martedì 27 settembre 2016

Multinazionali cattive? - D288

Le multinazionali sono cattive?

Per gli ambienti fricchettoni e no-global di sinistra certamente sì, lo sono. Basta dire multinazionale e automaticamente pensi a ogm, latifondi, chimica sporca, evasione fiscale, sfruttamento del lavoro eccetera. Meno scontata la risposta se a portarla è l’editoriale dell’Economist uscito su carta il 17 settembre 2016, intitolato “Un problema gigante”.

Cava di marmo sul mare, isola di Thassos, Grecia.
(Copyright: Derrick)
Il mondo delle imprese, scrive l’Economist, si sta concentrando. Il fatturato delle 100 maggiori imprese americane pesava un terzo nel ’94 e il 46% nel 2013, e anche le prime 5 banche lì sono passate rispetto al 2000 dal 25% al 45%. In più, le startup da un lato sono sempre meno, dall’altro tipicamente agiscono come laboratori che mirano a farsi comprare da aziende grandi prima di entrare in fase di operatività commerciale.
Una possibile causa suggerita dall’Economist è che in tempi di economia stagnante c’è maggiore attenzione all’efficientamento dei costi e quindi l’aggregazione anche tra aziende concorrenti è forzata. Un’altra che invece mi permetto di aggiungere io è che nei settori maturi in cui la domanda non cresce le aziende crescono perlopiù andando a prendere i clienti di altre, che costa di più (per esempio nelle utility) rispetto a intercettare nuovi clienti non ancora serviti, e questo mette le startup in una condizione di sfavore.


E fin qui abbiamo parlato del fattore dimensionale, non necessariamente di quello internazionale. Ma anche l’internazionalità comporta vantaggi che diventano barriere all’entrata per chi non ce l’ha. Un vantaggio delle multinazionali dannoso alla concorrenza, scrive l’Economist così come scrivono con parole loro i blog fricchettoni, è la possibilità da un lato di far passare o stazionare i soldi nei paradisi fiscali, dall’altro di attuare il cosiddetto “transfer pricing”, cioè di stabilire i prezzi a cui le diverse divisioni dell’azienda si scambiano beni o servizi in modo da far emergere gli utili nei Paesi dove sono tassati di meno. In effetti la gestione fiscale di aziende internazionali è tipicamente soggetta a fenomeni di elusione complessi che si contrastano perlopiù con azioni e regole concordate tra Paesi. Regole più invasive di quanto una visione tradizionalmente liberale consideri accettabile.

(E qui faccio un inciso: la pessima stampa attuale dei liberali si deve a mio parere non solo all’analfabetismo economico ancora imperante da noi e alla comprensibile paura indotta dalla crisi, ma anche alla tendenza di parte dei liberali stessi di ribadire principi del libero mercato certamente fondati, ma che richiedono declinazioni sempre più complesse per applicarsi al mondo attuale).

Prosegue l’Economist che perfino le regole di trasparenza necessarie a evitare abusi di mercato, per esempio quelle introdotte dopo la crisi del 2008 nei mercati finanziari prima in America poi in Europa, paradossalmente aiutano i grandi a rimanere in pochi nel business, perché richiedono strutture interne di rispetto (compliance, nel gergo) complesse e con elevati costi fissi. Per esempio in Europa si sta negoziando un pacchetto di regole per le transazioni su prodotti finanziari che imporrà anche a chi commercia all’ingrosso energia o materie prime di strutturarsi come una banca in termini di riserve di capitale e di obblighi di monitoraggio, con invio alle Autorità finanziarie di enormi quantità di dati sulle proprie transazioni.

Ops, sto sforando il tempo. Vogliamo forzare una possibile conclusione? Forziamola: se da un lato è ideologico e soprattutto inutile dire che le multinazionali sono cattive, è anche vero che la globalizzazione si accompagna a un processo generalizzato di crescita dimensionale delle aziende che sposta i meccanismi di difesa pubblica della concorrenza a livello sempre più di cooperazione internazionale, senza la quale ci sono problemi e distorsioni. E se la soluzione di chiusura e protezionismo è stupida perché a pochi consumatori va bene consumare solo i prodotti del proprio orto, i governi devono necessariamente armonizzare sempre più le regole dei mercati globali. La globalizzazione economica c’è, quella delle politiche serve.


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