domenica 15 dicembre 2019

Treno elettrico (Puntata 421 in onda il 17/12/19)


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Prezzo storico della benzina per auto in Italia
Concludevo l’ultima puntata identificando in un segmento sociale non urbano e per cui la digitalizzazione comporta pochi effetti nel lavoro quotidiano quello tipicamente più toccato dai costi dei carburanti per autotrazione (che peraltro storicamente in Italia non sono cresciuti in termini reali, vd. foto), e che quindi si oppone di più a ipotesi di carbon tax o di altri elementi che ne scoraggino l’uso. 

Mi ha scritto Stefano Galli, imprenditore agricolo di Montedinove in provincia di Ascoli, facendomi notare che fuori dal contesto urbano c’è molta meno scelta di modi alternativi allo spostarsi con mezzi privati. E lui giustamente rivendica che il suo mezzo a metano è più sostenibile di un diesel fermo a un semaforo cittadino. (Anch’io marchigiano, posso confermare la tradizione di buona penetrazione del metano per auto nella regione, e non riesco a non citare (è la seconda volta) le parole di un libro di Gianfranco Tramutoli edito da Fernandel: “Ho passato la maggior parte della mia infanzia a fare la fila a una pompa di metano con mio padre”).

Credo che il dualismo tra mondo urbano ed extraurbano sia sempre più netto, e come ho già tentato di argomentare credo sia anche esacerbato dalla moda degli assi di trasporto veloci tra capoluoghi a fronte di una rete di strade locali in qualche caso letteralmente abbandonate e di servizi di trasporto extraurbano insufficienti, alla faccia della retorica della valorizzazione del territorio. Più la provincia si spopola, più è difficile che stiano economicamente in piedi anche le linee ferroviarie secondarie, che infatti inevitabilmente si riducono. Una notizia un po’ in controtendenza, che ho preso come spesso capita dall’Economist (che i numi lo proteggano), è un progetto affascinante – e forse perfino con qualche chance di sensatezza economica – di Network Rail, un operatore ferroviario pubblico britannico (in un contesto dove invece molti sono privati dopo una imponente privatizzazione e introduzione del mercato nel settore) che opera linee secondarie elettrificate a una tensione più bassa di quelle principali. Una tensione simile a quella a cui funzionano i generatori elettrici fotovoltaici. Da cui l’idea di usare lo spazio lungo le linee per installare pannelli fotovoltaici da collegare direttamente alla rete di alimentazione della linea ferroviaria, con l’evidente sinergia di non dover potenziare o addirittura costruire nuovi tratti di rete elettrica esterni. In effetti le linee ferroviarie elettrificate sono un’infrastruttura elettrica complessa che può in qualche caso offrire sinergie con quella principale. In Italia, per esempio, la rete elettrica delle ferrovie, che includeva anche impianti di generazione, fu ceduta almeno in parte al gestore della rete elettrica ad alta tensione, che per questo motivo paga alle ferrovie una sorta di canone.

I treni sembrano un buon ambito di sperimentazione anche per l’idrogeno. Ricorderete la puntata qui sui due treni alimentati a idrogeno già in funzione in Germania (link sotto), tecnologia questa di cui si occupa anche lo stabilimento piemontese Alstom di Savigliano, che nell’ambito di un programma UE sta sviluppando questo filone anche insieme all’università e al Politecnico di Torino, come mi segnala Gregorio Eboli, che ringrazio.


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lunedì 9 dicembre 2019

Petrolio e sussidi ai carburanti in Iran (Puntata 420 in onda il 10/12/19)


Con Giovanni Mitrotta

Per il fondo monetario internazionale, i sussidi al consumo di fonti fossili d’energia, intesi come il gap tra il prezzo effettivamente pagato e il prezzo efficiente (cioè quello di mercato corretto con le esternalità ambientali) valgono nel mondo il 6,5% del prodotto interno lordo. Un valore impressionante. Molti Paesi, compresa l’Italia nell’ambito di un programma G20 di disintossicazione da questi sussidi, si sono impegnati a ridurli, e alcuni anche grandi, come il Messico, lo hanno fatto davvero. È d’attualità il caso dell’Iran, il cui regime sta duramente contrastando proteste contro l’aumento del prezzo dei carburanti per autotrazione.
Autobotte petrolifera iraniana prima della nazionalizzazione
(Immagine da Pinterest)

