domenica 15 dicembre 2019

Treno elettrico (Puntata 421 in onda il 17/12/19)


Immagine
Prezzo storico della benzina per auto in Italia
Concludevo l’ultima puntata identificando in un segmento sociale non urbano e per cui la digitalizzazione comporta pochi effetti nel lavoro quotidiano quello tipicamente più toccato dai costi dei carburanti per autotrazione (che peraltro storicamente in Italia non sono cresciuti in termini reali, vd. foto), e che quindi si oppone di più a ipotesi di carbon tax o di altri elementi che ne scoraggino l’uso. 

Mi ha scritto Stefano Galli, imprenditore agricolo di Montedinove in provincia di Ascoli, facendomi notare che fuori dal contesto urbano c’è molta meno scelta di modi alternativi allo spostarsi con mezzi privati. E lui giustamente rivendica che il suo mezzo a metano è più sostenibile di un diesel fermo a un semaforo cittadino. (Anch’io marchigiano, posso confermare la tradizione di buona penetrazione del metano per auto nella regione, e non riesco a non citare (è la seconda volta) le parole di un libro di Gianfranco Tramutoli edito da Fernandel: “Ho passato la maggior parte della mia infanzia a fare la fila a una pompa di metano con mio padre”).

Credo che il dualismo tra mondo urbano ed extraurbano sia sempre più netto, e come ho già tentato di argomentare credo sia anche esacerbato dalla moda degli assi di trasporto veloci tra capoluoghi a fronte di una rete di strade locali in qualche caso letteralmente abbandonate e di servizi di trasporto extraurbano insufficienti, alla faccia della retorica della valorizzazione del territorio. Più la provincia si spopola, più è difficile che stiano economicamente in piedi anche le linee ferroviarie secondarie, che infatti inevitabilmente si riducono. Una notizia un po’ in controtendenza, che ho preso come spesso capita dall’Economist (che i numi lo proteggano), è un progetto affascinante – e forse perfino con qualche chance di sensatezza economica – di Network Rail, un operatore ferroviario pubblico britannico (in un contesto dove invece molti sono privati dopo una imponente privatizzazione e introduzione del mercato nel settore) che opera linee secondarie elettrificate a una tensione più bassa di quelle principali. Una tensione simile a quella a cui funzionano i generatori elettrici fotovoltaici. Da cui l’idea di usare lo spazio lungo le linee per installare pannelli fotovoltaici da collegare direttamente alla rete di alimentazione della linea ferroviaria, con l’evidente sinergia di non dover potenziare o addirittura costruire nuovi tratti di rete elettrica esterni. In effetti le linee ferroviarie elettrificate sono un’infrastruttura elettrica complessa che può in qualche caso offrire sinergie con quella principale. In Italia, per esempio, la rete elettrica delle ferrovie, che includeva anche impianti di generazione, fu ceduta almeno in parte al gestore della rete elettrica ad alta tensione, che per questo motivo paga alle ferrovie una sorta di canone.

I treni sembrano un buon ambito di sperimentazione anche per l’idrogeno. Ricorderete la puntata qui sui due treni alimentati a idrogeno già in funzione in Germania (link sotto), tecnologia questa di cui si occupa anche lo stabilimento piemontese Alstom di Savigliano, che nell’ambito di un programma UE sta sviluppando questo filone anche insieme all’università e al Politecnico di Torino, come mi segnala Gregorio Eboli, che ringrazio.


Link:

lunedì 9 dicembre 2019

Petrolio e sussidi ai carburanti in Iran (Puntata 420 in onda il 10/12/19)


Con Giovanni Mitrotta

Per il fondo monetario internazionale, i sussidi al consumo di fonti fossili d’energia, intesi come il gap tra il prezzo effettivamente pagato e il prezzo efficiente (cioè quello di mercato corretto con le esternalità ambientali) valgono nel mondo il 6,5% del prodotto interno lordo. Un valore impressionante. Molti Paesi, compresa l’Italia nell’ambito di un programma G20 di disintossicazione da questi sussidi, si sono impegnati a ridurli, e alcuni anche grandi, come il Messico, lo hanno fatto davvero. È d’attualità il caso dell’Iran, il cui regime sta duramente contrastando proteste contro l’aumento del prezzo dei carburanti per autotrazione.
Autobotte petrolifera iraniana prima della nazionalizzazione
(Immagine da Pinterest)

La storia del petrolio iraniano inizia nel 1909 con la fondazione della Anglo-Persian Oil Company, che aveva il governo inglese come azionista di maggioranza, e cui l’Iran aveva dato una concessione di 60 anni su buona parte dei giacimenti del Paese in cambio una royalty del 16%, poi elevata nel 1933 sotto il regime di Rezha Shah Palhavi, fautore di una prima modernizzazione e laicizzazione del Paese. Questi lasciò il potere al figlio dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando il Paese venne occupato dagli alleati proprio per controllare i pozzi petroliferi.
La reazione nazionalista fu violenta con l’uccisione nel 1951 del Primo Ministro Ali Razmara, filo-occidentale e contrario alla nazionalizzazione del settore petrolifero che il parlamento invece successivamente approvò, almeno in una versione parziale che comunque non fu accettata dai soci inglesi, che reagirono prima con un embargo e poi appoggiarono un colpo di Stato che si risolse con il ritorno del re.
Da allora l’azienda petrolifera di Stato ha attribuito ad aziende occidentali concessioni di coltivazione petrolifera, finché con la rivoluzione khomeneista del 1979 iniziò un nuovo periodo di petrolio di Stato. Gli iraniani, scrive l’Economist nel numero di fine novembre 2019, sembrano considerare un diritto innato quello di avere la benzina quasi regalata, diritto considerato intrinseco anche alla politica di Khomenei.
Inutile dire che i carburanti sussidiati hanno creato un mercato nero di contrabbando all’estero, in modo simile a come perfino dalle nostre parti si scambiano in nero prodotti per lucrare sulla diversa tassazione tra Paesi.

La strana associazione tra prezzi dei carburanti e welfare, in generale, è una questione su cui riflettere, e sembra legare proteste in Paesi in via di sviluppo con quelle degli strati popolari di stati avanzati (i gilet jaunes in Francia, per esempio, che in Italia non vediamo probabilmente solo perché nessun Governo, men che meno quello attuale che pure l’aveva annunciato, ha il nerbo per intervenire sulle imposte ambientali).
Mi sembra che si possa identificare una sorta di proletariato extraurbano perlopiù non giovane, visto che i giovani l’auto privata spesso non l’hanno proprio, composto di fasce sociali rimaste indietro rispetto all’urbanizzazione e alla digitalizzazione dell’economia, che si sente più che altri stati sociali colpito dall’aumento dei prezzi dei carburanti. Naturalmente questa mia affermazione è avventata e richiede più analisi, che proverò se ne avrò gli elementi a portare avanti in altre puntate. Intanto ringrazio per questa il coautore Giovanni Mitrotta.

Link:


martedì 3 dicembre 2019

Valutazione degli insegnanti (Puntate 374-419 in onda il 30/10/18 e 3/12/19)

Gli insegnanti: forse una delle categorie
più importanti per il nostro futuro,
chiusi in Italia in un corporativismo
che ci danneggia.
Puntata del 30/10/18

Chi di noi non ha esperienza di quanto sia stata importante per la propria formazione la qualità degli insegnanti a scuola?
Quale genitore non pagherebbe care informazioni preventive sul talento e la professionalità dei prof nella classe in cui pensa di iscrivere il figlio?

Valutare i docenti si può, con tecniche già testate in altri Paesi, e c’è evidenza che la presenza di sistemi di valutazione, se efficaci, aumenta la qualità del loro lavoro.

Ma gli amici insegnanti che ho io sembrano perlopiù convinti che qualsiasi giudizio al loro lavoro non possa che essere distorto, inutile o lesivo della propria “libertà d’insegnamento”. Al che io rispondo che mi preoccupa questo corporativismo che preferisce la certezza di proteggere gli incapaci al rischio di essere ingiustamente valutati.
Rischio che si riduce con accorgimenti banali, statistici e di metodo, che possono prevedere l’utilizzo sia di dati comparativi interni a una scuola, sia standard generali, sia interviste a diversi portatori di interessi.
Set di strumenti tra cui l’OCSE include anche l’autovalutazione e la valutazione da parte degli studenti.

