martedì 30 luglio 2024

Elettrificazione dei consumi e false verità (Puntata 633 in onda il 30/7/24)

Pressostato per lavabiancheria
Come la volta scorsa, oggi provo a smontare una classica argomentazione di contrasto da talk show alle politiche di mitigazione del danno climatico. Il luogo comune sbagliato della settimana è: “non ha senso che usiamo le auto elettriche se tanto l’elettricità la facciamo ancora a carbone”.

Questo periodo avrebbe leggermente più senso, ma sarebbe ancora sbagliato, coniugato nel tempo dell’irrealtà, al congiuntivo imperfetto, ossia: “non avrebbe senso usare auto elettriche se facessimo ancora l’elettricità a carbone”.

In realtà per fortuna il mondo usa sempre meno fonti fossili dannose per il clima per fare elettricità. La prima parte del 2024 in particolare ha visto accelerare il boom delle fonti rinnovabili anche in Europa, solo in parte grazie alla maggior disponibilità di energia idroelettrica rispetto agli anni precedenti. In Italia nella prima metà del 2024 abbiamo superato il 43% di elettricità da fonti rinnovabili (un record per noi), e il restante non è se non in minima parte da carbone. Oltretutto, tutte le centrali a carbone in Italia saranno chiuse entro il 2025 secondo la Strategia Energetica e il PNIEC, tranne quelle sarde che probabilmente ci metteranno qualche anno in più (con conseguente responsabilità politica di chi avalla tale ritardo).

Se teniamo conto degli impianti in costruzione, il sorpasso delle rinnovabili sulle fossili nell’elettricità è a un passo anche in Italia, dopo essere avvenuto già in Europa.

Quindi: la storia dell’elettricità da carbone non è mai stata vera in Italia, ma anche intendendo gas fossile e non carbone è e sarà rapidamente sempre meno vera.

Detto questo primo chiarimento, ce ne sono altri due forse meno ovvi.

Il primo: elettrificare i consumi (per esempio usando elettricità anziché benzina) ha senso anche perché la quota rinnovabile dei combustibili è molto più bassa di quella della produzione elettrica, ed è destinata a restarlo in particolare a causa della complessità di approvvigionarsi di biomassa combustibile, che in molti casi richiede vastissime aree di agricoltura dedicata e sottratta ad altro, o sfridi che però non sono disponibili in quantità sufficiente.

Il secondo motivo per cui elettrificare i consumi è sempre meglio che non farlo è l’inquinamento. Se anche, per assurdo, producessimo l’elettricità tutta da fonti inquinanti, sarebbe sempre meglio che ad inquinare fossero impianti relativamente efficienti e in grado di controllare le emissioni e lontane dai luoghi densamente abitati che tubi di scappamento urbani ad altezza di passeggino.

Vi torna? Se sì, per favore fate una pernacchia la prossima volta che sentite la cretinata del “tanto non cambia niente se uso l’auto elettrica” (o la pompa di calore).

Prima di chiudere, uno spot. Se vi piace Derrick (ma anche se no) potreste trovare interessante Ecoglossia, il nuovo podcast prodotto da I nomi e Michele Governatori su come scriviamo in azienda, e sui tic della scrittura di servizio, da un lato divertenti da osservare, dall’altro forse specchio di problemi dentro alle organizzazioni. Su Spotify, Amazon Music e YouTube


lunedì 22 luglio 2024

UE autolesionista negli sforzi per il clima? (Puntata 632 in onda il 23/7/24)

Un abitante del parco archeologico di San Augustin (Colombia)
Un abitante del
parco archeologico di
San Augustin (Colombia)
Un brutto fenomeno che io patisco, e magari non sono il solo, è la fatica nel trovarmi di fronte a conversazioni già sentite, con interlocutori che usano sempre le stesse uscite argomentative convinti che siano brillanti o definitive ma senza in realtà averle mai approfondite o testate con un minimo di accuratezza.
Bisogna a tutti i costi reprimere l’insofferenza che ne deriva se uno ha la velleità di fare piccola divulgazione nel campo di cui si occupa. Altrimenti il fallimento è palese.

Allora tento oggi un piccolo esercizio: prendo una di queste argomentazioni da talk show e provo a dire perché è completamente controvertibile.

L’affermazione, o meglio: la famiglia di affermazioni, è questa:

“L’impegno europeo sulle politiche del clima è autolesionista e inutile, perché l’Europa conta per una minima parte delle emissioni dannose globali”.

