Le multinazionali sono
cattive?
Per gli ambienti
fricchettoni e no-global di sinistra certamente sì, lo sono. Basta dire
multinazionale e automaticamente pensi a ogm, latifondi, chimica sporca,
evasione fiscale, sfruttamento del lavoro eccetera. Meno scontata la risposta
se a portarla è l’editoriale dell’Economist uscito su carta il 17 settembre
2016, intitolato “Un problema gigante”.
Cava di marmo sul mare, isola di Thassos, Grecia. (Copyright: Derrick) |
Il mondo delle imprese,
scrive l’Economist, si sta concentrando. Il fatturato delle 100 maggiori
imprese americane pesava un terzo nel ’94 e il 46% nel 2013, e anche le prime 5
banche lì sono passate rispetto al 2000 dal 25% al 45%. In più, le startup da
un lato sono sempre meno, dall’altro tipicamente agiscono come laboratori che
mirano a farsi comprare da aziende grandi prima di entrare in fase di
operatività commerciale.
Una possibile causa
suggerita dall’Economist è che in tempi di economia stagnante c’è maggiore
attenzione all’efficientamento dei costi e quindi l’aggregazione anche tra
aziende concorrenti è forzata. Un’altra che invece mi permetto di aggiungere io
è che nei settori maturi in cui la domanda non cresce le aziende crescono perlopiù
andando a prendere i clienti di altre, che costa di più (per esempio nelle
utility) rispetto a intercettare nuovi clienti non ancora serviti, e questo
mette le startup in una condizione di sfavore.
E fin qui abbiamo parlato
del fattore dimensionale, non necessariamente di quello internazionale. Ma
anche l’internazionalità comporta vantaggi che diventano barriere all’entrata
per chi non ce l’ha. Un vantaggio delle multinazionali dannoso alla
concorrenza, scrive l’Economist così come scrivono con parole loro i blog
fricchettoni, è la possibilità da un lato di far passare o stazionare i soldi
nei paradisi fiscali, dall’altro di attuare il cosiddetto “transfer pricing”,
cioè di stabilire i prezzi a cui le diverse divisioni dell’azienda si scambiano
beni o servizi in modo da far emergere gli utili nei Paesi dove sono tassati di
meno. In effetti la gestione fiscale di aziende internazionali è tipicamente
soggetta a fenomeni di elusione complessi che si contrastano perlopiù con
azioni e regole concordate tra Paesi. Regole più invasive di quanto una visione
tradizionalmente liberale consideri accettabile.
(E qui faccio un inciso: la
pessima stampa attuale dei liberali si deve a mio parere non solo
all’analfabetismo economico ancora imperante da noi e alla comprensibile paura
indotta dalla crisi, ma anche alla tendenza di parte dei liberali stessi di ribadire
principi del libero mercato certamente fondati, ma che richiedono declinazioni sempre
più complesse per applicarsi al mondo attuale).
Prosegue l’Economist che
perfino le regole di trasparenza necessarie a evitare abusi di mercato, per
esempio quelle introdotte dopo la crisi del 2008 nei mercati finanziari prima
in America poi in Europa, paradossalmente aiutano i grandi a rimanere in pochi nel
business, perché richiedono strutture interne di rispetto (compliance, nel gergo) complesse e con elevati costi fissi. Per
esempio in Europa si sta negoziando un pacchetto di regole per le transazioni
su prodotti finanziari che imporrà anche a chi commercia all’ingrosso energia o
materie prime di strutturarsi come una banca in termini di riserve di capitale
e di obblighi di monitoraggio, con invio alle Autorità finanziarie di enormi
quantità di dati sulle proprie transazioni.
Ops, sto sforando il
tempo. Vogliamo forzare una possibile conclusione? Forziamola: se da un lato è
ideologico e soprattutto inutile dire che le multinazionali sono cattive, è
anche vero che la globalizzazione si accompagna a un processo generalizzato di
crescita dimensionale delle aziende che sposta i meccanismi di difesa pubblica
della concorrenza a livello sempre più di cooperazione internazionale, senza la
quale ci sono problemi e distorsioni. E se la soluzione di chiusura e
protezionismo è stupida perché a pochi consumatori va bene consumare solo i
prodotti del proprio orto, i governi devono necessariamente armonizzare sempre
più le regole dei mercati globali. La globalizzazione economica c’è, quella
delle politiche serve.
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