Ritenere che un professionista possa essere valutato solo da chi sa più di lui del suo mestiere, poi, è una delle boiate più incredibili tra quelle che vengono usate di solito da chi non vuole essere valutato, in questo e altri ambiti. È come dire che solo uno chef può valutare un ristorante. La verità è che è sì utile il parere di altri chef, purché siano un campione rappresentativo e non solo magari un concorrente rancoroso, ma lo è altrettanto o più quello di chi al ristorante ci mangia.

Ecco alcuni strumenti di valutazione degli insegnanti adottabili o già adottati altrove (per esempio in alcuni stati USA):
  1. Valutazione da parte dei presidi
  2. Test standard sull’accresciuta performance degli studenti (da noi oggi i test invalsi si fanno ma non hanno impatto diretto sulla carriera o sulla remunerazione dei docenti)
  3. Valutazione statistica dei risultati degli allievi nella successiva carriera formativa
  4. Valutazione di esperti esterni alla scuola
  5. Interviste ad allievi e genitori
  6. Peer evaluation tra docenti e autovalutazione

E cosa si potrebbe fare con i risultati di queste valutazioni? Sempre secondo l’OCSE, potrebbero essere l’input per attivare avanzamenti o rallentamenti della carriera degli insegnanti, e incentivi (o disincentivi) economici.

Aggiungo io che alcuni dei risultati, resi pubblici, sarebbero utili alle famiglie per scegliere consapevolmente una scuola.

Oggi in Italia esiste un sistema di rating delle scuole superiori basato sui risultati della carriera scolastica successiva degli allievi che le hanno frequentate (chi scrive lo ha usato per scegliere il liceo di sua figlia), sviluppato dalla Fondazione Agnelli. È solo una delle logiche di confronto possibili, è parziale e quasi certamente rischia di misurare anche altri fattori sociali legati alla comunità presso cui le scuole hanno il proprio bacino di allievi. Ma è uno strumento disponibile, intanto, e può essere integrato con altre informazioni.



Puntata del 3/12/19

La puntata qui sopra è una di quelle di Derrick che hanno suscitato più interesse, più critiche (ma solo dagli insegnanti, stranamente) e più richieste di approfondimenti.
Se è vero che il più delle volte è subito chiaro a studenti e genitori chi siano i prof bravi quando hanno a che fare con loro, di queste informazioni la società non fa da noi quasi nessun uso, né in termini di carriere dei prof, né di messa a disposizione di queste informazioni alle famiglie, che potrebbero scegliendo consapevolmente innescare una concorrenza virtuosa tra istituti ancor più di quanto il semplice passaparola già faccia.
Avevamo visto che le tecniche più promettenti, secondo l’OCSE e secondo numerose amministrazioni di paesi avanzati, in particolare negli Stati Uniti, sono l’analisi di valore aggiunto e la valutazione diretta dei prof. Vediamo qualche dettaglio in più.

L’analisi di valore aggiunto è la misura delle performance che gli allievi ottengono nel proseguimento della loro carriera scolastica successivamente all’esposizione a un insegnante (la fondazione Agnelli usa questa tecnica).
Si tratta di un’analisi che viene fatta con strumenti statistici in grado di depurare, sebbene non perfettamente, la distorsione dovuta alla qualità degli studenti in ingresso e al contesto. In altri termini: se aree o scuole tendono ad avere studenti destinati ad andare meglio in futuro, per motivi magari di benessere sociale o economico o di qualità della mera infrastruttura scolastica, il sistema ne tiene conto, e mira a dare una valutazione positiva solo ai prof i cui allievi in futuro fanno meglio di quel che statisticamente ci si poteva attendere da quel plesso scolastico e dal suo bacino sociale, e viceversa.
Tuttavia, come scrive l’esperto Justin Raudys, c’è evidenza che l’analisi di valore aggiunto tenda a danneggiare gli insegnanti cui toccano gli studenti eccellenti, a causa del cosiddetto “effetto soffitto” per cui è più difficile per studenti bravi in un contesto di eccellenza distinguersi ulteriormente in modo statisticamente evidente. Altro problema è la difficoltà del sistema di valutare i casi medi (cioè di "leggere" i risultati di popolazioni di studenti che si discostano poco significativamente dalle medie).

Direi che da quel che capisco tutte le altre tecniche già diffuse di valutazione degli insegnanti si basano sull’autovalutazione o la valutazione di terzi, anche attraverso l’osservazione degli insegnanti al lavoro.
Questa, l’osservazione, è però onerosa per le scuole, perché richiede di affiancare personale agli insegnanti, ma può essere molto utile soprattutto se associata a piani di formazione e sviluppo, dove l’osservazione diventa una fase successiva a un programma di incremento delle competenze didattiche. 
Interessante uno studio recente del dipartimento dell’educazione del Rhode Island secondo cui quando gli osservatori sono altri insegnanti essi tendono a dare giudizi più bassi rispetto al caso in cui a osservare siano i direttori didattici (anche qui, niente paura, sono distorsioni che in quanto verificabili diventano anche statisticamente depurabili).
L’uso di video per l’osservazione, in alternativa, potrebbe avere vantaggi di efficienza e di spontaneità (non c’è interazione con l’osservatore). Ma se fino a oggi le associazioni dei piloti aerei del mondo hanno ottenuto la mancata installazione di videocamere nei cockpit – le quali in rari ma significativi casi avrebbero potuto essere dirimenti in investigazioni post-incidente – dubito che una cosa del genere sarà accettata facilmente nelle scuole.
Le osservazioni, come ha scritto la studiosa Charlotte Danielson, funzionano meglio se sono analiticamente strutturate riguardo ad aspetti predefiniti, come prevede anche un metodo sviluppato dallo studioso Robert Marzano. Tra i vari studi empirici ce n’è uno di una scuola della Florida che ha adottato il metodo Marzano di valutazione su parametri preconcordati con gli stessi docenti, traendone vantaggi nella qualità stessa dell’insegnamento.

In altre parole: i sistemi di valutazione non servono solo a capire chi è bravo tra gli insegnanti (cosa già utile di per sé), ma a rendere tutti (in particolare chi non sia già un talento) un po’ più bravi.


Link utili:

lunedì 25 novembre 2019

Stato dell'infrastruttura elettrica in Italia (Puntata 418 in onda il 26/11/19)

Ogni tanto qui proviamo a fare il punto sullo stato dell’infrastruttura energetica in Italia e Europa, e direi che è tempo oggi di un piccolo sommario aggiornamento (ai link sotto si trovano altre puntate e approfondimenti sullo stesso tema).
Mulino a Meersburg

L’occasione è l’inaugurazione da parte di Terna, il gestore della rete elettrica italiana ad alta tensione, della prima sezione del cavo sottomarino che collega Pescara con il Montenegro con una capacità di 600 MW, quanto una centrale elettrica di dimensioni medio-grandi, e che interconnetterà un po’ l’Italia coi Balcani, un’area a sua volta in corso di integrazione e ammodernamento in termini di infrastrutture e mercati elettrici.
La capacità di questo elettrodotto sarà in parte a disposizione di qualunque operatore abbia interesse a usarla pagandone gli oneri di passaggio, come avviene di norma per la rete Terna, in parte di un consorzio di aziende che si erano in precedenza impegnate a finanziare l’infrastruttura in cambio di vantaggi immediati sul prezzo di approvvigionamento dell’energia, un meccanismo su cui non ho tempo di entrare in dettaglio e che fa parte di un set di misure di politica industriale attuate attraverso le risorse economiche del sistema delle bollette.

E il parco centrali elettriche italiane in che condizioni è? Complessivamente buone, soprattutto rispetto ai nostri vicini europei. Abbiamo una buona ridondanza di capacità (cui si aggiunge anche quella notevole e costantemente aumentata di interconnessione con l’estero, soprattutto Francia e Svizzera), un discreto mix di tecnologie in termini ecologici (il 40% dei consumi sono alimentati da rinnovabili e il gas è la principale fonte fossile, anche se Enel continua ad avere il carbone soprattutto di Civitavecchia come sua fonte più importante).

D’altra parte Terna ha lanciato allarmi su possibili carenze future di capacità di generazione elettrica flessibile (cioè quella pronta a ovviare alle interruzioni degli impianti rinnovabili non programmabili) e ottenuto un approvvigionamento a lungo termine di capacità, attualmente in corso. 

