Intervista a Michele Governatori apparsa su Nuova Energia 2/2015
Tempo fa in Italia, nell’energia si
parlava di colli di bottiglia
che ne frenavano una vera liberalizzazione. A che punto stiamo?
Se
parliamo di colli di bottiglia fisici, e in particolare di vincoli alle
interconnessioni con l’estero di gas ed elettricità, direi che la situazione
per quanto riguarda l’Italia continua a migliorare non solo per il trend di
aumento, anche in prospettiva, della capacità fisica, ma anche perché i prezzi
italiani all’ingrosso, oggi più vicini a quelli europei, hanno reso più bassa la
perdita di benessere economico dovuta ai vincoli residui. Inoltre,
nell’elettricità il market coupling partito quest’anno permette uso più
efficiente della capacità disponibile.
Le cose
vanno meno bene internamente, dove è sempre complicato fare nuove linee
elettriche e dorsali gas. Se guardiamo alla nuova interconnessione elettrica
Calabria-Sicilia, ancora bloccata, è triste dover constatare che i prezzi
dell’isola e del continente si sono sì avvicinati molto rispetto al passato (e
questo è un bene per i consumatori), ma attraverso un intervento dirigistico che
ha reso sostanzialmente amministrata la remunerazione delle centrali siciliane.
E poi ci
sono i colli di bottiglia nel disegno di mercato, ancora più gravi, ma ne
parliamo dopo.
È davvero iniziata una ripresa dei
consumi energetici nel nostro Paese? E questo significa che possiamo stare
tutti più tranquilli, oppure...
I dati recentissimi di ripresa
nell’elettrico sembrano mostrare aumenti di consumi simili a quelli del PIL.
Quindi probabilmente siamo di fronte a un effetto fisiologico di ripresa
indotta da quella dell’economia. Quest’ultima però è una ripresa debole,
soprattutto se confrontata con l’eccezionalità delle misure di politica
monetaria per stimolarla (il QE) e del contesto favorevole (petrolio a buon
mercato, Euro deprezzato).
Dubito poi che vedremo un aumento
dell’intensità energetica del sistema (cioè del rapporto tra consumi di energia
e PIL), credo anzi che gli effetti permanenti della crisi, che corrisponde a
un’evoluzione dolorosa ma per certi versi anche sana dell’economia,
stabilizzeranno al ribasso l’intensità energetica a causa della selezione di
aziende a maggior valore aggiunto e quindi con minore incidenza degli acquisti
energetici in rapporto al valore della produzione. A questo si aggiungono gli
effetti delle politiche di efficienza che credo soprattutto nei consumi
domestici e del terziario stiano dando risultati strutturali. Io stesso consumo
in modo molto diverso rispetto a quando avevo lampade a incandescenza, una
caldaia senza condensazione dei fumi e finestre a maggiore trasmittanza, e non
tornerò indietro.
C’è, per l’altro verso, una
prospettiva rilevante di concorrenza tra fonti di energia, che potrebbe avvantaggiare
l’elettrico (soprattutto grazie a pompe di calore e auto elettriche) a meno che
non prendano piede tecnologie di microgenerazione diffusa a gas.
Per finire la risposta: un’azienda
di mercato credo non possa stare mai tranquilla. O “imbrocca” la sua visione
del futuro e vi trova uno spazio coerente, o non guadagnerà.
L’Europa dell’energia non sembra
procedere a passo spedito…
Siamo abituati a sentirci dire che
il mercato unico non è completo e che tanti Paesi sono in ritardo
nell’applicazione delle direttive mercato. Che è per molti versi vero. Ma è
anche vero che l’UE, pur in una fase di debolezza della Commissione rispetto ai
Governi e che spero si superi con la gestione Juncker, è ancora il motore
principale delle istanze pro mercato. Basta vedere la procedura d’infrazione in
corso nei confronti dell’Italia riguardo all’applicazione del terzo round di
direttive mercato, che tocca aspetti decisivi come l’unbundling tra gestione
delle reti e vendita di energia anche a livello locale e l’autonomia
dell’Autorità di settore.
E ancora: il coupling dei mercati
del giorno prima ormai compiuto in gran parte dell’Europa occidentale (e non
solo) è un risultato importante di integrazione. Certo ci sono incognite
riguardo all’integrazione dei mercati del bilanciamento e di quelli – nascenti
– della capacità, e c’è stata la resa molto grave proprio di Juncker riguardo
all’armonizzazione della fiscalità energetica.
Ma nel complesso ho l’impressione
che sia ancora l’UE a dare il “la” ai mercati liberalizzati.
Il crollo del prezzo del barile sta
mettendo in difficoltà il settore shale.
Che cosa sta cambiando?