Allora: guardiamo intanto i numeri. Il mondo emette circa 35 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente all’anno, di cui il continente europeo poco più di 5 di cui poco più della metà nell’Unione Europea. È poco? Dipende da a cosa lo relazioniamo. Relazionarlo alla popolazione, calcolando le emissioni procapite, mi sembra ovvio. E cosa ne esce? Che in Europa emettiamo più della media del mondo, anche se meno dei Paesi peggiori da questo punto di vista, che sono Nord America, Australia, paesi ricchi del Golfo e Russia.

Quindi è vero che tra i paesi ricchi noi europei siamo più virtuosi, ma stiamo comunque danneggiando il clima in misura maggiore dell’abitante mondiale medio.

Un fatto evidente è che per ora chi è più ricco ancora inquina di più anche se il trend è in miglioramento (la Russia è un esempio particolarmente negativo con meno ricchezza ma altissime emissioni procapite). L’Europa da tempo riduce le proprie emissioni in termini assoluti, mentre il nord America lo fa da pochi anni (ma a rendere meno significativo questo risultato c’è da osservare che la nostra economia è stagnante).

Ma ora chiediamoci: ha senso attribuire responsabilità climatiche solo in base alle emissioni attuali? Ma certamente no! Perché? Perché l’effetto-serra è il risultato delle emissioni dannose accumulate dall’inizio dell’era industriale, in Europa a fine Settecento, nel Sudest Asiatico mediamente pochi decenni fa e in Africa in molti casi non ancora. Chi si è sviluppato compromettendo risorse ambientali ha o non ha la responsabilità di mitigare l’effetto di ciò nei confronti del resto della comunità umana?

Infine, e questa è forse la controargomentazione che mi sembra più rilevante. Se è vero (e abbiamo visto che lo è solo parzialmente) che negli sforzi per il clima l’Europa si comporta meglio di altri e che è stata pioniera di questa e tante altre forme di sviluppo, dovrebbe questo portarci a smettere di innovare e di segnare la rotta rispetto al pianeta? Di rinunciare a quel che resta della nostra capacità di influenza virtuosa?


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martedì 16 luglio 2024

Rivolte fiscali (Puntata 631 in onda il 16/7/24 e in replica il 20/8/24)

Sentiero verso l'attacco della Ferrata Delle Aquile
Verso la
via ferrata delle Aquile
(Faì della Paganella)
È ora di tornare su un tema caro a questa rubrica: i sussidi ambientalmente dannosi, che sono quasi tutti sussidi al consumo o produzione di energie fossili soprattutto derivati del petrolio, gas naturale e carbone) e includono discipline fiscali come gli incomprensibili aiuti alle auto-benefit dei quadri e dirigenti d’azienda a spese di tutti i contribuenti. (Su questo tema meriterebbe una rubrica a parte la fantasia con cui chi difende simili aiuti si arrampica sugli specchi per trovarci una logica).

Ma anche quando la politica concorda sul fatto che i soldi pubblici è meglio metterli su attività non dannose ad ambiente e clima, riuscire a mettere le mani al sistema fiscale coerentemente senza farsi male in termini di popolarità è difficile. E lo è soprattutto per la impreparazione con cui le riforme vengono formulate, non spiegate e infine applicate.

Gli economisti che si occupano di finanzia pubblica e seguono la materia ripetono ormai fino alla noia che introdurre tasse ambientali o eliminare sussidi dannosi all’ambiente (che di solito implica che alcuni beni iniziano a costare di più al consumatore) va fatto insieme a forme di compensazione. Per esempio, se sei un camionista o un tassista e ti tolgo lo sconto sulle accise del gasolio, ti propongo un rimborso fiscale tarato su quanto, con una flotta ragionevolmente efficiente, mi aspetto ti costi l’aumento di accise. A questo punto, tu camionista o tassista puoi continuare a comportarti come prima – senza che economicamente cambi nulla – oppure, com’è verosimile, cambierai i tuoi comportamenti assecondando il maggiore incentivo a consumare meno gasolio, per esempio grazie a mezzi più efficienti o legando di più le tue tariffe finali ai consumi, che è anch’esso un comportamento virtuoso per il sistema economico, perché passa a valle un incentivo virtuoso al cliente finale.

Benché l’Italia e altri paesi OCSE non siano messi bene in termini di spesa fiscale dannosa all’ambiente, la situazione è più critica in Paesi con redditi medi più bassi. Nella pagina delle Afriche dell’Economist di questa settimana si parla di Kenya, con le recenti rivolte che hanno indebolito il presidente Ruto partite dall’opposizione a una riforma fiscale che ha incluso l’aumento di alcune imposte indirette (cioè sul prezzo di beni), e di Nigeria dov’è in atto un processo inflativo sui prezzi del cibo legato anche alla riduzione di sussidi sui combustibili per trasportarlo.