Sono però i gestori di rete francese e tedesco ad essere ben più sotto pressione. La Francia sta dismettendo il carbone e ha un parco nucleare in parte vetusto e teme per l’approvvigionamento nel prossimo inverno quando si accenderanno i riscaldamenti elettrici, mentre il nuovo impianto nucleare di Flamanville, in Normandia, ha subito un nuovo ritardo di tre anni. (Si direbbe che la maggior garanzia di sicurezza della tecnologia EPR risieda nell’impossibilità di metterla in funzione, almeno in Europa). La Germania, anch’essa, ha carbone e lignite da dismettere. Ed è interessante notare come sono i costi, non solo le decisioni politiche, che stanno mettendo il carbone fuori mercato, se è vera l’affermazione di Carbon Tracker sul fatto che il 79% delle centrali a carbone in UE stia perdendo soldi.
O meglio, i segnali di costo in realtà la politica climatica già li internalizzano, conseguenti anche al funzionamento del disincentivo alle emissioni dannose per il clima (ETS).



Link:

domenica 17 novembre 2019

Carbon tax e border tax europee (Puntata 417 in onda il 19/11/19)


Nel piano politico che la nuova presidente designata della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen ha presentato al Parlamento Europeo, il primo punto è il “green new deal”, che include un rafforzamento degli obiettivi di decarbonizzazione dell’economia, l’estensione del sistema di disincentivo alle emissioni dannose per il clima (l’Emission Trading Scheme – ETS) anche a settori oggi esclusi come la navigazione in mare e i trasporti di terra, e una carbon border tax sui beni importati nell’UE che eviti una mera delocalizzazione fuori dall’UE delle attività economiche ad alta intensità di emissioni.
Ardvreck castle, Scozia

Già prima della presa di posizione di Von Der Leyen, un comitato di cittadini europei, in partnership con l’Associazione Luca Coscioni, Eumans e Science for Democracy (ringrazio Carlo Maresca per le informazioni), ha presentato una proposta di norma di iniziativa popolare per introdurre una carbon tax europea con valori progressivamente crescenti da 50 a 100 Euro a tonnellata di CO2 tra il 2020 e il 2025 e utilizzo dei proventi per investimenti ambientali e riduzione delle imposte sui redditi.
I valori proposti sono coerenti con uno studio recentissimo del Fondo Monetario Internazionale che valuta in circa 75 €/T un valore di carbon tax sui prodotti energetici coerente con il raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione dell’accordo di Parigi (sotto c’è il link a un utile articolo in materia di Beatrice Bonini dell’Osservatorio Conti Pubblici Italiani, segnalatomi da Paolo Costanzo che ringrazio).
La proposta di iniziativa popolare non scende pressoché in alcun dettaglio (saranno gli uffici della commissione a declinarla tecnicamente se si raggiungerà il milione di firme necessarie) e non specifica su quali beni la carbon tax si applicherebbe.

Un’applicazione semplice potrebbe essere sui prodotti energetici, un’altra su tutti i beni. Questa dicotomia è in realtà meno importante di quanto sembri, perché anche facendo pagare una carbon tax sui soli prodotti energetici questa si ripercuote su tutti gli altri per i quali energie fossili sono state necessarie, senza bisogno di inventarsi un meccanismo di valutazione dell’impronta ecologica di tutti i beni. Per questo probabilmente occuparsi dei soli prodotti energetici, come i combustibili, è la cosa più sensata.

La proposta di iniziativa popolare mira anche – condivisibilmente – a eliminare l’allocazione di quote gratuite nell’ambito del sistema ETS, e quindi sembra che l’intento dei proponenti non sia di sostituire, ma di complementare l’ETS, come è già avvenuto in Francia e UK. E, infine, anche qui è prevista una carbon border tax come quella annunciata da Von Der Leyen.

Di nuovo, il paniere dei beni si cui la border tax si applicherebbe è decisivo rispetto alla sua complessità. Se applicata su molte categorie di beni, richiederebbe un tracciamento globale e complesso della loro impronta di carbonio, oppure l’uso di tabelle predefinite le quali, però, finirebbero per aver esiti opposti agli obiettivi perché non riuscirebbero a discernere, per esempio, quanta dell’energia sottesa nella produzione di un bene sia rinnovabile.
Ma la sfida politica principale di una carbon border tax è probabilmente la sua accettabilità nell’ambito della disciplina delle tariffe al commercio che il mondo si è dato con il WTO. Esistono pareri autorevoli secondo cui, se la border tax è in linea con la carbon tax interna, essa debba intendersi accettabile in termini di commercio internazionale.
Approfondiremo qui a Derrick con altre puntate.


Link:





domenica 10 novembre 2019

Inquinamento da plastica e plastic tax (Puntata 416 in onda il 12/11/19)

Nella prima settimana di novembre 2019 si è svolto come al solito alla fiera di Rimini Ecomondo, l’esposizione e congresso sui temi e le tecnologie dell’ambiente e delle energie rinnovabili e sostenibili.
A margine del salone sono stato invitato a un convegno da Manuela Fabbri presidente di Basta Plastica in Mare, un’associazione riminese costituita nel 2018 per sensibilizzare e agire contro l’inquinamento marino dalle plastiche, che ormai sono, riferisce Fabbri, più abbondanti del pesce nelle reti dei pescatori, e che in parte provengono dagli allevamenti di cozze della zona i quali usano reti in parte poi disperse.

La bozza di legge di bilancio 2020 comprende alcuni interventi di modifica fiscale a fini di disincentivo di attività dannose all’ambiente, tra cui revisioni di accise per la generazione elettrica e sui carburanti per trasporti commerciali, riduzione dello sconto fiscale sulle auto benefit aziendali e una cosiddetta plastic tax. Queste innovazioni hanno suscitato mi pare la protesta indiscriminata di tutte le forze dell’opposizione, anche quelle che in altri frangenti avevano preconizzato misure simili.

La proposta di plastic tax, oggetto di questa puntata, occupa l’articolo 74 della bozza di legge di bilancio e prevede un’imposta al consumo e alla produzione di manufatti finiti di plastica a singolo impiego non riciclati. Essa introduce anche una parallela imposta sull’import degli stessi prodotti, per evitare una mera delocalizzazione di attività toccate dalla nuova tassa.
Ho chiesto a Enzo Favoino, esperto in materia e relatore al convegno di Basta Plastica in Mare a Rimini, un inquadramento della situazione e un parere sulla bozza di plastic tax. Favoino è tra le altre cose docente alla Scuola Agraria del Parco di Monza e coordinatore scientifico di Zero Waste Europe. Sentiamolo ai microfoni di Derrick:




Grazie dunque a Enzo Favoino e a Manuela Fabbri per questa puntata.


Link:



domenica 3 novembre 2019

I numeri del cambiamento climatico (Puntata 415 in onda il 5/11/19)

I dati di questa puntata sono raccolti in una presentazione (link sotto) di Enzo Di Giulioche ringrazio, economista specializzato in energia e ambiente membro tra le altre cose del comitato scientifico di Rivista Energia (link sotto).

Ci sono misurazioni storiche accurate della temperatura e della concentrazione di CO2 da ben prima dell’umanità moderna? Ci sono statistiche sulla frequenza di eventi atmosferici estremi, sulla dimensione dei ghiacci terrestri e sul livello dei mari?
Sì, e si tratta di dati certi.
Incendi in Siberia

La concentrazione in atmosfera di CO2, il più comune dei gas responsabili dell’effetto-serra, è oggi circa il 30% più alta del massimo storico di circa 300 mila anni fa. Tale concentrazione aveva fluttuato fino a inizio ‘900 tra circa 150 (in particolare durante le glaciazioni) e 300 parti per milione. Poi, il valore è schizzato in alto con un’ulteriore accelerazione nel secondo dopoguerra, e oggi supera 400. Tutti sappiamo che la combustione di fonti fossili di energia, che libera CO2, ha caratterizzato le economie sviluppate a partire dalla prima rivoluzione industriale.