Credo stia avvenendo, in modo
particolarmente repentino, una cosa fisiologica nel settore oil&gas:
l’alternanza di momenti in cui il prezzo della commodity giustifica
investimenti massicci con altri in cui accade il contrario. A questo si
aggiunge il cambio del trend della domanda dovuto credo in parte a cambi
tecnologici nell’uso dell’energia e, soprattutto, al rallentamento della
crescita globale, dovuta all’andamento dei Paesi che ci avevano abituati a uno
sviluppo più rapido. È un sistema che si autoregola ma che richiede spalle
larghe da parte degli investitori. Le risorse minerarie sono destinate a
diventare scarse e scarsissime nel lungo periodo, ma questo ha poco a che fare
con la loro scarsità di breve che dipende dalla capacità produttiva installata
in un determinato momento (una cosa che incredibilmente i fan della teoria del
picco del petrolio non afferrano). Mi aspetto che la produzione di shale per qualche tempo resterà alta,
perché il boom di investimenti (eccessivo secondo i critici che parlano di
“bolla shale”) ha portato a una
capacità estrattiva che conviene far funzionare finché i prezzi della commodity
sono superiori ai soli costi operativi di estrazione. Per questo ci potrebbe
volere del tempo prima che i prezzi oil&gas inizino a fornire di nuovo un
segnale di scarsità.
Torniamo nel nostro Paese. Il
settore dell'energia, almeno in Italia, sembra essere piuttosto conflittuale. Qualsiasi provvedimento,
delibera, decisione, venga annunciato... c'è sempre qualcuno che si sente
danneggiato. Ma è davvero così difficile mettere d'accordo le varie componenti?
Non credo che la conflittualità sia
necessariamente un problema. Che ci siano interessi contrastanti è normale, il
punto discriminante piuttosto è con quanta efficacia e trasparenza un sistema
riesce a contemperarli. La definizione diritti acquisiti l’ho sempre trovata
poco utile, e qualche volta viene usata a sproposito intendendo la più vasta
categoria delle aspettative acquisite. Tecnicamente un contratto o una
convenzione a tempo determinato sono sì diritti acquisiti, ma non lo è per
esempio l’aver confidato nell’immutabilità delle norme. Uno che investe deve
avere un’idea del futuro, e se questa gli potesse essere garantita non
chiameremmo “di rischio” il capitale che lui ci mette: gli investimenti possono
andare male.
Se mi consenti di allargarmi un po’
nella risposta, io credo che in Italia noi abbiamo un concetto di politica
industriale fatta di stampelle alle aziende in crisi anziché di idee
strategiche di futuro e aiuto alle imprese che devono nascere per realizzare
quel futuro. Einaudi diceva che un’economia di mercato ha bisogno della
sanzione (il fallimento) per le imprese “male gerite”. Io aggiungerei anche per
quelle che hanno sbagliato le scommesse. Solo così le loro risorse (persone,
capitali) possono liberarsi e rientrare nel circolo dell’economia.
Tornando all’energia: il
legislatore e l’Autorità hanno il dovere di cambiare le regole quando ritengono
sia necessario, condividendo quando è possibile in anticipo le direttrici
strategiche con cui lo fanno. Condivisione che l’Autorità dell’energia fa nei
documenti di consultazione, ma con un piglio che trovo troppo burocratico, e
che il Governo ha fatto con un documento importante ma poi apparentemente
snobbato e quasi abbandonato: la strategia energetica nazionale. Infine:
probabilmente non ha molto senso che norme di settore vengano sfidate da
tribunali amministrativi e con esiti che derivano da ragioni spesso formali. Un
altro sistema, una sorta di arbitrato istituzionale di settore, magari sarebbe
meglio, ma come?
Oggi sembra che tutto ciò che ruota
attorno al mondo dell'energia debba essere preceduto dal prefisso smart, altrimenti
è da buttare. Ha davvero senso parlare di smart energy?
È vero! Non se ne può più. Se io avessi
il coraggio di fare l’imprenditore in questo settore (uno dei sogni
irrealizzati della mia vita, come quello di diventare un bravo jazzista)
sceglierei una ragione sociale, tanto per distinguermi, del tipo Energia
Gonza. Scherzi a parte: se una cosa è davvero intelligente non dovrebbe
servire autodichiararla tale perché ce ne si accorga.
Poi, lo scrive anche l’Autorità in
una sua recente consultazione: se li dobbiamo pagare in tariffa, bisogna
valutare analiticamente dove stanno i vantaggi dei progetti “smart”. Se sono
progetti di mercato, invece, dovrebbe valere quella sana selezione naturale di
cui dicevo prima.
