutazione è difficile e, nell'impostazione di Agici, lascia dubbi. 

Ne parleremo nella prossima puntata. Intanto anticipiamo il risultato dello studio:

Con la sua impostazione Agici conclude che le rinnovabili elettriche fatte tra il 2008 e il 2011, alla fine della loro vita utile non saranno state, seppur di poco, un buon affare. Soprattutto a causa degli alti sussidi al fotovoltaico. Mentre si riveleranno convenienti quelle costruite dopo il 2012.

Continueremo ad analizzare questi numeri, utili e interessanti malgrado i punti apparentemente opachi. Tenendo presente che un'analisi olistica come quella costi-benefici è inevitabilmente basata su scelte arbitrarie riguardo a come tracciare i confini degli elementi da considerare e da non considerare.

martedì 21 febbraio 2012

Il caso Alcoa: prezzi dell'energia come sussidio industriale D108/112

Con Stefano Mottarelli

Prima delle liberalizzazioni, i prezzi del gas e dell'elettricità erano anche una leva di politica industriale, e venivano controllati direttamente da agenzie governative. Poi sono arrivati i mercati. Ma le bollette attuali hanno ancora componenti che le differenziano con finalità di aiuto a certi comparti o tipi di clienti industriali. E siccome quello delle bollette è un sistema non più interconnesso con la fiscalità generale, chi ottiene sconti rispetto ai costi complessivi della fornitura li ottiene a spese degli altri clienti di energia, che finiscono quindi per contribuire di più agli stessi costi.

Si ripete di continuo che in Italia l'elettricità costa di più che nel resto d'Europa. È mediamente vero, ma lo è in modo molto diverso tra categorie diverse di clienti, e talvolta non lo è affatto. In Italia, ma non solo, alcune categorie di grandi clienti industriali, generalmente quelli per i quali l'energia è una voce di costo particolarmente importante, hanno tutt'ora accesso a formule di contribuzione agli oneri del sistema elettrico molto vantaggiose, tanto da rendere il loro prezzo estremamente basso rispetto a quello offerto ad altri clienti. La motivazione politica di ciò è la stessa di un tempo: politica industriale: intesa come aiuti alle imprese. Che non passano per le tasse, ma per le bollette.

La stessa Commissione Europea, nel valutare l'assimilabilità degli sconti di categoria previsti dallo Stato ad aiuti illeciti, osserva che è normale che sul mercato una categoria di grandi consumatori abbia forte potere negoziale, e che l'offerta dei produttori tenti di adeguarsi trovando il modo di discriminare il prezzo a favore di questa categoria per non perderla come cliente pur senza dover concedere agli altri clienti le stesse condizioni. È altrettanto chiaro, però, che se questa discriminazione di prezzo è decisa per decreto, e non dal mercato, il rischio di sussidi incrociati fuori controllo è più alto.


La storia

Il gruppo Alcoa (Aluminum Company of America, 59.000 dipendenti nel mondo, 21 miliardi di dollari di fatturato nel 2010) nel 1996 acquista la società italiana a partecipazione statale Alumix (del gruppo EFIM, una delle holding delle partecipazioni statali di allora). E si aggiudica due stabilimenti, tra cui quello di Portovesme in Sardegna. Uno stabilimento capace di consumare da solo circa un quinto del totale dell'elettricità sarda e che oggi impiega 500 dipendenti.
Un decreto ministeriale per rendere possibile l'acquisizione del '96 stabilisce il diritto dei due stabilimenti a ricevere dall'Enel una tariffa agevolata per le forniture di energia elettrica. E il prezzo per Portovesme viene fissato molto più basso di quello praticato alla generalità degli altri impianti industriali.