Le anomalie di temperatura in aumento rispetto alle medie di lungo periodo, visibili in un celebre planisfero animato sul sito della NASA linkato sotto, iniziano alla fine dell’Ottocento e diventano poi sempre più intense con picchi in questi ultimi anni.
Se questi dati sono incontrovertibili, i legami di interdipendenza tra le grandezze coinvolte vengono stimati con modelli basati su varie discipline scientifiche, modelli che servono anche a ipotizzare gli effetti futuri di possibili scenari di incremento della CO2, i quali dipendono a loro volta dalle politiche per contenere le emissioni e dallo sviluppo tecnologico (di nuovo: dimensioni interdipendenti).
Le relazioni tra le variabili non sono necessariamente lineari e potrebbero risentire di effetti di second’ordine (per esempio l’aumento di incendi dovuti a caldo e siccità libera ulteriore CO2 in atmosfera).

Riguardo al legame tra emissioni di gas-serra legate all’attività umana e aumento delle temperature, una recente rassegna della letteratura scientifica in materia (Carlton, 2015) osserva che il 97% dei paper scientifici avvalora tale correlazione.
Mentre la minoranza di lavori scientifici con conclusioni diverse sulla causa umana del riscaldamento non è la stessa cosa di una minoranza di opinioni politiche o credenze religiose. Se infatti in tutti i casi le posizioni di minoranza possono essere utili allo sviluppo umano, il legislatore e gli amministratori pubblici hanno bisogno di indicazioni per attuare nel modo più efficace le politiche o anche solo le finalità di massima (come la sicurezza e la tutela dell’ambiente) cui sono stati delegati dai cittadini. Che lo facciano basandosi sulle conoscenze scientifiche più consolidate del momento è loro dovere, e non si può certo tacciarli per questo di tecnocrazia o parzialità, o addirittura di “catastrofismo”, come va ora di moda tra i negazionisti climatici, come se fosse una questione di costume e non di analisi.

Se sto male non cerco il medico meno catastrofista, cerco il più esperto e competente. E se devo curarmi non ho l’obiettivo di dare ai medici l’opportunità di sondare tecniche operatorie di nicchia per motivi di pluralismo (questo lo fa l’accademia): voglio che venga adottata su di me la tecnica su cui c’è il maggior consenso scientifico, e questo vuole lo Stato che finanzia il sistema sanitario.


Link utili:

domenica 27 ottobre 2019

Incentivi o disincentivi fiscali? È lo stesso (Puntata 414 in onda il 29/10/19)


Lo scorso sabato 26 ottobre 2019 il presidente del consiglio Conte in un intervento pubblico ad Ancona ha di nuovo insistito sul fatto che i segnali economici in favore dell’ambiente che il Governo intende dare non saranno punitivi per nessuno (addirittura Conte ha usato il termine “criminalizzanti”) e che il Governo vuole piuttosto usare incentivi per i comportamenti virtuosi, come l’accettare carte di pagamento da parte dei negozi. Incentivi e non disincentivi come nuove tasse, nelle parole di Conte.

Due obiettivi dichiarati della manovra mandata in bozza a Bruxelles sono la sostenibilità ambientale e la lotta all’evasione fiscale.
Sulla sostenibilità ambientale, si tratta di cambiare il fisco in modo da recuperare il costo sociale di attività legittime ma dannose, come per esempio usare un grosso motore a combustione in un centro storico anziché il bus o la bici o un mezzo elettrico meglio se condiviso. Ne abbiamo parlato tante volte qui e abbiamo visto che quest’impostazione è generalmente ben vista anche dagli economisti.
Quello che invece ha poco senso è la contrapposizione di cui sopra: quella di una politica di sussidi a chi fa la cosa “giusta”, considerata alternativa a una che preveda disincentivi fiscali a chi non la fa.

Michele Governatori su una microcar elettrica a Roma
Michele Governatori
su una microcar elettrica a Roma
Certo la parola “incentivi” (o “sussidi”) è intrinsecamente più bella, perché accede a una sfera semantica positiva, rispetto alla parola “tassa”, che nella comunicazione politica mainstream è il male assoluto, e d’accordo che nell’era populista la percezione conta più della realtà. Ma per un Governo responsabile che miri alla stabilità del bilancio la differenza tra le due politiche è solo apparente. Infatti un nuovo incentivo viene pagato per forza con nuove tasse o meno servizi, mentre un disincentivo apre lo spazio a minori tasse o più servizi per gli altri. In entrambi i casi si spostano risorse: qualcuno ci guadagna e qualcuno ci perde. Anche nella presunta politica dei soli incentivi, chi non li riceve li paga, e quindi il disincentivo – anche se mai dichiarato – se lo becca eccome.

Passando alla lotta all’evasione, invece, mi sembra che la sensatezza di una politica degli incentivi si perda a prescindere di questi distinguo. Qui il comportamento da limitare (l’infedeltà fiscale) non è affatto legittimo: è un reato (grave e odioso, aggiungerei). Se offro incentivi fiscali a chi usa sistemi di pagamento tracciabili, difficilmente faccio cambiare abitudini agli evasori, perché per farlo dovrei dare loro incentivi superiori o perlomeno vicini al vantaggio dell’evasione, cosa che annullerebbe il recupero fiscale.
Io credo che il rispetto delle leggi, anche fiscali, sia una sfera in cui lo Stato legittimamente può, anzi in termini di equità deve, usare strumenti impositivi (benché ragionevoli e proporzionati) anziché segnali economici.
Il che non vuol dire inasprimento di pene che già esistano (perché quando le pene sono sproporzionate finiscono da un lato per non essere comminate nei fatti, dall’altro per dare un potere discrezionale enorme alla magistratura, che da noi ha l’obbligo solo teorico dell’azione penale). Piuttosto, imposizione di comportamenti che rendono l’evasione difficile, come l’uso di sistemi tracciabili di pagamento o del wistleblowing (cioè meccanismi di segnalazione da parte dei cittadini, usati in altri Paesi ma da noi generalmente considerati, un po’ mafiosamente, peccato).


Link utili:


domenica 20 ottobre 2019

Formazione e sicurezza alimentare (Puntata 413 in onda il 22/10/19)

Si è celebrata il 16 ottobre la giornata dell’alimentazione proprio mentre il Nobel per l’economia andava a studiosi della povertà.
A questo proposito mi ha contattato CEFA, una Onlus bolognese attiva internazionalmente con programmi che affrontano la povertà alimentare anche attraverso la diffusione di competenze. Volentieri do la parola a Dario De Nicola, responsabile delle attività CEFA in Tanzania e di quelle sulle energie rinnovabili, con cui ho avuto una conversazione telefonica:




Link utili:


domenica 13 ottobre 2019

Armonizzazione UE della fiscalità su energia (Puntata 412 in onda il 15/10/19)

Con Marianna Antenucci

La politica fiscale non è materia devoluta all’Unione Europea secondo i Trattati costitutivi dell'UE, ma l’Europa ha competenza in termini di armonizzazione delle politiche fiscali degli Stati Membri nei limiti di quanto necessario al buon funzionamento del mercato unico (infatti le imposte indirette, che insistono sui beni scambiati, sono quelle di cui l’UE si occupa di più).
D’altra parte nell’applicazione delle norme sugli aiuti di Stato (regolate dal trattato) è evidente che anche gli aiuti forniti tramite il sistema fiscale (o addirittura parafiscale nel settore energia, come abbiamo visto più volte qui) devono rientrare nella sfera di attenzione e azione dell’UE.

Auto elettriche alla stazione di Pavia nel 2012
Tra le imposte indirette con notevoli impatti sui mercati e sull’ambiente, ci sono le accise sull’energia, su cui l’UE pone norme generali legate perlopiù al valore minimo accettabile sulla base di una vecchia direttiva del 2003, che la Commissione precedente a quella oggi in scadenza cercò già una volta di aggiornare senza trovare il consenso dei Governi nel Consiglio.

Ora un recente “staff working paper” della Commissione (link sotto) torna alla carica rispetto alla necessità di intervenire in materia per affrontare alcune inefficienze, in particolare:
  • La flessibilità concessa agli Stati Membri nel fissare i propri livelli di tassazione che ha portato a un quadro europeo eccessivamente frammentato
  • Le esenzioni/riduzioni fiscali in vari settori, che disincentivano l’utilizzo di soluzioni meno inquinanti e – per esempio nel settore del trasporto marittimo e aereo - risultano incompatibili con gli obiettivi UE per la decarbonizzazione
  • L’assenza di alcun riferimento al contenuto di CO2 nella definizione dei livelli di tassazione, con il rischio di tassare meno prodotti energetici più dannosi al clima
  • La tassazione minima, mai indicizzata e rivista, troppo bassa e definita senza seguire una ratio precisa e tale da fornire segnali di prezzo discordanti con le attuali politiche europee.