Una cosa che si sente di continuo preconizzare
è l’opportunità di stoccare energia di fonte rinnovabile verde per superare i
vincoli di dispacciamento. Magari facendone idrogeno, o addirittura nei casi
più fantasiosi molecole di sintesi in grado poi di ri-liberare energia. Peccato
che a volte si consideri l’obiettivo di produrre tutto il producibile come un
postulato indipendente dai costi. Ricordo l’analisi costi-benefici che fece
Terna anni fa per giustificare l’investimento in batterie sulla rete di
trasmissione elettrica: partiva dal presupposto che si dovesse azzerare subito
l’energia verde non dispacciata (che oltretutto era già poca). Una
dichiarazione di missione costi quel che costi, più che un’analisi
costi-benefici. Per fortuna l’Autorità poi si è attivata per correggere almeno
in parte l’impostazione.
Questo è anche l'anno dell'EXPO. Qualcuno
ha detto che il tema energia – salvo soprese – è stato considerato solo
di sponda e senza lo spazio che avrebbe meritato. Dunque, un'occasione persa?
Cosa ne pensi?
Io credo che il tema cibo sia un
bel tema, non concordo con i detrattori che lo vedono come un settore troppo
tradizionale o “arretrato”. Ho l’impressione che stiamo assistendo a un cambio
economico-culturale, per cui gli strumenti di frontiera oggi percepiti come più
utili ad aumentare il nostro benessere siano da un lato più immateriali, e dall’altro
più legati alla salute e alla sostenibilità in generale, e il cibo di qualità
richiama questo concetto. Anche l’energia è influenzata da questo trend e il
“consumare meglio”, almeno in alcune fasce di clienti, sta diventando
un’esigenza sempre più percepita. È una moda? In parte forse sì, ma non per
questo è meno rilevante. Una moda è pur sempre il segno di un desiderio da
soddisfare e per cui si è disposti a pagare. Io, per esempio, pagherei per un
sistema di domotica energetica, e pagherei probabilmente più soldi rispetto ai risparmi
che mi comporterebbe. Sono sciocco? Può darsi, embè? Sono un consumatore
libero: il portafogli è mio e me lo gestisco io…
Lo scorso 13 aprile si è svolto a
Milano il convegno annuale di AIGET. Quali sono gli spunti più interessanti che
sono emersi? C'è stata qualche proposta, qualche idea o qualche intervento che ti
hanno colpito in particolare?
In Aiget stiamo facendo uno sforzo
pazzesco per portare avanti le istanze del mercato, in un contesto di
arroccamento (comprensibile ma dannoso al sistema) degli operatori con business
regolati e di quelli con posizioni di dominanza. Noi crediamo che se vogliamo
tenere basse le bollette e alta la qualità del servizio al cliente l’unica
risposta che funziona è la concorrenza efficace. Al convegno, che è corrisposto
al lancio del position paper 2015 disponibile sul sito dell’Aiget, abbiamo
posto l’accento soprattutto sulla necessità di far funzionare i mercati
organizzati a pronti e a termine del gas e di realizzare un unbundling efficace
tra distribuzione e vendita di elettricità e gas. Quest’ultima è una condizione
indispensabile a garantire una concorrenza equa tra tutti i venditori, e deve
passare attraverso una terziarizzazione delle informazioni utili
all’acquisizione dei clienti (tramite il Sistema Informativo Integrato di
Acquirente Unico) e attraverso un network code che regoli in modo corretto il
livello di servizio dei distributori in modo che ne aumenti la qualità e
soprattutto che sia omogenea rispetto a tutti i venditori e senza vantaggi
impropri per gl’integrati. Oggi, paradossalmente, per alcuni versi i venditori,
che fanno un business libero, sono più regolati dei gestori di rete che fanno
un business regolato. Per esempio: le bollette di un venditore ad alcune
categorie di clienti sono dettate dalle norme, mentre non lo sono i sistemi
informatici con cui i distributori forniscono i dati di consumo.
Tra le cose più interessanti uscite
nel convegno mi sembra ci siano la convergenza tra i presidenti dell’Autorità
Energia e di quella Antitrust riguardo alla necessità dell’unbundling
funzionale e di brand a livello retail, e le rassicurazioni da parte di GME e
Snam Rete Gas riguardo allo stato di avanzamento del nuovo mercato del
bilanciamento gas.
Il tema dell'incontro è stato:
“clienti, concorrenza e regole”. Prova a dare un voto ai primi, come ai tempi
della scuola. Li promuoveresti?
Ai clienti di sicuro do 10, perché
senza di loro non ha senso nulla del nostro lavoro in questa e altre filiere. Però,
lo ammetto, è un voto con una componente di adulazione. Magari direi anche loro,
benevolmente, che devono accettare un po’ di impegno in più nella difesa
attiva, e non passiva e troppo delegata, dei propri interessi. Nello stesso
tempo noi fornitori dobbiamo imparare a non abusare della loro disponibilità e
dobbiamo cooperare perché ci siano regole del gioco che rendano i più difficili
possibile i comportamenti commerciali scorretti.
