Si chiude qui un mini-ciclo
dedicato ad aspetti economici dell’estrazione del petrolio e del gas nel nostro
territorio.
Avevamo finito l’altra volta osservando che le norme
prevedono compensazioni economiche anche in termini di investimenti nei luoghi
interessati dalla coltivazione di idrocarburi. Ma sulla natura di questi
investimenti le indicazioni normative sono generiche fino alla presa in giro. Ora
le informazioni sul fondo ad hoc sono sparite dal sito del Ministero dello
Sviluppo, ma da quello che capisco il sistema è ancora in piedi e lo Sbloccaitalia all’articolo
36 bis chiarisce che la quota delle maggiori entrate destinata a essi è il 30%
delle imposte pagate dai nuovi progetti minerari per i primi dieci anni.
È previsto nella Legge99/2009 anche un fondo di compensazione per le popolazioni delle aree
interessate dallo sfruttamento, che in origine era destinato ad abbassare il
prezzo dei carburanti, ma che con lo Sbloccaitalia diventa “Fondo
per la promozione di misure di sviluppo economico e l'attivazione di una social
card”. Anche qui dobbiamo aspettare a vedere come i soldi saranno utilizzati.
C’è un altro elemento a mio avviso che dovrebbe essere
considerato dal decisore pubblico riguardo all’estrazione di idrocarburi: il loro
prezzo. Se ricordo bene Renzi ha motivato il rinvio della vendita di un’ulteriore
tranche di Eni ed Enel anche sulla base del prezzo oggi troppo basso delle
azioni e, implicitamente, con l’aspettativa che crescano in futuro. Se
applichiamo lo stesso ragionamento al petrolio, visto il crollo recente e la
ragionevole aspettativa che esso comporterà una riduzione delle riserve e
quindi una successiva scarsità tale da rialzarne il prezzo, la cosa giusta da
fare è rimandare l’estrazione.
Tra le zone d’Italia interessate da intensificazione della
ricerca e della coltivazione di idrocarburi c’è la Sicilia, dove la Regione ha
siglato recentemente due protocolli d’intesa collegati tra loro: uno insieme al
Ministero dello Sviluppo Economico con Eni sulla conversione con salvaguardia
occupazionale della raffineria di Gela ad attività diverse dalla raffinazione
petrolifera, un altro con Assomineraria (rappresentanza confindustriale di
operatori dell’upstream petrolifero) sull’estrazione di idrocarburi in
particolare nel canale di Sicilia.
L’accordo con Eni in sostanza dice che l’azienda, dopo aver
perso troppi soldi con la raffinazione, che come sappiamo a Derrick è un business
falcidiato dal calo della domanda dei combustibili e dall’eccesso di capacità
produttiva, investirà a Gela in produzioni non più legate al petrolio bensì
soprattutto a biocombustibili e loro logistica oltre a quella del gas naturale
liquido, mentre quasi 400 esuberi della raffineria verranno ricollocati nel
settore minerario oil e gas, anche se solo un quarto in Sicilia dove Eni
prevede investimenti per aumentare a regime la media annua di produzione di gas
naturale di 700 milioni di metri cubi e di petrolio di 1,2 milioni di barili
per dieci anni, che significherebbe più che raddoppiare la produzione annua di
gas siciliano e aumentare di poco più del 20% quella petrolifera rispetto al 2013.
Il protocollo non cita peraltro i danni ambientali dalle attività della
raffineria accertati dallo studio epidemiologico Sentieri.
E in cambio cosa promette la Regione? Nei due protocolli
s’impegna a svolgere in modo efficiente gli iter autorizzativi e a non
aumentare le royalty, fermi i poteri di legislazione statale e regionale. Impegni
in realtà un po’ deboli se presi alla lettera, visto che appunto non possono comprimere l’autonomia in materia del consiglio Regionale e del Governo. Impegni che d'altra parte trovo dubbi in termini di tutela della concorrenza, se si deve intendere che la Regione o il Governo
garantiranno ai firmatari accesso esclusivo alle attività minerarie.
Limitatamente all’accordo su Gela, invece, il do ut des con
Eni è esplicito: Eni fa la conversione della raffineria (ma con meno occupati
in essa) e in cambio intensifica l’upstream nel canale di Sicilia.
Contro gli accordi si sono espressi tra gli altri
Legambiente e il Fatto Quotidiano, che con Maria Rita d’Orsogna ha mostrato
l’inconsistenza di alcune dichiarazioni di Crocetta sulle attese
stra-ottimistiche di introiti da royalty.
C’è legittima preoccupazione anche per l’incompatibilità tra
valorizzazione del patrimonio ambientale anche ai fini di sviluppo del turismo e
attività petrolifera.
Io credo che l’incompatibilità con il turismo locale delle attività minerarie a
terra, in un territorio pregiato e fragile come quello italiano, sia quasi
sempre affermabile. Per quanto riguarda le attività in mare aperto, da un lato è vero che la coltivazione di idrocarburi, per esempio
in Adriatico, non ha impedito lo sviluppo turistico della riviera romagnola e marchigiana,
dalla quale è spesso possibile vedere piattaforme al largo, dall'altro c’è anche in mare la questione sicurezza, che si lega
alla capacità dello Stato di controllare il rispetto delle regole e di
investire nei controlli.
Più in generale, però, come scrivevo sopra, credo che intensificare l'estrazione di idrocarburi nazionali ora sia un errore sul piano economico, tenendo conto del valore attuale e potenziale futuro delle riserve.
Più in generale, però, come scrivevo sopra, credo che intensificare l'estrazione di idrocarburi nazionali ora sia un errore sul piano economico, tenendo conto del valore attuale e potenziale futuro delle riserve.
I due protocolli d'intesa siciliani si possono scaricare qui.
Per questa puntata ringrazio Zelda Raciti.
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