Ha senso tirare fuori il petrolio e il gas del nostro
sottosuolo?
Questo tema è tornato molto d’attualità dopo che prima la Strategia Energetica Nazionale del marzo 2013, poi il decreto Sbloccaitalia nell'autunno 2014 hanno rilanciato lo sfruttamento di queste risorse.
Sempre del 2014 è un protocollo tra la Regione Sicilia e
Assomineraria, in rappresentanza dell’Eni e di altre aziende petrolifere, per
favorire lo sfruttamento di pozzi vecchi e nuovi, in particolare al largo delle
coste meridionali siciliane, di cui parlerò in dettaglio nella prossima
puntata.
Dunque torniamo al quesito iniziale: il senso economico
(inteso in modo olistico, dove anche gli effetti su ambiente e attività
alternative sono valutabili economicamente) dello sfruttamento delle risorse
nazionali di petrolio e gas.
Nei regimi concessori, come da noi, il petrolio appartiene
allo Stato. Le sue riserve sono quindi una posta attiva in un ipotetico stato
patrimoniale delle risorse pubbliche, che però non viene redatto o almeno non con la completezza e facilità d'accesso che dovrebbe avere un bilancio almeno nei confronti degli azionisti (in questo caso: noi).
Quando le riserve geologiche vengono consumate, la posta attiva dell'ipotetico stato patrimoniale si riduce e produce redditi privati,
parte dei quali tornano allo Stato sotto forma di royalty e di tasse.
Uno studio
di Nomisma Energia del 2012 mostra che le royalty nei paesi OCSE dove sono
applicate sono generalmente più alte che in Italia, ma in qualche caso nel nord
Europa (Norvegia, Irlanda, Danimarca) sono state abolite e sostituite da
imposte sul reddito ad hoc. Il risultato generale secondo Nomisma è comunque
che da noi la tassazione specifica per le attività di coltivazione degli
idrocarburi è relativamente bassa, mentre si torna a livelli più allineati solo includendo
tutte le imposte sul reddito delle aziende.
Un favore alle aziende petrolifere operanti in Italia? Proprio
Davide Tabarelli, direttore di Nomisma Energia, in una conversazione a margine di un convegno mi diceva che parte di questo gap tra le
nostre royalty e quelle di altri Paesi potrebbe invece spiegarsi con la necessità
di compensare, rispetto agli investitori, la maggiore incertezza e inefficienza dell’apparato burocratico
italiano rispetto ad altri.
Resta il fatto che più basse sono le royalty meno della
rendita di estrazione il nostro Stato si riprende. E perché la riduzione delle
riserve di idrocarburi sia più sostenibile almeno dal punto di vista economico
occorrerebbe destinare le royalty a investimenti che aumentino il valore di altre
parti di questo patrimonio.
Un’operazione di compensazione di questo tipo il Ministero
dello Sviluppo Economico aveva previsto con il ministro Zanonato, attraverso un “fondo investimenti
per i territori interessati” al quale destinare tra il 15 al 30% dell’IRES
pagata da aziende di coltivazione di idrocarburi per i nuovi progetti. Fondo che
credo desse attuazione all’articolo 16 del decreto-Legge del 24 gennaio 2012
come convertito, che prevede la destinazione a “progetti infrastrutturali e
occupazionali di crescita” dei
territori interessati. Definizione, che, ne converrete, è piuttosto generica e
si presta a scelte arbitrarie.
Chiarimenti arrivarono però con un decreto
del Ministero dell’Economia del 12 settembre 2013, art. 1 comma 3, che completa la definizione
così (la riporto com’è scritta):
“L'intervento del Fondo e' finalizzato al finanziamento di progetti strategici, sia di carattere infrastrutturale sia di carattere immateriale, di rilievo regionale, provinciale o locale, aventi natura di grandi progetti o di investimenti articolati in singoli interventi di consistenza progettuale ovvero realizzativa tra loro funzionalmente connessi, in relazione a obiettivi e risultati quantificabili e misurabili, anche per quanto attiene al profilo temporale.”
Il discorso continua qui.
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