Senti questa: qualche settimana fa a
colle Oppio a Roma ero a una festa in una bella casa tra intellettuali del
mondo della scrittura narrativa (un mondo in cui ho avuto la fortuna di
affacciarmi in una fase precedente della mia vita) e mi trovavo in un poggiolo
dove alcuni si erano assiepati per fumare. Lì chiacchieravo tra gli altri con lo
scrittore modenese Ugo Cornia (Sellerio, Feltrinelli) che si ricordava
vagamente di me come narratore di scarso successo e mi chiedeva come mi pagassi
oggi da vivere. Quando gliel’ho detto, lui mi ha raccontato subito il fastidio
con cui rifugge i venditori di energia e telefonia che lo ammorbano di continuo
per fargli cambiare contratto. La sua reazione mi ha colpito e fatto
riflettere: ai clienti dobbiamo chiedere sì più attenzione e consapevolezza, ma
nemmeno possiamo pensare di bombardarli, men che meno se con scarsa qualità informativa.
La soluzione non saranno mica le tariffe di tutela?
Giammai! Quelle ritardano la
maturazione del mercato, perché producono sussidi incrociati e
deresponsabilizzano i clienti. È il mercato stesso – con le regole giuste certo
– che può fornire forme di intermediazione tali da rendere comunque semplice
l’accesso a un prodotto/servizio complesso da parte di clienti senza ricorrere
a nessuna forma di tariffa amministrata (quand’anche basata su indicatori di
mercato). Pensiamo ai mutui o alle assicurazioni. È facile sceglierli? No, sono
prodotti relativamente complessi la cui valutazione richiede informazioni
riguardo alle quali il cliente patisce uno svantaggio rispetto a fornitore.
Però esistono servizi di confronto nati spontaneamente proprio per colmare la
necessità informativa e di semplificazione. Simili strumenti, uniti all’eventuale
aggregazione non forzosa dei clienti e a obblighi informativi efficaci da parte
dei fornitori, anche basati su benchmark o indicatori obbligatori, possono
essere la risposta per rendere facile e sicura la scelta di un prodotto
complesso come quello dell’energia.
Certo, il mercato sottostante deve
essere competitivo, altrimenti il cliente non risparmia. Stando al decreto
Competitività, abbiamo quasi tre anni per sistemare le cose che non vanno, e
fare in modo che i clienti dell’energia, tutti sul mercato libero, guadagnino
ulteriormente dal mercato.
Una domanda di carattere più aziendale, legata al tuo ruolo di
direttore affari istituzionali e regolatori in Axpo Italia. La vostra è una
delle poche realtà straniere che sembra non essersi pentita della scelta di
investire sul mercato italiano. Quale il segreto?
Le multinazionali sono entità complesse
e non certo costituite da una sola anima tra Paese e Paese. Hanno all’interno
culture diverse e il loro successo dipende anche dalla capacità di farle
dialogare, cosa in cui la mia casa madre credo abbia in generale fatto bene
grazie a un atteggiamento poco “coloniale” come in altri casi invece capita, e
anzi puntando sull’autonomia dei manager dei vari Paesi e mercati. E anche in
Italia i risultati in termini di redditività sono arrivati, anche se poi messi
a dura prova dalle perdite sulla generazione elettrica. Io credo che il
segreto, che naturalmente non è tale, è assumere e far crescere gente
bravissima. Punto. Nessun investimento paga quanto essere selettivi nella
scelta dei collaboratori (e di conseguenza dei capi, se il sistema di carriere
interne è agile come è stato in Axpo Italia dove l’attuale direttore generale
mercato è arrivato a questa posizione dall’interno grazie alle sue capacità).
Io stesso, nel mio piccolo team, se ho ottenuto dei risultati di cui essere
contento è perché ho avuto con me persone piene di qualità, e quando ho a che
fare con i colleghi del business (quasi tutti a Genova nel caso di Axpo
Italia), di norma giovanissimi e con CV di studi di eccellente livello, capisco
perché siamo una bella azienda. Quindi per me la prima capacità che serve a un
manager è promuovere la meritocrazia tra i suoi collaboratori, assumendosene la
responsabilità. Non è affatto una cosa facile e scontata: bisogna scontrarsi
con una mentalità diffusa del “vogliamoci bene” che inevitabilmente diventa
anche protezione della mediocrità.
Il che si lega, in
riferimento alla discussione politica, a quello che per me è un fraintendimento
della nostra stessa Costituzione: diritto al lavoro non può voler dire diritto
al posto di lavoro indipendentemente dalle proprie capacità. Certo che dobbiamo
realizzare la solidarietà a livello sociale e aiutare chi non ce la fa, ma per progredire
come economia e avere un futuro di benessere non possiamo fare sconti alla
concorrenza tra professionisti, così come tra aziende.
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