Quali erano i correttivi che già la Commissione cercò di introdurre e ora qui ripresenta?
  • Introdurre una tassazione basata sul contenuto energetico e sulle emissioni di CO2, in modo da distinguere tra le diverse fonti energetiche senza pregiudicare la competizione tra gli Stati
  • Prevedere un quadro fiscale specifico per la tassazione delle energie rinnovabili
  • Evitare sovrapposizioni tra sistemi di carbon tax e sistema di limite e scambio dei permessi ad emettere CO2 (ETS).


Del resto se, come tutti ripetono, la transizione energetica è una questione trasnazionale, sarà anche ora di una politica fiscale europea integrata su questi punti.


Link utili:

lunedì 7 ottobre 2019

A piedi a La Digue (Puntata 411 in onda l'8/10/19)

Rappresentazione dell'isola di La Digue
con indicazione dei sentieri (linee tratteggiate)
tratta dall'app "Maps 3D"
Per la serie “camminate impossibili”, oggi parlo di un luogo tropicale che ho visitato di recente: l’isola La Digue delle Seychelles, l’arcipelago africano nell’Oceano Indiano.

Un’isola così piccola che potrebbe fare a meno di veicoli a combustione, e in effetti ne ha molto pochi, perlopiù camioncini e mezzi per lavori edilizi.
Le strade principali sono strette piste in cemento, si diramano nell’unico centro abitato e si allontanano da lì solo verso tre luoghi: un’aspra altura centrale, la spiaggia grande a Sud-Est (Grand Anse in creolo), e mezzo periplo dell’isola a Nord, fino a un punto in cui la pista in cemento lascia spazio a scogli che è possibile, per proseguire il giro, costeggiare a piedi solo quando il mare è basso.
Se nelle due isole principali i noleggi d’auto si contendono i turisti all’arrivo di traghetti e aerei, qui ci sono quelli di bici. Quasi tutte un po’ massicce, datate e con le catene arrugginite dalla salsedine. Alcune, per i turisti più sedentari, sono elettriche. Tutte fanno su e giù per le vie principali tra gli stralli in corrispondenza della Grand Anse, i ristoranti e le “villas” di residenza per turisti. 

Casa-palafitta
in costruzione sulle rocce
Che si moltiplicano in modo impressionante. Occhio e croce direi che un decimo degli edifici è in fase di edificazione, anche in punti dove sembra impossibile che un’autorità possa aver rilasciato il permesso, come a ridosso di una spiaggia dell’estremo Nord dove un ricco inglese – così riferisce un locale – ha realizzato una struttura in cemento di casa con terrazza su esili aeree palafitte che si appoggiano sugli scogli granitici sottostanti (foto).


Se l’urbanizzazione procede a questo ritmo, La Digue sarà tra poco un residence senza interruzioni.

Ma oggi per trovare il cuore selvaggio dell'isola basta arrancare verso gli speroni centrali di Belle Vue fino alla fine della strada, proseguire su una carrareccia fino a una modesta fattoria da cui una giovane donna si è affacciata per indicarmi, perplessa, il sentiero che attraverso la giungla scende fino a Anse Coco. “Prosegui fino all’albero di cannella (cinnamon tree) e lì inizia” ha detto.
Io che facevo fatica anche a distinguere una dall’altra le piante nel groviglio della foresta, figuriamoci riconoscerle.

Un varco verso il mare
dal sentiero nella giungla
Ma il sentiero c’è. Madido e a tratti cancellato dal fogliame e da nuova vegetazione, pieno di lucertole (o gechi?) diafane e impressionanti come feti prematuri e sempre coperto da chiome di varie altezze. Evita i massi granitici color caffelatte. A volte scende lungo una valle, altre sta a mezza costa. Solo in un caso si apre a una finestra sull’acqua celeste delle spiagge più in basso, alle quali infine conduce con un tratto ancor più equatoriale di felci e alocasie giganti.

Non sarei mai riuscito a orientarmi senza il satellite e un’applicazione sul telefonino che uso in questi casi (foto in alto) e che non capirò mai dove prenda le informazioni sui sentieri di tutto il mondo, precise al metro. E tra liane, fogliame che nasconde interstizi tra rocce scivolose, steli di palma spinosi, anche solo pochi metri fuori strada possono essere complicati.


(Ringrazio Grazia Morea e Caterina Caravaggi per l’aiuto nell’identificazione della flora)


sabato 21 settembre 2019

Incentivi fiscali ad auto aziendali (Puntata 410 in onda il 24/9/19)

Molto prima che lo diventasse nell’agenda politica, il tema del rapporto tra fisco ed ecologia era come sapete nella prima pagina di questa rubrica, dove abbiamo recentemente anche analizzato i dati aggiornati del Governo sui sussidi dannosi all’ambiente.
Una famiglia di questi sussidi riguarda il trattamento fiscale delle auto aziendali.
Cosa s’intende per auto aziendali? S’intendono auto di solito noleggiate a lungo termine da aziende che le mettono a disposizione dei dipendenti anche per uso personale, che è il caso su cui ci focalizziamo ora. In pratica, l’auto è un tipico benefit di quadri e dirigenti aziendali, e l’interesse a usare questa forma (come altre) di retribuzione in natura deriva da un trattamento fiscale favorevole rispetto a una remunerazione in denaro che permetta di acquistare gli stessi servizi sul mercato. Infatti l’azienda paga sulle auto aziendali a uso promiscuo un’IVA agevolata e deduce dalle imposte d’impresa il 70% del canone, mentre il dipendente ci paga sì le tasse sul reddito, ma calcolate su un forfait del 30% del costo convenzionale del benefit su 15.000 km/anno.

Questo sistema fa sì che per il dipendente il benefit valga tanto più quanto più usa a scopo personale l’auto. Il che lo incentiva a preferirla ad altri mezzi.
Ecco forse perché quando prendo il passante ferroviario di Milano, che pure è un caso esemplare di infrastruttura di trasporto urbano e interurbano ad alta capacità, vedo così pochi manager tra i passeggeri.

Andrea Zatti, docente di Politiche Pubbliche e Ambiente dell'Università degli Studi di Pavia e Presidente della Fondazione Romagnosi-Scuola di governo Locale, analizza il tema in un capitolo del suo libro Verso una riallocazione verde dei bilanci pubblici, Pavia University Press, disponibile gratuitamente in versione elettronica al link sotto.
Sentiamo (e vediamo) direttamente Zatti:


C’è un altro punto sulla compatibilità ambientale dell’uso delle auto per lavoro, che riguarda la ricarica dei veicoli elettrici. Se oggi io faccio una trasferta per lavoro, il committente mi rimborsa il carburante. Ma che succede se uso un’auto elettrica ricaricata nel mio box? Se non posso documentare la spesa di ricarica, mi conviene usare un’auto non elettrica. Questo aspetto si lega ad altre questioni un po’ critiche che riguardano la tariffazione e la fatturazione dell’elettricità per ricarica. Arriveremo anche lì. Intanto, grazie ad Andrea Zatti dell’università di Pavia.


Link utili:



sabato 31 agosto 2019

La "sterilizzazione" dell'IVA (Puntata 407 in onda il 3/9/19 e in replica il 1/10/19)

Cave di marmo in cima al passo del Vestito (MS)
Un politico con aspirazioni di amministrazione pubblica, che non affronti la questione di dove pensa di trovare le risorse per le sue promesse, a logica dovrebbe essere ritenuto inadatto al ruolo. Non da noi, apparentemente, dove quasi tutti i partiti e i leader da mesi stanno ripetendo il mantra del “dobbiamo sterilizzare l’aumento IVA”, come se si trattasse di arrivare in tempo a premere un bottone prima dell’innesco, e come se la parte rilevante della questione non fosse piuttosto da dove dovrebbero venire le risorse per evitare gli aumenti altrimenti già previsti.
Del resto buona parte di quegli stessi politici sembra confondere le regole di finanza pubblica UE con l’effettiva disponibilità di creditori per finanziare il debito e con le conseguenze distributive di doverne ripagare una quantità ancora più mostruosa di quella che già si abbatte sulle prossime generazioni di contribuenti.

