martedì 17 dicembre 2013

Aiuti alla lettura? - D185

Lo scorso 13 dicembre un attesissimo consiglio dei ministri ha licenziato dopo una consultazione pubblica il decreto legge “destinazione Italia”, e altre misure con impatti in molti settori, tra cui energia, assicurazioni, editoria. Mi concentrerò sull’ultima area: gli sconti fiscali sull’acquisto di libri.

Un’infografica del Ministero dello sviluppo usa lo slogan “la cultura ti fa risparmiare” per motivare l’introduzione di una detrazione d’imposta al 19% sugli acquisti in libri per massimo mille euro all’anno su testi scolastici e universitari e altrettanto sugli altri testi, con un budget complessivo di 50 milioni.
Mentre preparo questa puntata, un giorno e mezzo dopo la riunione dei ministri, non è ancora pubblicato il testo delle misure come uscite dal consiglio, cosa che mi fa addirittura immaginare che il Governo possa rimetter mano ai dettagli delle norme prima di mandarle in Parlamento. Mi baso quindi sui comunicati stampa ufficiali e su quanto hanno riferito i giornali.

Che la detraibilità dei libri sia un aiuto direttamente finalizzato alla diffusione della cultura è smentito già da una prima analisi di come funziona la norma, e dallo stesso ministro Zanonato in un’intervista ad Alessandro Barbera su La Stampa di domenica.

L’aiuto è alle librerie e ai distributori, non alla lettura. Infatti sono esclusi i libri elettronici, gli ebook. Con il paradosso che se per le scuole è stata stanziata nel DL 104/2013 una piccola somma per l’approvvigionamento di supporti per i libri elettronici (ringrazio Alessandro Fusacchia per l’informazione), gli studenti sono invece incentivati con questa norma a riempire gli zaini con volumi cartacei.

Altra clamorosa incoerenza riguarda la cosiddetta agenda digitale. Come si concilia la strategia di digitalizzare il Paese con il negare il contributo a chi vivendo in piccoli centri accede alla cultura grazie alla rete e ai testi in formato elettronico?

Ancora: le detrazioni fiscali sono un metodo classico per disincentivare l’economia sommersa o illegale. Nel caso degli ebook è un problema la tutela del diritto economico d’autore, che viene danneggiato dal download illegale di libri. Ma l’acquisto di ebook con questa norma sarà artificiosamente scoraggiato.

Infine: che tipo di lettore beneficerà degli sconti fiscali? Secondo l’Istat chi legge almeno un libro non scolastico all'anno è la metà degli italiani, mentre sono pochi, ma importanti per il fatturato del settore, i lettori forti.
Il tetto massimo di 2000 € a soggetto su cui applicare la detrazione permette sconti su almeno un centinaio di libri all’anno, abbastanza per i lettori forti. Se ipotizziamo che i lettori occasionali non diventeranno di colpo lettori medi, stiamo dicendo che il budget dell’operazione potrà essere fatto fuori da soli 25000 lettori forti.
Pur con una somma complessiva limitata, un tetto massimo individuale più basso avrebbe potuto far acquistare i circa 17 milioni di libri scontati (ipotizzando un prezzo di 15 € l’uno) a una platea più vasta, contribuendo, seppur di poco, all’avvicinamento alla lettura.
E siccome la norma non è fatta a caso, questo dimostra ulteriormente che l’obiettivo è dare soldi alla filiera soprattutto della distribuzione del libro, non aumentare il numero di lettori.

Ma non sarebbe meglio, anziché fingere di preoccuparsi dei consumatori, e in realtà elargire mance a un settore economico o a un altro, darla alle buste paga, la mancia? Non sarebbe più rispettoso dei contribuenti e della loro autodeterminazione?

martedì 10 dicembre 2013

Guerra dei sussidi: nuovo round - D184

Ci risiamo. La guerra dei sussidi. Questa è la cronaca dell’ultimo round. Tra i protagonisti Legambiente, il ministro Zanonato e Assoelettrica.