La storia del petrolio iraniano inizia nel 1909 con la fondazione della Anglo-Persian Oil Company, che aveva il governo inglese come azionista di maggioranza, e cui l’Iran aveva dato una concessione di 60 anni su buona parte dei giacimenti del Paese in cambio una royalty del 16%, poi elevata nel 1933 sotto il regime di Rezha Shah Palhavi, fautore di una prima modernizzazione e laicizzazione del Paese. Questi lasciò il potere al figlio dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando il Paese venne occupato dagli alleati proprio per controllare i pozzi petroliferi.
La reazione nazionalista fu violenta con l’uccisione nel 1951 del Primo Ministro Ali Razmara, filo-occidentale e contrario alla nazionalizzazione del settore petrolifero che il parlamento invece successivamente approvò, almeno in una versione parziale che comunque non fu accettata dai soci inglesi, che reagirono prima con un embargo e poi appoggiarono un colpo di Stato che si risolse con il ritorno del re.
Da allora l’azienda petrolifera di Stato ha attribuito ad aziende occidentali concessioni di coltivazione petrolifera, finché con la rivoluzione khomeneista del 1979 iniziò un nuovo periodo di petrolio di Stato. Gli iraniani, scrive l’Economist nel numero di fine novembre 2019, sembrano considerare un diritto innato quello di avere la benzina quasi regalata, diritto considerato intrinseco anche alla politica di Khomenei.
Inutile dire che i carburanti sussidiati hanno creato un mercato nero di contrabbando all’estero, in modo simile a come perfino dalle nostre parti si scambiano in nero prodotti per lucrare sulla diversa tassazione tra Paesi.

La strana associazione tra prezzi dei carburanti e welfare, in generale, è una questione su cui riflettere, e sembra legare proteste in Paesi in via di sviluppo con quelle degli strati popolari di stati avanzati (i gilet jaunes in Francia, per esempio, che in Italia non vediamo probabilmente solo perché nessun Governo, men che meno quello attuale che pure l’aveva annunciato, ha il nerbo per intervenire sulle imposte ambientali).
Mi sembra che si possa identificare una sorta di proletariato extraurbano perlopiù non giovane, visto che i giovani l’auto privata spesso non l’hanno proprio, composto di fasce sociali rimaste indietro rispetto all’urbanizzazione e alla digitalizzazione dell’economia, che si sente più che altri stati sociali colpito dall’aumento dei prezzi dei carburanti. Naturalmente questa mia affermazione è avventata e richiede più analisi, che proverò se ne avrò gli elementi a portare avanti in altre puntate. Intanto ringrazio per questa il coautore Giovanni Mitrotta.

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martedì 3 dicembre 2019

Valutazione degli insegnanti (Puntate 374-419 in onda il 30/10/18 e 3/12/19)

Gli insegnanti: forse una delle categorie
più importanti per il nostro futuro,
chiusi in Italia in un corporativismo
che ci danneggia.
Puntata del 30/10/18

Chi di noi non ha esperienza di quanto sia stata importante per la propria formazione la qualità degli insegnanti a scuola?
Quale genitore non pagherebbe care informazioni preventive sul talento e la professionalità dei prof nella classe in cui pensa di iscrivere il figlio?

Valutare i docenti si può, con tecniche già testate in altri Paesi, e c’è evidenza che la presenza di sistemi di valutazione, se efficaci, aumenta la qualità del loro lavoro.

Ma gli amici insegnanti che ho io sembrano perlopiù convinti che qualsiasi giudizio al loro lavoro non possa che essere distorto, inutile o lesivo della propria “libertà d’insegnamento”. Al che io rispondo che mi preoccupa questo corporativismo che preferisce la certezza di proteggere gli incapaci al rischio di essere ingiustamente valutati.
Rischio che si riduce con accorgimenti banali, statistici e di metodo, che possono prevedere l’utilizzo sia di dati comparativi interni a una scuola, sia standard generali, sia interviste a diversi portatori di interessi.
Set di strumenti tra cui l’OCSE include anche l’autovalutazione e la valutazione da parte degli studenti.

Ritenere che un professionista possa essere valutato solo da chi sa più di lui del suo mestiere, poi, è una delle boiate più incredibili tra quelle che vengono usate di solito da chi non vuole essere valutato, in questo e altri ambiti. È come dire che solo uno chef può valutare un ristorante. La verità è che è sì utile il parere di altri chef, purché siano un campione rappresentativo e non solo magari un concorrente rancoroso, ma lo è altrettanto o più quello di chi al ristorante ci mangia.

Ecco alcuni strumenti di valutazione degli insegnanti adottabili o già adottati altrove (per esempio in alcuni stati USA):
  1. Valutazione da parte dei presidi
  2. Test standard sull’accresciuta performance degli studenti (da noi oggi i test invalsi si fanno ma non hanno impatto diretto sulla carriera o sulla remunerazione dei docenti)
  3. Valutazione statistica dei risultati degli allievi nella successiva carriera formativa
  4. Valutazione di esperti esterni alla scuola
  5. Interviste ad allievi e genitori
  6. Peer evaluation tra docenti e autovalutazione

E cosa si potrebbe fare con i risultati di queste valutazioni? Sempre secondo l’OCSE, potrebbero essere l’input per attivare avanzamenti o rallentamenti della carriera degli insegnanti, e incentivi (o disincentivi) economici.

