martedì 30 dicembre 2014

Repliche di Derrick a cavallo 2014-2015

Il 30/12/2014 va in onda la replica della puntata del 5/6/2012 dedicata all'autarchia energetica.

Il 6/1/2015 quella del 26/6/2012: "Energia sottocosto".

martedì 16 dicembre 2014

Aspetti economici della coltivazione di idrocarburi nazionali - Parti 2 e 3 - D222-223

Si chiude qui un mini-ciclo dedicato ad aspetti economici dell’estrazione del petrolio e del gas nel nostro territorio.

Avevamo finito l’altra volta osservando che le norme prevedono compensazioni economiche anche in termini di investimenti nei luoghi interessati dalla coltivazione di idrocarburi. Ma sulla natura di questi investimenti le indicazioni normative sono generiche fino alla presa in giro. Ora le informazioni sul fondo ad hoc sono sparite dal sito del Ministero dello Sviluppo, ma da quello che capisco il sistema è ancora in piedi e lo Sbloccaitalia all’articolo 36 bis chiarisce che la quota delle maggiori entrate destinata a essi è il 30% delle imposte pagate dai nuovi progetti minerari per i primi dieci anni.

È previsto nella Legge99/2009 anche un fondo di compensazione per le popolazioni delle aree interessate dallo sfruttamento, che in origine era destinato ad abbassare il prezzo dei carburanti, ma che con lo Sbloccaitalia diventa “Fondo per la promozione di misure di sviluppo economico e l'attivazione di una social card”. Anche qui dobbiamo aspettare a vedere come i soldi saranno utilizzati.

C’è un altro elemento a mio avviso che dovrebbe essere considerato dal decisore pubblico riguardo all’estrazione di idrocarburi: il loro prezzo. Se ricordo bene Renzi ha motivato il rinvio della vendita di un’ulteriore tranche di Eni ed Enel anche sulla base del prezzo oggi troppo basso delle azioni e, implicitamente, con l’aspettativa che crescano in futuro. Se applichiamo lo stesso ragionamento al petrolio, visto il crollo recente e la ragionevole aspettativa che esso comporterà una riduzione delle riserve e quindi una successiva scarsità tale da rialzarne il prezzo, la cosa giusta da fare è rimandare l’estrazione.

Tra le zone d’Italia interessate da intensificazione della ricerca e della coltivazione di idrocarburi c’è la Sicilia, dove la Regione ha siglato recentemente due protocolli d’intesa collegati tra loro: uno insieme al Ministero dello Sviluppo Economico con Eni sulla conversione con salvaguardia occupazionale della raffineria di Gela ad attività diverse dalla raffinazione petrolifera, un altro con Assomineraria (rappresentanza confindustriale di operatori dell’upstream petrolifero) sull’estrazione di idrocarburi in particolare nel canale di Sicilia.

L’accordo con Eni in sostanza dice che l’azienda, dopo aver perso troppi soldi con la raffinazione, che come sappiamo a Derrick è un business falcidiato dal calo della domanda dei combustibili e dall’eccesso di capacità produttiva, investirà a Gela in produzioni non più legate al petrolio bensì soprattutto a biocombustibili e loro logistica oltre a quella del gas naturale liquido, mentre quasi 400 esuberi della raffineria verranno ricollocati nel settore minerario oil e gas, anche se solo un quarto in Sicilia dove Eni prevede investimenti per aumentare a regime la media annua di produzione di gas naturale di 700 milioni di metri cubi e di petrolio di 1,2 milioni di barili per dieci anni, che significherebbe più che raddoppiare la produzione annua di gas siciliano e aumentare di poco più del 20% quella petrolifera rispetto al 2013.
Il protocollo non cita peraltro i danni ambientali dalle attività della raffineria accertati dallo studio epidemiologico Sentieri.

E in cambio cosa promette la Regione? Nei due protocolli s’impegna a svolgere in modo efficiente gli iter autorizzativi e a non aumentare le royalty, fermi i poteri di legislazione statale e regionale. Impegni in realtà un po’ deboli se presi alla lettera, visto che appunto non possono comprimere l’autonomia in materia del consiglio Regionale e del Governo. Impegni che d'altra parte trovo dubbi in termini di tutela della concorrenza, se si deve intendere che la Regione o il Governo garantiranno ai firmatari accesso esclusivo alle attività minerarie.

Limitatamente all’accordo su Gela, invece, il do ut des con Eni è esplicito: Eni fa la conversione della raffineria (ma con meno occupati in essa) e in cambio intensifica l’upstream nel canale di Sicilia.
Contro gli accordi si sono espressi tra gli altri Legambiente e il Fatto Quotidiano, che con Maria Rita d’Orsogna ha mostrato l’inconsistenza di alcune dichiarazioni di Crocetta sulle attese stra-ottimistiche di introiti da royalty.