La notizia buona, però, sull’IVA, è che proprio all’interno di questa imposta ci sono gli spazi per fare una messa a punto che permetterebbe di avere più gettito senza aumentare l’aliquota ordinaria.
Vediamo perché: oggi l’IVA vale oltre 130 miliardi (parlo sempre di numeri annuali), meno del 7% del PIL. Oltre a quella ordinaria del 22%, ha 2 aliquote agevolate (4, e 10%) applicate a beni e servizi specifici.
Uno studio della Corte dei Conti del 2016 attribuisce ai regimi agevolati oltre il 40% del gettito IVA, contro una media UE27 di poco più della metà. L’Italia, dunque, ha un’enorme spesa fiscale in agevolazioni IVA (senza contare le esenzioni pure). In parte questi regimi agevolati hanno il fine di proteggere l’approvvigionamento di beni primari (per esempio alimentari), ma perlopiù si tratta di discriminazioni incomprensibili, alcune con effetti negativi sull’ambiente.

Esempi di IVA agevolata dannosi all’ambiente secondo il Catalogo Minambiente dei sussidi dannosi (dove non specificato, il Catalogo non riporta gli ammontari) sono questi:
  • Sull’energia consumata per le attività estrattive agricole e manifatturiere: 1,4 miliardi/a (disincentiva il risparmio energetico e riduce la competitività delle aziende energicamente efficienti)
  • Sull’energia elettrica domestica (indipendentemente dal reddito): 1,7 miliardi (disincentiva efficienza e ha effetti distributivi regressivi) (simile esenzione c’è sul gas naturale)
  • Sugli olii minerali usati nella produzione di energia
  • Sui prodotti petroliferi usati in agricoltura (circa 200 milioni)
  • Sulla cessione di nuove costruzioni abitative (introdotta nel 1972). Oggi che occorre ridurre il consumo di suolo e che i vani vuoti a fronte della popolazione stagnante sono troppi, che senso ha regalare soldi alle nuove costruzioni anziché mettere in sicurezza quelle vecchie e non antisismiche?
  • Sulle acque minerali (800 milioni che si aggiungono a bassi oneri concessori per l’estrazione)
  • Sui servizi di smaltimento in discarica (alla faccia dell’economia circolare).


Esempi di regimi agevolati incomprensibili invece sul piano distributivo sono questi:
  • Parcheggi (sussidio all’uso dell’auto privata) (aliquota del 4%)
  • Hotel e ristoranti (indipendentemente dalla fascia di prezzo) (10%) (le mense scolastiche e di lavoro, qui in modo più sensato, hanno il 4%)
  • Fiori recisi (sic) (10%)
  • Tabacchi (alla faccia delle campagne antifumo) (10%)
  • Tra i beni alimentari: crostacei, molluschi, cacao amaro e birra hanno IVA al 10%, funghi, mandorle e meloni addirittura al 4%.


Allora: siamo sicuri che convenga sterilizzare l’IVA così com’è e trovare soldi altrove, magari come al solito con nuovo debito e quindi più tasse e meno investimenti futuri? In realtà anche dentro all’IVA, come in generale nel sistema fiscale (l’abbiamo visto qui anche in puntate recenti) ci sono distorsioni chiaramente dannose, superare le quali porterebbe nuovo gettito, che a seconda della radicalità degli interventi potrebbe da solo evitare l’aumento dell’aliquota ordinaria del 22% o addirittura permettere di limarla senza nuovo debito o nuove tasse alternative.


Link utili:


martedì 23 luglio 2019

Seconda edizione Catalogo Minambiente dei sussidi ambientalmente rilevanti (Puntate 404-6 in onda il 23-30/7 e 6/8/2019)

Piazzetta a Castel di Tora (RI)
(La puntata sull'edizione successiva del Catalogo è qui).

Quali sono alcune rilevanti, se non le principali sfide sociali ed economiche con cui dobbiamo confrontarci? Per quanto riguarda l’Italia direi:
  • La necessità di investimenti pubblici, soprattutto in istruzione, giustizia, ambiente
  • L’emergenza sanitaria delle circa 80 mila morti premature all’anno per inquinamento soprattutto da polveri sottili e ossidi d’azoto, in primis nei centri urbani della val Padana (solo Italia e Polonia in Europa hanno numeri così spaventosi)
    (La questione ambientale, naturalmente, si colloca nell’ambito della lotta globale ai cambiamenti climatici riguardo a cui l’Italia è impegnata per la sua parte in base agli accordi internazionali nell’ambito delle Nazioni Unite).
  • La povertà e la stagnazione economica.


Sarebbe favoloso se ci fosse una famiglia di interventi alla portata di agenda politica in grado di avere effetti positivi su tutte le questioni che ho elencato, no?

Bene, uno strumento promettente c'è: si tratta di una revisione della fiscalità con le seguenti caratteristiche di massima:

Colpire meno la produzione di reddito e più i consumi (l’Italia – che ha tasse generalmente alte per chi le paga – è piuttosto sbilanciata sui redditi)
e disincentivare consumi o attività dannosi all’ambiente, e cioè che contribuiscono:
  • Al depauperamento della qualità dell’ambiente il cui degrado genera anche costi sanitari
  • Al consumo irrazionale di capitale ambientale pubblico (alla cui disponibilità anche le prossime generazioni hanno diritto)
  • Ai cambiamenti climatici (tramite emissione di gas a effetto-serra)

Una simile trasformazione non riguarderebbe solo una modifica alle aliquote esistenti delle varie imposte, ma anche una revisione della spesa fiscale, cioè del sistema delle esenzioni, che in Italia è così vasto che una riduzione shock delle imposte sui redditi per tutti potrebbe finanziarsi esclusivamente con tagli a regimi di favore per alcuni.

(Piccolo commento utile ai non economisti: quando si parla di tasse al consumo, le stesse valutazioni e ricette si possono applicare quasi indifferentemente alle tasse alla produzione. Esempio: se io metto un’accisa sul gas utilizzato per produrre elettricità posso chiamarla tassa sulla produzione di elettricità ma gli effetti si spostano comunque su chi l’elettricità la consuma. Entrambe sono imposte indirette, cioè che si applicano a transazioni e non alla generazione di reddito in sé).

Se una revisione organica del fisco nelle modalità di cui sopra ha potenzialmente così tanti vantaggi, perché viene auspicata in tanti accordi intergovernativi e risoluzioni parlamentari (anche in Italia) ma poi non attuata?

Una delle ragioni è che mettere le mani sul fisco significa produrre effetti distributivi anche importanti. Infatti lo si fa proprio per modificare gli incentivi economici di persone e imprese, e quindi soprattutto nel breve periodo c’è chi ci perde. E le categorie, anche piccole, che vengono immediatamente danneggiate sono tipicamente più interessate a farsi sentire e competenti sulla questione che le tocca di quanto lo sia l’opinione pubblica nel suo complesso. E per ridurre le rendite servono politici bravi, di lunghe vedute e capaci di ottenere consenso comunicando il senso del progetto e utilizzando sistemi di salvaguardia temporanei.

Una riforma del genere è tanto più urgente quanto più inadeguato è il sistema fiscale e parafiscale attuale rispetto agli obiettivi. Ce lo ricorda la nuova edizione del Catalogo dei sussidi rilevanti per l’ambiente del Ministero dell’Ambiente, recentemente diffuso e disponibile al link sotto. Un documento fondamentale e direi drammatico, che ci dice che sulla base di dati 2017 il sistema di sussidi pubblici diretti (trasferimenti), delle imposte e delle tariffe regolate in settori energia, acqua, rifiuti, ambiente sussidia attività dannose all’ambiente per oltre 19 miliardi/anno, mentre le aiuta per 15.

In altri termini: una revisione del sistema del fisco, delle tariffe e dei trasferimenti pubblici è urgente anche perché esso oggi ha un effetto netto dannoso all’ambiente e quindi a tutti gl’investimenti correlati alla sua salvaguardia e al progresso tecnologico relativo.
È come se noi pedalassimo verso la sostenibilità e l’innovazione ambientale, e qualcuno, sempre all’interno dello Stato, frenasse con più forza di quella esercitata sui pedali.


Entriamo nel merito della seconda edizione del Catalogo.