Dal 1999, con l'inizio della liberalizzazione del mercato elettrico, la tariffa sottocosto di Alcoa entra tra gli oneri generali del sistema. Viene cioè introdotto un sovrapprezzo in tutte le bollette per compensare lo sconto che prima l'Enel direttamente, poi la Cassa Conaguaglio, devono praticare ad Alcoa.
Nel 2004 c'è un cambiamento importante: con un DPCM del 6 febbraio la tariffa (in scadenza a fine 2005 e che dal 2000 è stata nel frattempo un po' aumentata fino alla soglia dell'equivalente di 40 lire al kWh rispetto alle originali 36 circa) è prorogata fino a giugno 2007, ma anche estesa a tutte le forniture di energia elettrica destinate alla produzione di alluminio, piombo, argento e zinco (ma solo per impianti già esistenti) situati in territori insulari caratterizzati da collegamenti assenti o insufficienti alle reti nazionali. In altri termini: il Governo rende meno specifico il trattamento, pur mantenendo il vantaggio mirato a grandi produzioni metallurgiche energivore in aree insulari.

Nel 2005, una delibera dell'Autorità per l'Energia introduce un legame tra l'incremento annuo della tariffa (che chiamiamo ancora per semplicità Alcoa anche se è estesa a un piccolo novero di beneficiari) e quella dei prezzi medi elettrici all'ingrosso, pur con un tetto al 4%. Sembra l'avvisaglia della fine del trattamento estraneo a un mercato nel frattempo più che avviato. Invece lo stesso anno una legge proroga la tariffa Alcoa fino a fine 2010, e prevedibilmente la Commissione UE (2006/C 214/03) avvia un'indagine per definire se si tratta di aiuto di Stato.


È aiuto di Stato?   

Il dubbio alla Commissione viene visto che la tariffa:
·       - costituisce un vantaggio economico
·       - minaccia di alterare la concorrenza 
·       - incide sugli scambi intracomunitari dei prodotti dalle aziende beneficiarie

e soprattutto secondo la Commissione si può parlare di aiuto di Stato perché la decisione di concedere questo vantaggio è delle autorità e prevede un trasferimento di risorse pubbliche sotto forma di un prelievo parafiscale.

Ecco un punto centrale. Che ha un'applicabilità che prescinde dal caso Alcoa, e apre un capitolo insidioso. Un sistema di bollette inevitabilmente ha componenti regolate con cui alcuni costi vengono suddivisi tra tipi di clienti. È così in qualunque mercato energetico per quanto liberalizzato, perché alcuni costi afferiscono a servizi che restano in monopolio legale, e le bollette sono quindi anche trasferimenti economici parafiscali.

Nel frattempo la Commissione europea assume un approccio negoziale e ammette la tariffa Alcoa transitoriamente, purché in Italia si attui un programma di intensificazione della concorrenza elettrica, attraverso l'obbligo di alcuni operatori ancora dominanti in particolare nelle isole di cedere ad altri un po' della capacità delle loro centrali elettriche.
Ma alla Commissione non basta. E Bruxelles dichiara la tariffa di favore “aiuto di Stato”, e con una Decisione della Commissione UE del 2009 obbliga lo Stato italiano a chiedere indietro ad Alcoa gli sconti ottenuti successivamente al tempo limite che la stessa Commissione aveva imposto in precedenza.


Quanti soldi? Per fare cosa?

Si tratta di circa 300 milioni in un solo anno come calcolati dal Governo italiano, mentre per tutti i quindici anni di sussidi Marco Alfieri della Stampa stima il vantaggio in quasi 2 miliardi.

Nell’aprile 2010 Alcoa ricorre contro la decisione di Bruxelles senza successo finale, e nel marzo 2011 la Commissione deferisce l’Italia alla Corte di Giustizia per il mancato recupero degli aiuti. Alcoa nel frattempo minaccia, come oggi, la chiusura degli impianti e ottiene la legge cosiddetta "Salva Alcoa", con effetti fino al 31 dicembre 2012 e vantaggi che possono arrivare ai 40 €/Mwh, circa la metà di quanto l'elettricità costa oggi all'ingrosso al netto di tutti gli oneri. La scappatoia è sempre la stessa: fare una norma che solo formalmente non è ad hoc, per prorogare gli aiuti.
Quando arriva il Salva Alcoa, un altro stabilimento sardo, Eurallumina, ha chiuso, e l'utilizzo del carbone locale per produzione elettrica anch'esso si trascina tra sussidi e progetti di rilancio. 