Aggiungo io che alcuni dei risultati, resi pubblici, sarebbero utili alle famiglie per scegliere consapevolmente una scuola.

Oggi in Italia esiste un sistema di rating delle scuole superiori basato sui risultati della carriera scolastica successiva degli allievi che le hanno frequentate (chi scrive lo ha usato per scegliere il liceo di sua figlia), sviluppato dalla Fondazione Agnelli. È solo una delle logiche di confronto possibili, è parziale e quasi certamente rischia di misurare anche altri fattori sociali legati alla comunità presso cui le scuole hanno il proprio bacino di allievi. Ma è uno strumento disponibile, intanto, e può essere integrato con altre informazioni.



Puntata del 3/12/19

La puntata qui sopra è una di quelle di Derrick che hanno suscitato più interesse, più critiche (ma solo dagli insegnanti, stranamente) e più richieste di approfondimenti.
Se è vero che il più delle volte è subito chiaro a studenti e genitori chi siano i prof bravi quando hanno a che fare con loro, di queste informazioni la società non fa da noi quasi nessun uso, né in termini di carriere dei prof, né di messa a disposizione di queste informazioni alle famiglie, che potrebbero scegliendo consapevolmente innescare una concorrenza virtuosa tra istituti ancor più di quanto il semplice passaparola già faccia.
Avevamo visto che le tecniche più promettenti, secondo l’OCSE e secondo numerose amministrazioni di paesi avanzati, in particolare negli Stati Uniti, sono l’analisi di valore aggiunto e la valutazione diretta dei prof. Vediamo qualche dettaglio in più.

L’analisi di valore aggiunto è la misura delle performance che gli allievi ottengono nel proseguimento della loro carriera scolastica successivamente all’esposizione a un insegnante (la fondazione Agnelli usa questa tecnica).
Si tratta di un’analisi che viene fatta con strumenti statistici in grado di depurare, sebbene non perfettamente, la distorsione dovuta alla qualità degli studenti in ingresso e al contesto. In altri termini: se aree o scuole tendono ad avere studenti destinati ad andare meglio in futuro, per motivi magari di benessere sociale o economico o di qualità della mera infrastruttura scolastica, il sistema ne tiene conto, e mira a dare una valutazione positiva solo ai prof i cui allievi in futuro fanno meglio di quel che statisticamente ci si poteva attendere da quel plesso scolastico e dal suo bacino sociale, e viceversa.
Tuttavia, come scrive l’esperto Justin Raudys, c’è evidenza che l’analisi di valore aggiunto tenda a danneggiare gli insegnanti cui toccano gli studenti eccellenti, a causa del cosiddetto “effetto soffitto” per cui è più difficile per studenti bravi in un contesto di eccellenza distinguersi ulteriormente in modo statisticamente evidente. Altro problema è la difficoltà del sistema di valutare i casi medi (cioè di "leggere" i risultati di popolazioni di studenti che si discostano poco significativamente dalle medie).

Direi che da quel che capisco tutte le altre tecniche già diffuse di valutazione degli insegnanti si basano sull’autovalutazione o la valutazione di terzi, anche attraverso l’osservazione degli insegnanti al lavoro.
Questa, l’osservazione, è però onerosa per le scuole, perché richiede di affiancare personale agli insegnanti, ma può essere molto utile soprattutto se associata a piani di formazione e sviluppo, dove l’osservazione diventa una fase successiva a un programma di incremento delle competenze didattiche. 
Interessante uno studio recente del dipartimento dell’educazione del Rhode Island secondo cui quando gli osservatori sono altri insegnanti essi tendono a dare giudizi più bassi rispetto al caso in cui a osservare siano i direttori didattici (anche qui, niente paura, sono distorsioni che in quanto verificabili diventano anche statisticamente depurabili).
L’uso di video per l’osservazione, in alternativa, potrebbe avere vantaggi di efficienza e di spontaneità (non c’è interazione con l’osservatore). Ma se fino a oggi le associazioni dei piloti aerei del mondo hanno ottenuto la mancata installazione di videocamere nei cockpit – le quali in rari ma significativi casi avrebbero potuto essere dirimenti in investigazioni post-incidente – dubito che una cosa del genere sarà accettata facilmente nelle scuole.
Le osservazioni, come ha scritto la studiosa Charlotte Danielson, funzionano meglio se sono analiticamente strutturate riguardo ad aspetti predefiniti, come prevede anche un metodo sviluppato dallo studioso Robert Marzano. Tra i vari studi empirici ce n’è uno di una scuola della Florida che ha adottato il metodo Marzano di valutazione su parametri preconcordati con gli stessi docenti, traendone vantaggi nella qualità stessa dell’insegnamento.

In altre parole: i sistemi di valutazione non servono solo a capire chi è bravo tra gli insegnanti (cosa già utile di per sé), ma a rendere tutti (in particolare chi non sia già un talento) un po’ più bravi.


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