Secondo l’OCSE, la IEA e il FMI i sussidi alle fonti di energia fossile sono troppi e hanno molte controindicazioni. Scrive il Fondo Monetario che, per quanto finalizzati alla protezione dei consumatori, essi aggravano i bilanci pubblici, spiazzano spesa pubblica prioritaria, deprimono gli investimenti privati, distorcono i consumi, accelerano l'esaurimento delle risorse naturali e si oppongono agli investimenti in decarbonizzazione e fonti rinnovabili.

Legambiente nel suo “Stop sussidi alle fonti fossili” li ha recentemente quantificati per l’Italia in oltre 12 miliardi all’anno, di cui 4,4 diretti agli autotrasportatori, centrali elettriche fossili e consumatori energivori, e il resto indiretti la cui riconducibilità ai consumi fossili è in qualche caso opinabile (per esempio, Legambiente considera un sussidio indiretto alle fonti fossili i finanziamenti per nuove strade, cosa che in parte è ragionevole, in parte no: una strada, in futuro, potrebbe essere percorsa da veicoli elettrici in uno scenario di generazione elettrica massicciamente da fonti rinnovabili). In altri termini: non c’è dubbio che i sussidi a nuove autostrade siano nati vecchi e criticabili in un contesto in cui il traffico autostradale scende, ma dare aiuti a infrastrutture già mature non comporta necessariamente aiutare le fonti fossili.

Scrive Legambiente: “Perché sussidiamo petrolio, carbone e gas d’importazione quando oggi le fonti rinnovabili sono competitive e l’efficienza energetica è da tutti considerata un investimento strategico”? Affermazione che di piega a mio avviso ne fa solo una: se le fonti rinnovabili sono competitive rispetto alle altre, allora non dovrebbero beneficiare di aiuti, che invece complessivamente ammontano a circa 12 miliardi/anno, proprio la stessa cifra che Legambiente attribuisce alle fonti fossili.
Sarebbe più equilibrato affermare che le fonti rinnovabili, che la politica in particolare europea ha deciso dover essere per buona parte la nostra risorsa energetica del futuro, stanno diventando sempre più competitive, ma non abbastanza per competere con quelle fossili già ora e del tutto, a maggior ragione se sussidiate anche queste ultime.
E che quindi i sussidi a rinnovabili devono progressivamente scendere fino a scomparire per le tecnologie più mature. A patto che quelli alle fossili scompaiano anche loro, però.

Ma siamo alle solite: un tifo da stadio che non riesce a trovare l’ovvia sintesi e che fa twittare al ministro Zanonato che gli unici sussidi alle fonti fossili sono il cosiddetto CIP6. Inesatto, a mio parere, perché uno sconto fiscale sul gasolio da 1,6 miliardi all’autotrasporto o uno sconto sulla bolletta di un energivoro sono soldi.

Chicco Testa di Assoelettrica non è d’accordo con me: dice che è difficile considerare sussidi gli sconti alle accise autotrasporto, visto che da noi sono molto elevate. Vero, lo sono, ribatto io, per chi le paga. Se introduco un vantaggio (enorme, perché il sistema è tale da sterilizzare tutti gli aumenti di accise da anni) per un camion rispetto a un’auto privata, non sto forse sussidiando il primo a spese della seconda che deve pagare anche per lui? Non sto forse sottraendo soldi all’erario?

Questo sistema è come un controllo antidoping, che beccato uno positivo, dopa anche il concorrente per mettere le cose a posto. Quanto possiamo andare avanti così? Ci crediamo o no all’efficienza e alla decarbonizzazione? Se sì, le accise le devono pagare tutti. E se le pagassero tutti si abbasserebbero. E se le fonti rinnovabili mettessero in campo la loro maggior competitività, rivendicata da Legambiente, contribuendo ai costi sul sistema elettrico, di nuovo libereremmo risorse.

I sussidi sono una droga, rendono inefficienti gli operatori. E li rendono più lobbisti barricaderi e meno innovatori, ci avete fatto caso?