L'industrializzazione ex di Stato di Carbonia e dell'Iglesiente vede i nuovi investitori tirarsi indietro uno dopo l'altro, come racconta in un bel reportage Marco Alfieri su La Stampa. Le produzioni di base fatte in Sardegna, così come nel continente, sono sempre meno competitive e la disoccupazione degli under 30 nell'area è arrivata ai giorni nostri attorno al 50%.
Una situazione drammatica, a fronte della quale però la proroga dei sussidi fornisce soluzioni non solo inique e distorsive, ma necessariamente temporanee, e quindi induce i beneficiari a tirare avanti e approfittarne senza una politica di investimenti. Sussidi insomma che rimandano, ma nello stesso tempo rendono più certo e repentino, l'esito finale di deindustrializzazione.

La politica sembra non riesca a trovare il coraggio e la visione per cambiare pagina, e affrontare il problema dello sviluppo di questa e altre aree depresse con una qualche visione strategica. Davvero vogliamo fare produzioni di base energivore pagate dalla collettività in una perla del Mediterraneo? Davvero non ci sono altre strade? Fornire magari finanziamenti agevolati a nuovi imprenditori anziché sussidiare un business in crisi e a forte impatto ambientale, non sarebbe più ragionevole?

Con due miliardi di Euro (pari a 1 milione a testa a 2000 disoccupati), è probabile che in questi quindici anni politiche di welfare alla persona e investimenti in formazione, infrastrutture (quelle giuste, anzitutto immateriali) avrebbero fatto meglio rispetto al tunnel degli aiuti industriali senza una prospettiva, e che offendono la concorrenza.


La restituzione

Finora a Derrick non risulta che lo Stato abbia recuperato i trasferimenti ad Alcoa e agli altri beneficiari. E i recenti avvenimenti politici, o meglio parlamentari, italiani, vanno addirittura nella direzione opposta.
Il 1 marzo Antonio Di Pietro dichiara che per evitare la chiusura dello stabilimento di Portovesme "va individuata una soluzione industriale, attraverso accordi bilaterali con produttori di energia, al fine di rendere competitivo lo stabilimento”.

Di Pietro non ascolta Derrick e forse non sa che quelli che lui chiama "accordi bilaterali", nell'era di mercato dell'energia, sono stati non sacrifici dell'Enel o di qualche altro fornitore, ma oneri in bolletta a carico di tutti i consumatori, industriali e non.
Pochi giorni dopo, il 13 marzo, il Governo è battuto alla Camera con un ordine del giorno votato tra gli altri da PDL e PD, ma non dai deputati Radicali. L'ordine del giorno invita il Governo a “predisporre di concerto con la regione Sardegna un apposito piano integrato di rilancio del Polo energetico ed industriale del Sulcis”.  E chiede nello specifico di prorogare la legge di conversione del cosiddetto decreto "Salva Alcoa", di cui abbiamo parlato nelle puntate passate, e che ha costituito l'ultima tranche legislativa di questi aiuti.

Elisabetta Zamparutti, deputata radicale in Commissione ambiente, motivando il voto contrario della delegazione Radicale ha detto tra l'altro che "è da quando è stato privatizzato che lo stabilimento di Portovesme in Sardegna usufruisce di sussidi nelle bollette elettriche, sussidi pagati da tutti i consumatori di energia elettrica.".


La scorciatoia delle bollette

Se il Parlamento votasse una legge di sussidi industriali con soldi pubblici, dovrebbe per Costituzione indicare la provenienza dei fondi necessari. Ma siccome qui i sussidi sono a carico delle bollette, cioè fuori dal sistema della fiscalità, si genera una particolare distorsione e deresponsabilizzazione dei decisori politici. Qui il legislatore prende decisioni che riguardano anche i soldi pubblici, com'è nel suo ruolo, ma le prende senza doversi in nessun modo preoccupare, almeno dal punto di vista dell'accettabilità costituzionale, della questione di da dove arrivano le risorse e di qual è l'impatto non solo sulla competitività di chi i soldi li prende, ma anche di chi ce li mette.
E così: gli aiuti per gli stabilimenti interessati dall'ordine del giorno della Camera sono menzionati nell'ordine del giorno. Ma gli aggravi ai consumatori, anche industriali, che quei sussidi li pagano in bolletta e non nelle tasse, dove sono? Chi ne sostiene il costo politico?