Si direbbe che i Governi tendano a fallire nello spiegare perché le tasse servono e perché in qualche caso alcune vanno ritoccate in aumento a fronte di vantaggi maggiori per la generalità dei cittadini. Per esempio: se il Kenya o la Nigeria dovessero peggiorare la situazione dei già critici bilanci pubblici, magari con iperinflazione per ridurne l’impatto, la tassa da inflazione soprattutto per salariati e classe media avrebbe impatti verosimilmente peggiori e più iniqui rispetto all’aumento del prezzo del gasolio. In generale, un sistema strutturale di carbon tax può evitare altre tasse e rende non necessari i (peraltro già ridotti ormai in Italia) aiuti pubblici alle tecnologie pulite, come da anni sostiene, a restando tra le voci di questa Radio, Marco Cappato con la sua iniziativa EuMans.

Ma se i politici non hanno l’ardire o la capacità di spiegare questi meccanismi, il rischio è d’impoverirsi ulteriormente, bloccati nella trappola delle rivolte di strada o nell’ostruzionismo delle corporazioni.


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martedì 9 luglio 2024

Raccomandate postali. Perché esistono ancora? (Puntata 630 in onda il 9/7/24)

Pista ciclabile a Scutari

Qualche giorno fa ho adocchiato rientrando in casa uno di quegli scontrini menagrami che ti lascia il postino quando tenta di recapitarti qualcosa. Menagrami perché significano nel migliore dei casi ore di perdita di tempo per entrare in possesso del dispaccio, ma in alcuni casi come quello capitato a me non è nemmeno possibile recuperare la missiva andando alle Poste. E la cosa comica è che lo chiamano “avviso di cortesia”. Bella cortesia tenersi una lettera e impedirti di venirne in possesso.

Sono abbonato da anni all’Economist che esce il venerdì. Le Poste in rari casi me lo hanno recapitato il lunedì, più spesso il martedì. Non nei periodi festivi, in cui non me lo recapitavano proprio e ricevevo due numeri insieme la settimana successiva.

All’Economist lo sapevano e quando glielo segnalavi gli toccava rimborsarti il numero mai arrivato. Finché, finalmente, nella mia zona hanno assoldato qualcun altro per la consegna. Da allora ricevo il giornale il sabato all’alba senza per ora mai una défaillance.

Ma torniamo agli avvisi lasciati dal postino. E alle raccomandate. Nel caso di cui parlo si tratta di una comunicazione della Agenzia delle Entrate non raccomandata, ma se fosse una raccomandata non cambierebbe quel che sto per dire. Agenzia delle Entrate ha una solida interfaccia informatica da non so quanto tempo. Io faccio le dichiarazioni fiscali, pago le tasse, mando e ricevo fatture, tutto online. Possibile che serva ancora ricevere alcune comunicazioni cartacee dall’Agenzia? E possibile che per farlo occorra affidarsi a Poste Italiane che evidentemente ha interesse a vendere qualunque servizio tranne che a offrire decentemente quello di cui ha più o meno il monopolio?

Non ci voglio andare alla posta. Non c’è nessun motivo ragionevole per cui io debba perdere tempo così. Ho tutte le identità e recapiti digitali di cui lo Stato o altri hanno bisogno per rintracciarmi o farmi comunicazioni.

Ma immagino che ci siano ancora norme che prevedono le raccomandate in situazioni specifiche. Per esempio, nella fornitura di energia è stato a lungo previsto (e forse lo è ancora) che una modifica unilaterale di contratto debba essere comunicata via raccomandata.

Ora che abbiamo la mail, la pec, lo SPID e perfino un’app dei servizi pubblici desidero fare un appello al legislatore perché bandisca le raccomandate postali da qualunque normativa, almeno per chi è dotato di una pec.

E in tutto questo, mi aumenta solo il nervoso vedere che Poste si accorda col Governo per gestire le pratiche dei passaporti. Sarà un alibi per deresponsabilizzare ulteriormente lo Stato sui tempi (in peggioramento) di questo servizio? Che naturalmente alle Poste non sarà gratis.

Fare il passaporto in questura stando alla larga dalle Poste diventerà forse come rinnovare la patente alla Motorizzazione, dove se non sei un’agenzia ti mettono in fila allo sportello dei paria.