lunedì 9 dicembre 2019

Petrolio e sussidi ai carburanti in Iran (Puntata 420 in onda il 10/12/19)


Con Giovanni Mitrotta

Per il fondo monetario internazionale, i sussidi al consumo di fonti fossili d’energia, intesi come il gap tra il prezzo effettivamente pagato e il prezzo efficiente (cioè quello di mercato corretto con le esternalità ambientali) valgono nel mondo il 6,5% del prodotto interno lordo. Un valore impressionante. Molti Paesi, compresa l’Italia nell’ambito di un programma G20 di disintossicazione da questi sussidi, si sono impegnati a ridurli, e alcuni anche grandi, come il Messico, lo hanno fatto davvero. È d’attualità il caso dell’Iran, il cui regime sta duramente contrastando proteste contro l’aumento del prezzo dei carburanti per autotrazione.
Autobotte petrolifera iraniana prima della nazionalizzazione
(Immagine da Pinterest)

La storia del petrolio iraniano inizia nel 1909 con la fondazione della Anglo-Persian Oil Company, che aveva il governo inglese come azionista di maggioranza, e cui l’Iran aveva dato una concessione di 60 anni su buona parte dei giacimenti del Paese in cambio una royalty del 16%, poi elevata nel 1933 sotto il regime di Rezha Shah Palhavi, fautore di una prima modernizzazione e laicizzazione del Paese. Questi lasciò il potere al figlio dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando il Paese venne occupato dagli alleati proprio per controllare i pozzi petroliferi.
La reazione nazionalista fu violenta con l’uccisione nel 1951 del Primo Ministro Ali Razmara, filo-occidentale e contrario alla nazionalizzazione del settore petrolifero che il parlamento invece successivamente approvò, almeno in una versione parziale che comunque non fu accettata dai soci inglesi, che reagirono prima con un embargo e poi appoggiarono un colpo di Stato che si risolse con il ritorno del re.
Da allora l’azienda petrolifera di Stato ha attribuito ad aziende occidentali concessioni di coltivazione petrolifera, finché con la rivoluzione khomeneista del 1979 iniziò un nuovo periodo di petrolio di Stato. Gli iraniani, scrive l’Economist nel numero di fine novembre 2019, sembrano considerare un diritto innato quello di avere la benzina quasi regalata, diritto considerato intrinseco anche alla politica di Khomenei.
Inutile dire che i carburanti sussidiati hanno creato un mercato nero di contrabbando all’estero, in modo simile a come perfino dalle nostre parti si scambiano in nero prodotti per lucrare sulla diversa tassazione tra Paesi.

La strana associazione tra prezzi dei carburanti e welfare, in generale, è una questione su cui riflettere, e sembra legare proteste in Paesi in via di sviluppo con quelle degli strati popolari di stati avanzati (i gilet jaunes in Francia, per esempio, che in Italia non vediamo probabilmente solo perché nessun Governo, men che meno quello attuale che pure l’aveva annunciato, ha il nerbo per intervenire sulle imposte ambientali).
Mi sembra che si possa identificare una sorta di proletariato extraurbano perlopiù non giovane, visto che i giovani l’auto privata spesso non l’hanno proprio, composto di fasce sociali rimaste indietro rispetto all’urbanizzazione e alla digitalizzazione dell’economia, che si sente più che altri stati sociali colpito dall’aumento dei prezzi dei carburanti. Naturalmente questa mia affermazione è avventata e richiede più analisi, che proverò se ne avrò gli elementi a portare avanti in altre puntate. Intanto ringrazio per questa il coautore Giovanni Mitrotta.

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