Premessa importante: cos’è un sussidio? Nella definizione OCSE, usata dal team di economisti in servizio al Ministero dell’Ambiente che hanno lavorato al documento, un sussidio è un trasferimento pubblico diretto o uno sconto fiscale o in tariffe regolate, che abbia l’obiettivo di garantire un vantaggio economico a chi lo riceve rispetto ai prezzi di mercato per la transazione a cui si riferisce. Quindi, per esempio, in questa definizione, se la pubblica amministrazione compra un bene o un servizio, questo non è un sussidio a chi lo vende, a meno che esso non sia pagato più del valore di mercato.

L’attuale edizione del catalogo è la seconda (anche la prima è stata considerata qui, e sotto c’è il link alle vecchie puntate) e comporta alcune novità, tra cui:
  • Analizza solo sussidi potenzialmente rilevanti per l’ambiente (comprensibile, anche se in parte è un peccato perché la precedente edizione era interessante anche come mera analisi complessiva della spesa fiscale in Italia, analisi che oggi è portata avanti, a mio avviso con parecchie lacune, da una apposita commissione MEF che produce un allegato al documento di economia e finanza - Vd. link sotto su spesa fiscale)
  • Include un’analisi di finanziamenti istituzionali italiani a progetti internazionali
  • Considera nuovi sussidi dannosi all’ambiente, i più interessanti dei quali mi sembrano:
    • vantaggi fiscali alle auto aziendali a uso promiscuo (questo è un tema clamoroso cui dedicheremo una puntata specifica per la quale ho già chiesto aiuto all’economista italiano che più se n’è occupato stando alla bibliografia dello stesso Catalogo)
    • sconti nelle tariffe del servizio idrico
    • sconti a clienti energivori nelle bollette elettriche

Questi ultimi due punti meritano una piccola digressione: anche nell’impostazione recente della legislazione UE si prevede che alcune forme di welfare su beni essenziali come l’acqua e l’energia debbano passare attraverso prezzi politici nell’accesso a tali beni. Questo comporta gravi effetti collaterali sull’uso razionale delle risorse stesse, ed è spesso anche dannoso sul piano redistributivo. Per esempio: io che consumo meno acqua ed elettricità in casa rispetto alle quantità considerate normali ricevo una riduzione fiscale del prezzo di questi beni. Il che mi rende meno interessato a consumarli razionalmente. Inoltre, il mio reddito non è così basso da poter considerarmi in condizioni di povertà energetica e idrica, e questi sconti sono pagati anche da contribuenti che nell’ambito del sistema fiscale progressivo non dovrebbero trasferire risorse a me. Diciamo che la retorica dell’”acqua pubblica” (definizione che di per sé è molto ambigua) sta facendo danni legislativi, rendendo l’acqua più “pubblica” sì, ma nel senso che i suoi sprechi sono pagati con risorse pubbliche.
  

Quanto sono davvero ambientali le imposte ambientali attuali?

Lo studio European Implementation Review delle politiche ambientali della Commissione UE, citato nel Catalogo, ci dice che le imposte ambientali nell’UE 28 sono solo il 6,3% circa di entrate fiscali e contributi previdenziali e meno del 2,5% del PIL (il valore più alto è in Danimarca e il più basso in Slovacchia). 

L’Italia si colloca in fascia alta, il che porta a dire che le imposte ambientali in Italia ci sono (in termini di loro classificazione formale) ma – alla luce del Catalogo e di altri studi - apprendiamo che esse sono sia inadeguate a disincentivare le attività effettivamente dannose all’ambiente, sia largamente insufficienti a contrastare i sussidi dannosi.
In effetti una parte importante delle imposte classificabili come ambientali si applica alla produzione o consumo di energia e ai trasporti che solo approssimativamente – anche se negli anni ci sono stati miglioramenti per esempio sulla tassa di possesso auto e con il recente ecobonus - si legano a danni ambientali (per esempio: le accise sui carburanti non sono legate alle emissioni dannose, e su questo nel Catalogo c’è un ampio focus sulla disparità di trattamento di accise tra benzina e gasolio per autotrazione, dove quest’ultimo continua a essere irrazionalmente avvantaggiato).

Veniamo finalmente a una sintesi dei numeri principali del Catalogo:

Sussidi Ambientalmente Dannosi (SAD) indiretti – cioè erogati tramite facilitazioni d’imposta o di parafiscalità in bolletta: (dove non specificato stime 2018 – arrotondamento ai 50 milioni più vicini) (in milioni di Euro)
  • Esenzione accisa energia elettrica a consumatori domestici residenti con potenza installata bassa e solo su una prima fascia di consumi: circa 600 (destinati peraltro a ridursi)
  • Esenzione accisa carburanti aerei: 1.600 (2017)
  • Riduzione accisa carburante navigazione marittima: 500 (2017)
  • Riduzione accisa carburante autotrasporto pesante: 1.250
  • Sussidi indiretti a impiego prodotti energetici in agricoltura: 850
  • Differente accisa gasolio-benzina: 4.900
  • Agevolazioni a grandi consumatori di energia: 1.250 (la tabella del Catalogo considera queste esenzioni assenti due anni prima, ma in realtà venivano comunque erogate in altre forme, alcune delle quali tutt’ora esistenti)
  • Vantaggi fiscali a auto aziendali: 1.250 (2017)


Il tutto a fronte di sussidi diretti favorevoli di circa 15 miliardi, di cui 12 di sussidi alle fonti d’energia rinnovabili, attraverso le bollette elettriche.


Gli autori del documento

Chi c’è dietro la redazione di un testo così vasto, accurato e importante? Un team di economisti ambientali di un’agenzia esterna al Ministero dell’Ambiente, chiamata Sogesid, i cui servizi la legge di bilancio 2019 prevede saranno progressivamente non più acquistati dal Ministero con stop totale nel 2024. Non sappiamo quindi con quali risorse umane e di competenza potrà continuare questo lavoro fondamentale di supporto alle politiche di transizione ambientale.


Link utili:


martedì 16 luglio 2019

Relazione ARERA 2019 (Puntata 403 in onda il 16/7/19)



Quale migliore buongiorno agli ascoltatori di Derrick di questo! Grazie davvero a Stefano Besseghini, presidente dell’autorità energia acqua e rifiuti, che il 04/7/2019 ha presentato alla Camera dei Deputati la sua relazione annuale 2019.

Proprio dai tomi della relazione annuale (link sotto) estraiamo alcuni dati salienti per il comparto energia, cominciando con l’elettricità:

Negli ultimi tre anni (fino al 2018 per cui ci sono dati consuntivi pressoché completi) i consumi si sono stabilizzati a 303 TWh complessivi, con una riduzione di quelli industriali dal valore massimo di 155 TWh nel 2007 fino a 126 nel 2017, mentre il terziario ha in parte compensato con un aumento (da 90 a 105 TWh).
Autorità dell'Energia, Stefano Besseghini il nuovo presidente © ANSA
Stefano Besseghini in un'immagine dal sito Ansa
Come abbiamo visto in una puntata recente, la decentralizzazione della generazione elettrica in Italia si sta, seppur lentamente, realizzando insieme allo sviluppo delle fonti rinnovabili, che pure ha avuto una forte battuta d’arresto in attesa dei nuovi regimi di incentivo e dopo la fine, per i nuovi impianti di grandi dimensioni, di quelli in molti casi generosi del passato.
Nel 2018 le fonti rinnovabili hanno inciso sulla produzione di energia elettrica italiana per circa il 39%. Lo stesso quoziente nel 2004 ammontava al 18%. (Rispetto ai consumi il rapporto è leggermente inferiore, dato che l’Italia ha importato nel 2018 il 13,9% del suo fabbisogno).

Il costo degli incentivi alle fonti rinnovabili di generazione elettrica sulle bollette (inclusa una categoria ormai residuale di impianti non rinnovabili ma comunque beneficiari di incentivi con finalità ecologiche) ha proseguito la sua riduzione anche nel 2018, ma resta rilevante: circa 11,6 miliardi di euro per 63 TWh di energia elettrica incentivata. Per il 2019 l’Autorità prevede una leggera ulteriore riduzione a 11,5 miliardi di Euro.
Il motivo della lentezza del calo è che i diritti di incentivazione acquisiti dagli impianti durano fino alla fine delle relative convenzioni, e quindi anche ridimensionamenti notevoli delle regole sugli incentivi hanno effetti sulle bollette differiti nel tempo.