Grazie a Marianna Antenucci.

martedì 3 dicembre 2013

Banche italiane e fondazioni - D183

“Di cosa ti occupi?”
"Maaah, faccio attività intersettoriali, sai sempre più necessarie per rispondere alla complessità della contemporaneità”.

Questo dialogo me lo sono inventato? Sì, ma non mi sono inventato la frase: "A questi ambiti di intervento si affiancano le attività intersettoriali, sempre più necessarie per rispondere alla complessità della contemporaneità."
Se fossi un insegnante di italiano trovando questo periodo in un tema probabilmente me la prenderei con la vacuità dell'alunno che l'ha scritto, il quale invece di comunicare qualcosa si nasconde dietro alle parole (senza trovarne di meno ridicole, tra l'altro).

Da dove ho copiato la frase? Dal sito della Compagnia di San Paolo, l'azionista più grosso (quasi il 10%) di Banca Intesa, alla pagina che descrive gli scopi dell’organizzazione, com’era l’1/12/2013 alle 13 circa.
Prima del passaggio incriminato, la fondazione afferma di avere “finalità di interesse pubblico e di utilità sociale, allo scopo di favorire lo sviluppo civile, culturale ed economico delle comunità in cui opera”. Finanziandosi con i redditi di un patrimonio “costituito nei secoli” che la Compagnia “ha il compito di trasmettere intatto alle generazioni future”.

Dunque, la Compagnia vuol fare del bene senza perseguire un profitto eccedente quello necessario per conservare il capitale, che equivale a dire che non persegue necessariamente la massimizzazione del ritorno economico, nemmeno in rapporto al rischio sostenuto. Una sorta di benefattore illuminato attento a non perdere soldi.

Fondazioni simili alla Compagnia di San Paolo compongono complessivamente una quota di circa un quarto del capitale di Banca Intesa, mentre oltre il 70% è di piccoli azionisti sul mercato. Una compagine simile a quella di altre importanti banche italiane.

Fine della premessa. Ora la tesi.

Che azionisti di riferimento di buona parte del sistema bancario, riconducibili a enti locali, non siano interessati al profitto mi preoccupa.
Perché esclude almeno in parte la razionalità economica come faro delle decisioni. Mentre il capitalismo massimizza la ricchezza complessiva se i suoi agenti cercano il profitto, in un contesto dove la funzione di redistribuzione e di sicurezza sociale è invece affidata al Governo centrale.

Certo è legittimo che uno metta in piedi una banca coi suoi soldi o quelli che riesce a raccogliere per gestirla come vuole nel rispetto delle leggi, dando credito eventualmente solo a chi sposa la sua causa. L’esempio di Banca Etica è interessante, sia per la natura diffusa e privatistica dell’azionariato attuale pur in assenza di quotazione in borsa, sia per la trasparenza rispetto alle finalità e agli impieghi del denaro raccolto. (Per inciso: per me è già etico cercare il massimo successo economico rispettando e anzi difendendo la legalità, per questo non sono socio di Banca Etica e ho la tessera radicale).

Ma se gli azionisti di riferimento delle banche sono gli enti locali, la questione si complica. E si complica di più se il perseguimento di finalità eterodosse rispetto all’efficienza economica riguarda buona parte del credito complessivo.
Se un’azienda ha una buona idea di business e cerca capitale finanziario, ma non rientra in canoni morali imperscrutabili che nemmeno volendo sa come apprendere, cosa succede? Che si presenta a Banca Intesa con un progetto d’investimento con buone prospettive di rendimento ponderato al rischio e loro rispondono che preferiscono un non meglio specificato bene comune?

Forse questa storia, e qui rubo la considerazione a Valerio Federico e Alessandro Massari, è un sintomo di come la mano pubblica cerchi di mantenere surrettiziamente il controllo sul sistema creditizio malgrado la legge del ’90. Facendo peggio di prima: perché un controllo, con criteri opachi, da parte degli enti locali è ancora meno sensato territorialmente e costituzionalmente di uno da parte dell’amministrazione centrale.