domenica 1 marzo 2020

Di cosa abbiamo paura (Puntata 428 in onda il 3/3/20)


Ulivi tra Amfissa e Delfi
Oggi mi baserò perlopiù su un articolo non firmato apparso su La Stampa il 23 febbraio 2020 (link sotto), che trovo molto utile e interessante. Il titolo è: “Il coronavirus terrorizza, il clima no: come nasce la concezione del rischio”.

Prima di entrare nel merito della divaricazione percettiva di cui parla l’articolo voglio però notare che un’analogia nella reazione ai due temi a mio avviso c’è: la tendenza a dicotomizzare le posizioni: quelli che vorrebbero fermare tutte le attività e ti guardano male se cammini per strada, e quelli per cui “è poco più di un’influenza” e se ti preoccupi sei un pivello. Può darsi che le visioni estreme facciano semplicemente più rumore, ma è curioso che non ci sia una convergenza vasta su un approccio più razionale, secondo cui l’altissima contagiosità di un virus senza vaccino, e che per una rilevante parte dei casi richiede cure ospedaliere, rischia di portare al collasso il sistema sanitario con esiti disastrosi per chiunque ne abbia bisogno anche per altre patologie.

Torniamo a La Stampa e al suo quesito: L’Oms stima che tra il 2030 e il 2050 la crisi climatica del pianeta provocherà 250 mila morti all’anno. Solo in Italia l’inquinamento dell’aria è la causa di circa 80 mila decessi l’anno secondo l’Agenzia europea per l’Ambiente (quante volte abbiamo citato qui questo numero).
I ricercatori dell’IPCC (il panel ONU sui cambiamenti climatici) calcolano che entro il 2100 le perdite economiche dovute all’emergenza climatica oscilleranno tra gli 8,1 e i 15 trilioni (cioè migliaia di miliardi) di dollari. Eppure non sembra che per le strade ci sia il panico. Come mai?

Riporta La Stampa tra gli altri l’opinione di Giovanni Carrosio, sociologo dell’Ambiente presso l’università di Trieste: “Per comunicare efficacemente non basta utilizzare dati oggettivi o un approccio razionale, perché la percezione dei rischi è un fenomeno molto complesso che prende forma in base al vissuto […] delle persone”. Fenomeno che si accentua, aggiunge Carrosio, dove scarseggia la cultura scientifica.
Interessante anche Marco Bagliani, docente di Cambiamento climatico all’università di Torino, secondo cui nella psicologia dei disastri hanno importanza tempi, spazi e ricadute sociali: “L’epidemia del coronavirus si sviluppa su una scala temporale breve e rispetta i tempi tipici dell’attenzione, mentre il cambiamento climatico varia su una scala temporale più lunga. Parlando di spazi, l’epidemia ha una sua collocazione: le città, gli ospedali, una nave in quarantena, mentre la crisi del nostro pianeta non si sviluppa per forza sotto i nostri occhi”.

Siamo insomma un po’ tutti come i bimbi piccolissimi, per i quali il mondo è solo ciò di cui hanno un’immagine attuale davanti a sé.


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