Verso la chiusura dello stabilimento di Portovesme?

Sindacati e lavoratori hanno manifestato contro la paventata messa in mobilità degli addetti allo stabilimento, anche con scontri con le forze di polizia davanti al Ministero dello Sviluppo Economico, e negli ultimi giorni di marzo [2012] è stato raggiunto un accordo di cui Derrick al momento non dispone ma che comprenderebbe il ritiro della procedura di mobilità dei lavoratori e il mantenimento della produzione fino al 31 ottobre 2012, in caso di assenza di manifestazioni di interesse di altri investitori, fino a fine 2012 in caso di manifestazioni di interesse, con cassa integrazione dal 1 gennaio 2013.
Inoltre, come 15 anni fa quando lo stabilimento allora pubblico fu venduto ad Alcoa, ma con la differenza che oggi sarebbe contro una sentenza dell'UE, il Governo si sarebbe impegnato a provare a rendere disponibili ancora per un po' i sussidi sul prezzo elettrico, per poi puntare su soluzioni di più lungo periodo. Vediamo quali, secondo le notizie circolate sui giornali.

La prima soluzione strutturale per abbassare il prezzo dell'energia di Alcoa sarebbe un accesso privilegiato alla capacità di interconnessione elettrica con l'estero, per beneficiare in modo esclusivo del minor prezzo oltre frontiera. Aimé: è una misura del tutto assimilabile a un aiuto, perché la giurisdizione dell'energia prevede che alla capacità dei cavidotti internazionali si acceda di norma in modo competitivo tra tutti gli interessati.

La seconda soluzione prevederebbe accordi diretti con Enel. Il che non si capisce cosa voglia dire. Enel, società per azioni controllata ma non interamente posseduta dal Tesoro, farebbe un regalo ad Alcoa rispetto al prezzo di mercato? Se è così si comprende perché il titolo sta cedendo in borsa. Sarebbe a modo suo geniale: far pagare agli azionisti della sola Enel, di cui il Governo controlla il CDA, e non solo ai consumatori di energia, il costo degli aiuti, alla faccia delle distorsioni del mercato.

La terza soluzione sarebbe autoproduzione di elettricità da parte di Alcoa. Che di per sé nessuno ha mai vietato ad Alcoa né ad altri. Quel che s'intende però è probabilmente la cessione pilotata ad Alcoa di una centrale altrui. Si parla di una sezione dell'impianto a carbone di Enel Sulcis, che però secondo alcuni giornali l'azienda di Conti in passato già non avrebbe voluto vendere ad Alcoa.

Le centrali a carbone in effetti sono un po' più economiche di altre (soprattutto perché, per motivi che non possiamo ricordare ora, se ne pagano ancora solo scarsamente i costi ambientali). Ora, in caso di cessione coatta di capacità produttiva a carbone da Enel a Alcoa si riproporrebbe come sopra il dubbio se Enel sia una S.p.A. sul mercato, o un'agenzia del Governo partecipata dal mercato.
La cessione coatta di capacità produttiva peraltro non è in sé una bestemmia. Già Bersani nel '99 impose la vendita di centrali dell'allora monopolista per rendere contendibile il mercato elettrico. Lì però si parlava, appunto, di un monopolista, e le centrali vennero messe all'asta, non attribuite ex lege a qualcuno.

Riflessione della settimana di Derrick: Chissà se a un certo punto si prenderà piena coscienza che nell'era del mercato il Governo non può più decidere, se non con interventi infrastrutturali e di contesto regolatorio, chi investe dove. L'alternativa c'è naturalmente: fare marcia indietro dall'era del mercato.

(Grazie a Stefano Mottarelli)