C’è legittima preoccupazione anche per l’incompatibilità tra valorizzazione del patrimonio ambientale anche ai fini di sviluppo del turismo e attività petrolifera.
Io credo che l’incompatibilità con il turismo locale delle attività minerarie a terra, in un territorio pregiato e fragile come quello italiano, sia quasi sempre affermabile. Per quanto riguarda le attività in mare aperto, da un lato è vero che la coltivazione di idrocarburi, per esempio in Adriatico, non ha impedito lo sviluppo turistico della riviera romagnola e marchigiana, dalla quale è spesso possibile vedere piattaforme al largo, dall'altro c’è anche in mare la questione sicurezza, che si lega alla capacità dello Stato di controllare il rispetto delle regole e di investire nei controlli.

Più in generale, però, come scrivevo sopra, credo che intensificare l'estrazione di idrocarburi nazionali ora sia un errore sul piano economico, tenendo conto del valore attuale e potenziale futuro delle riserve.

I due protocolli d'intesa siciliani si possono scaricare qui.

Per questa puntata ringrazio Zelda Raciti.

martedì 9 dicembre 2014

Aspetti economici della coltivazione di idrocarburi nazionali - Parte 1 - D221

Ha senso tirare fuori il petrolio e il gas del nostro sottosuolo?

Questo tema è tornato molto d’attualità dopo che prima la Strategia Energetica Nazionale del marzo 2013, poi il decreto Sbloccaitalia nell'autunno 2014 hanno rilanciato lo sfruttamento di queste risorse.
Sempre del 2014 è un protocollo tra la Regione Sicilia e Assomineraria, in rappresentanza dell’Eni e di altre aziende petrolifere, per favorire lo sfruttamento di pozzi vecchi e nuovi, in particolare al largo delle coste meridionali siciliane, di cui parlerò in dettaglio nella prossima puntata.

Dunque torniamo al quesito iniziale: il senso economico (inteso in modo olistico, dove anche gli effetti su ambiente e attività alternative sono valutabili economicamente) dello sfruttamento delle risorse nazionali di petrolio e gas.
Nei regimi concessori, come da noi, il petrolio appartiene allo Stato. Le sue riserve sono quindi una posta attiva in un ipotetico stato patrimoniale delle risorse pubbliche, che però non viene redatto o almeno non con la completezza e facilità d'accesso che dovrebbe avere un bilancio almeno nei confronti degli azionisti (in questo caso: noi).
Quando le riserve geologiche vengono consumate, la posta attiva dell'ipotetico stato patrimoniale si riduce e produce redditi privati, parte dei quali tornano allo Stato sotto forma di royalty e di tasse.

Uno studio di Nomisma Energia del 2012 mostra che le royalty nei paesi OCSE dove sono applicate sono generalmente più alte che in Italia, ma in qualche caso nel nord Europa (Norvegia, Irlanda, Danimarca) sono state abolite e sostituite da imposte sul reddito ad hoc. Il risultato generale secondo Nomisma è comunque che da noi la tassazione specifica per le attività di coltivazione degli idrocarburi è relativamente bassa, mentre si torna a livelli più allineati solo includendo tutte le imposte sul reddito delle aziende.
Un favore alle aziende petrolifere operanti in Italia? Proprio Davide Tabarelli, direttore di Nomisma Energia, in una conversazione a margine di un convegno mi diceva che parte di questo gap tra le nostre royalty e quelle di altri Paesi potrebbe invece spiegarsi con la necessità di compensare, rispetto agli investitori, la maggiore incertezza e inefficienza dell’apparato burocratico italiano rispetto ad altri.

Resta il fatto che più basse sono le royalty meno della rendita di estrazione il nostro Stato si riprende. E perché la riduzione delle riserve di idrocarburi sia più sostenibile almeno dal punto di vista economico occorrerebbe destinare le royalty a investimenti che aumentino il valore di altre parti di questo patrimonio.
Un’operazione di compensazione di questo tipo il Ministero dello Sviluppo Economico aveva previsto con il ministro Zanonato, attraverso un “fondo investimenti per i territori interessati” al quale destinare tra il 15 al 30% dell’IRES pagata da aziende di coltivazione di idrocarburi per i nuovi progetti. Fondo che credo desse attuazione all’articolo 16 del decreto-Legge del 24 gennaio 2012 come convertito, che prevede la destinazione a “progetti  infrastrutturali  e  occupazionali  di crescita” dei territori interessati. Definizione, che, ne converrete, è piuttosto generica e si presta a scelte arbitrarie.
Chiarimenti arrivarono però con un decreto del Ministero dell’Economia del 12 settembre 2013, art. 1 comma 3, che completa la definizione così (la riporto com’è scritta):
“L'intervento  del  Fondo  e'  finalizzato  al  finanziamento  di progetti  strategici,  sia  di  carattere  infrastrutturale  sia   di carattere immateriale, di rilievo regionale, provinciale  o  locale, aventi natura di grandi progetti  o  di  investimenti  articolati  in singoli interventi di consistenza progettuale ovvero realizzativa tra loro funzionalmente connessi, in relazione a  obiettivi  e  risultati quantificabili e misurabili, anche  per  quanto  attiene  al  profilo temporale.”

Il discorso continua qui

martedì 2 dicembre 2014

Il giallo del dispositivo antiparticolato Dukic - D220

Mesi fa sono stato contattato da Anna Dukic e Michele Campostrini, amministratore delegato e presidente di Dukic Day Dream srl, un’azienda vicentina che nel 2005 ha brevettato un dispositivo elettromagnetico che, applicato ai condotti di alimentazione del gasolio in motori diesel, riduce secondo l’azienda considerevolmente le emissioni inquinanti, con effetti positivi anche su consumi e potenza.

Un verbale di conformità del centro prove di Bari del Ministero dei Trasporti nel 2008 ha avvalorato il risultato riguardo a riduzione di emissioni di polveri, CO e idrocarburi incombusti idonee a rendere il veicolo-campione in grado di soddisfare le norme Euro 4 da una condizione di partenza Euro 3. Il ministero dei trasporti però non ha mai omologato il dispositivo come dispositivo antiinquinamento.

Sentiamo Anna Dukic al microfono di Derrick.




Dukic riferisce poi che il Centro Prove non ha ritenuto di dover fare uno dei test previsti dalla normativa, quello di durabilità del dispositivo, la cui assenza invece il Ministero rileva come ragione della mancata omologazione.

Ora, dalla lettura della norma rilevante (DM42/2008 allegato E) emerge questo:
·       Da un lato la prova di durabilità per l’omologazione dei dispositivi antiparticolato è “finalizzata all’accumulo di particolato nel sistema”, accumulo impossibile in un dispositivo sull’alimentazione come il Dukic.
·       Dall’altro la prova a maggior ragione poteva essere fatta senza problemi dal dispositivo Dukic, che invece ha scelto di contestarne l’applicabilità.

In ogni caso ha ragione Dukic quando dice che, se le cose stanno così, il Ministero avrebbe dovuto prendere provvedimenti nei confronti del Centro Prove contestandone le decisioni.

Un filtro antiparticolato
L’azienda, in quello che sembra un cambio di tattica, ha poi deciso di approfondire le vicende del proprio concorrente nel mercato dei dispositivi antiparticolato, nel frattempo omologato e divenuto sostanziale monopolista: il filtro antiparticolato. Riguardo a cui Dukic ha promosso - non da sola - iniziative giudiziarie volte a contestarne la rispondenza alle norme.

Quello dell’efficacia dei filtri antiparticolato e dei loro effetti ecologici in fase di rigenerazione – a quanto mi risulta non verificata nel momento in cui scrivo dai test di legge - è un tema senz’altro rilevante e su cui autorevoli fonti contrastano, ma Derrick non può affrontarlo in questa puntata.

Torno dunque al dispositivo Dukic, tema di oggi: come funziona tecnicamente?

Dukic, che Derrick sappia, non ha mai fornito una spiegazione scientifica, né a Derrick che pure ne ha visitato il laboratorio, né ad altri. In particolare non ci sono teorie note a Derrick su come forze elettromagnetiche modificherebbero la disposizione o addirittura la composizione delle molecole del carburante. Un’ipotesi è che avvenga una scissione delle molecole di idrocarburi, detta anche cracking. Fenomeni simili sono provocati nelle raffinerie attraverso reattori che forniscono calore e non attraverso forze elettromagnetiche. Peraltro se il cracking nel Dukic avviene, dovrebbe essere verificabile con un’analisi del combustibile a valle del dispositivo, analisi che a Derrick non risulta mai stata resa nota.

Altra ipotesi è che ci siano effetti magnetici o diamagnetici di orientamento delle particelle di combustibile in grado di farle bruciare meglio.
Effetti favorevoli di sistemi magnetici applicati ai condotti di alimentazione del carburante di motori automobilistici sono stati finora esclusi in prodotti in commercio da oltre trent’anni negli Stati Uniti, con test ufficiali dell’EPA, l’agenzia USA di protezione dell’ambiente.
Non avendo informazioni certe sul principio di funzionamento del Dukic, Derrick non può dire se questa evidenza sia pertinente rispetto al nostro apparecchio. Se si prendono per buone alcune delle affermazioni di Campostrini in una lunghissima discussione online sul sito Autopareri.com, si direbbe di no.

Derrick, che non è Report ma che sulle cose cerca di andare in fondo sulla base delle evidenze, a questo punto non aspetta altro che nuove informazioni attendibili da pubblicare. Ed è disponibile sia ad assistere a test insieme a consulenti di propria fiducia, sia a guidare un’auto con un Dukic installato attivabile e disattivabile dal guidatore, cosa possibile visto che l’apparecchio necessita di alimentazione elettrica per funzionare.

Aspetto contributi e ringrazio per questa puntata Antonio Sileo.


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