Durante numerose ore del giorno, soprattutto nell’Italia meridionale, la quantità di energia prodotta dagli impianti fotovoltaici ed eolici è stata (e sempre più spesso sarà) superiore al fabbisogno locale momentaneo. Questo rende necessario “evacuare”, come dice il gestore della rete elettrica, il surplus di energia in altre zone causando un fenomeno chiamato “inversione di flusso”. Si tratta di questo: energia prodotta da impianti collegati a una rete di distribuzione locale, non consumata all’interno della stessa rete, deve essere trasformata a tensioni più alte e immessa nella rete nazionale per essere trasferita altrove, con conseguenti perdite di energia che non si sarebbero verificate in caso di consumo locale.
Altro fenomeno che si consolida è che nella borsa elettrica (il mercato all’ingrosso orario dell’elettricità) le ore a prezzo più alto sono spesso quelle preserali, in cui il sistema non può più contare sull’energia fotovoltaica ma ha ancora consumi relativamente elevati nel settore industriale e terziario.

Se i consumi di elettricità sono stabili, quelli di gas continuano a diminuire. Nel 2018 il consumo netto è stato di 70,3 miliardi di m3 dai 72,7 del 2017. Numeri simili a quelli di 20 anni fa, quando, se ricordo bene, l’allora amministratore delegato di Eni si preparava a prospettive di 100 miliardi mentre la punta massima sarebbe stata, nel 2005, di solo 85,3. Più in dettaglio, i consumi industriali nel 2018 sono cresciuti del 4,1%, mentre quelli per generazione termoelettrica sono calati dell’11%. Più o meno invariato invece il consumo di residenziale e terziario.
Anche le importazioni nette di gas hanno subito una contrazione (del 2,7%).

Ringrazio per questa puntata Chiara Governatori e ancora una volta Stefano Besseghini per il suo saluto.


Link utili:



domenica 16 giugno 2019

La transizione energetica europea (Puntate 401-2 in onda il 18/6 e 2/7/19)

Giacomo Balla
Le quattro stagioni in rosso - Estate
Il 14 giugno 2019 è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale UE il cosiddetto “quarto pacchetto” delle norme che guideranno i mercati dell’energia europei dei prossimi anni. Norme che seguono un’evoluzione che anche i non addetti al settore si sono ormai abituati a sentirsi raccontare, in particolare riguardo all’accelerata transizione verso le fonti d’energia rinnovabili, alla maggiore importanza della generazione elettrica distribuita e di piccola scala, anche con l’arrivo di entità collettive (energy community) per ora descritte in modo un po’ generico ma che dovrebbero avere un ruolo nel futuro prossimo. Ruolo che si sovrapporrà potenzialmente con quello di produttori e venditori di energia e dei gestori delle reti elettriche locali.
Il “quarto pacchetto” si inserisce in un altro processo europeo fondamentale: gli obiettivi ambientali al 2030 e oltre, già condivisi nei mesi scorsi, che hanno evidentemente enormi rapporti con la regolazione del settore energia e non solo.
Questo processo prevede, tra le altre cose, che gli Stati Membri inviino piani energia-ambiente (cosa già avvenuta) che poi l’Unione valuterà in termini di coerenza rispetto agli obiettivi comunitari al 2030, obiettivi che ricordo qui:
  1. riduzione almeno del 40% delle emissioni di gas a effetto serra (rispetto ai livelli del 1990)
  2. una quota almeno del 27% di energia rinnovabile
  3. miglioramento almeno del 27% dell'efficienza energetica (rispetto allo scenario senza interventi).

Sorprendentemente, almeno rispetto alle attese riguardo al programma ambientale dei Cinque Stelle, il piano presentato dal Governo italiano è per molti versi più cauto degli stessi obiettivi europei. Uno studio della European Climate Foundation che mette a confronto i vari piani-bozza presentati (scaricabile sotto) dà un giudizio piuttosto negativo al piano italiano in termini di obiettivi e efficacia e chiarezza delle politiche proposte, con l’eccezione (ma sto inevitabilmente semplificando) delle politiche sull’efficienza energetica.


Efficienza energetica e minibot

Piccola digressione su questo: l’Italia, che già strutturalmente è un Paese con buona efficienza energetica (cioè un rapporto tra PIL e energia consumata relativamente alto) ha anche politiche rilevanti per l’efficienza, a partire dalle generose detrazioni fiscali per ristrutturazioni e investimenti sugli apparati energetici degli edifici, detrazioni che tra l’altro si stanno evolvendo per rendere più semplice cedere il credito fiscale a intermediari, in modo da poter fare gli interventi senza dover anticipare le somme necessarie. Sono quindi molto rilevanti in materia (a mio avviso potenzialmente esiziali) le idee sempre più insistenti sui “minibot”, cioè i titoli di Stato di piccola taglia cari al presidente della commissione economia leghista alla camera Claudio Borghi. Questi titoli, infatti, sia secondo un documento curato dallo stesso Borghi e diffuso nei mesi scorsi sia secondo una mozione passata in parlamento il 28/5/2019 anche con i voti dell’opposizione (alcuni dei cui esponenti hanno però dichiarato essersi trattato di errore) potrebbero essere usati per pagare crediti verso lo Stato. Ora, se lo Stato mi dicesse che le rate di detrazione della mia pompa di calore con cui ho reso elettrico ed efficiente il mio riscaldamento a fronte di un discreto sacrificio economico iniziale me le pagherà con un altro credito anziché con soldi, io avrei molto da ridire. E questo non aumenterebbe la mia fiducia verso lo Stato rispetto a possibili ulteriori investimenti. Se teniamo conto dell’importanza del settore edilizia per la crescita economica, credo si possa dire che renderne incerti gli investimenti sia molto pericoloso.


Verso l'autarchia energetica locale?

Torniamo alle comunità energetiche: esse dovrebbero permettere anche di instaurare veri e propri mercati di vicinato dell’energia. Un’idea che istintivamente piace quasi a tutti, perché suggerisce mutualismo e autosufficienza di zona, ma che tradurre in azioni pratiche è piuttosto difficile. Infatti, se le reti elettriche locali sono oggi gestite come monopoli non è per amore del monopolio in sé da parte del legislatore, ma perché, come spesso avviene nelle reti, una loro gestione unitaria, che preveda da un lato il divieto di duplicazione e dall’altro regole prestabilite sul livello di servizio e garanzia di tutti all’accesso a condizioni eque, è più efficiente per la comunità nel suo complesso. Quindi, se è vero che è carina l’idea di vendere il surplus di produzione del mio tetto fotovoltaico al vicino, non è chiaro per ora come dovrebbe essere disciplinato l’accesso alla capacità di trasporto – seppur per piccole distanze – di quell’energia. Passo un cavo dal balcone? Uso la rete condominiale come fosse una rete di distribuzione? Sarò io a far fattura al vicino? A che prezzo?


Il nodo stoccaggio

Quel che è certo è che l’enorme quantità di rinnovabili che dovremo installare per raggiungere gli obiettivi ambientali renderà il sistema elettrico più distribuito e meno programmabile. Occorreranno quindi anche sistemi di stoccaggio dell’energia per spostarla dai momenti in cui gli impianti rinnovabili producono a quelli in cui in effetti l’energia serve. In assenza di stoccaggi sufficienti, secondo il Governo e secondo il gestore della rete ad alta tensione Terna, potrebbero servire più centrali programmabili a gas per fare da backup

Proprio in questi giorni il Governo sta infatti lanciando un sistema di remunerazione della capacità della generazione elettrica pensato soprattutto per le centrali programmabili (e i progetti per nuovi impianti di questo tipo sono tutti a gas) che vede l’opposizione di alcuni operatori in particolare delle fonti rinnovabili (tema che non approfondisco perché sarei in conflitto d’interessi con la mia professione).
E come si fa lo stoccaggio elettrico? Oltre che con le centrali idro a bacino, con le batterie di taglia industriale, per ora piuttosto costose e relativamente inefficienti.
Esistono altre alternative, come lo stoccaggio elettro-termico appena presentato da Siemens-Gamesa insieme all’università di Amburgo: un sistema che riscalda con una resistenza elettrica rocce vulcaniche che poi restituiscono il calore a un ciclo a vapore che produce elettricità quando serve. Efficiente sul piano energetico? Poco, così come è inefficiente una vecchia stufetta a resistenza. A meno che non si abbiano surplus di produzione inevitabili e si voglia ricorrere a sistemi di recupero che richiedano investimenti limitati.


Link utili: