Cos’è la crescita
sostenibile?
Naturalmente è una domanda complessa. La presenza umana sulla
Terra ha sempre impatti sulle sue risorse, parte delle quali, per esempio
quelle geologiche, non sono riproducibili in tempi rilevanti per l’umanità. Quindi
se sostenibilità è lasciare ai nostri figli lo stesso identico patrimonio
naturale che abbiamo trovato, è una chimera. Dunque il concetto utile di
sostenibilità è relativo, e in parte anche diverso a seconda degli approcci.
Gli
ottimisti dicono che ci pensa il progresso tecnologico a ridurre il fabbisogno
di risorse non riproducibili a parità di soddisfazione dei nostri bisogni, e ad
aumentare la produttività dei fattori, com’è successo per esempio
nell’agricoltura dove a parità di terreni i raccolti sono aumentati permettendo
buona parte della nostra emancipazione successiva.
Ma è una posizione un po’
semplicistica, perché le nuove tecnologie vengono spontaneamente applicate solo
quando conviene, il che potrebbe essere più tardi di quanto sia desiderabile. Per
esempio, la penuria futura di risorse naturali potrebbe essere da un lato
prevedibile, dall’altro non aver ancora espresso i suoi effetti economici che
potrebbero poi essere più severi di quanto costi anticipare le tecnologie per
evitarli. O, più semplicemente, gli agenti privati possono non avere interesse
a conservare alcune risorse benché la loro penuria sia già un costo sociale
irrazionalmente alto (un esempio, applicato però a risorse rinnovabili, è la
pesca incontrollata, che riduce la produttività dei mari danneggiando gli
stessi pescatori).
In entrambi i casi le azioni necessarie non arrivano
spontaneamente, e sono assimilabili direi a quelli che nel gergo degli
economisti sono detti beni pubblici. Beni cioè che conviene alla comunità siano
resi disponibili ma che un singolo operatore privato ha insufficiente interesse
a rendere disponibili.
L'impronta materiale
Un modo per calcolare
quanto i nostri consumi impattano la disponibilità di materie prime non
riproducibili è il quoziente tra PIL e valore o quantità di materie consumate
per produrlo. Quando si dice che le economie moderne si dematerializzano si
intende che questo quoziente si riduce. Se il quoziente si riduce meno del
tasso di aumento del PIL, l’economia si smaterializza in senso relativo (i
consumi di materie prime aumentano, ma meno del PIL), se invece il quoziente di
riduce più di quanto cresca il PIL, l’economia diminuisce il proprio fabbisogno
in termini assoluti.
Luca Pardi mi ha
segnalato un articolo sul Guardian che cita uno studio agli atti dell’accademia delle scienze degli
Stati Uniti, il quale sostiene che le statistiche ufficiali che mostrano la smaterializzazione
almeno relativa delle economie più evolute non sono affidabili, perché non
tengono interamente conto delle materie prime necessarie a rendere disponibili
i beni importati. In altri termini la stima della produttività dei fattori include
nelle analisi comuni gli input della produzione ma non l’intero consumo di
risorse materiali. Credo che la questione, per analogia, sia simile a quella
delle emissioni di gas serra legate all’estrazione di un idrocarburo: esse
normalmente non sono computate nelle emissioni legate al suo consumo.
Lo studio però non nega
che un cambio di tendenza ci sia, nei Paesi Ocse, e lo fa coincidere con lo
shock petrolifero-economico del 2007. Morale: potremmo essere troppo ottimisti
sulla smaterializzazione delle economie rispetto alle materie prime fisiche, ma
la tendenza c’è, e forse la crisi ha innescato modifiche strutturali. Questo è
sufficiente a rendere sostenibile il nostro sviluppo?
(Continuerà).
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