lunedì 18 maggio 2020

La controglobalizzazione? (Puntata 438 in onda il 19/5/20)

Sulla tangenziale del Cairo a bordo di una vecchia Toyota
Mentre scrivo questo Derrick, i giornali descrivono il contenuto del Decreto rilancio passato al Consiglio dei ministri il cui testo non è stato ancora diffuso, e tra le novità ci sarebbe quella, che a me sembra ottima, di riapertura prevista per giugno delle frontiere in arrivo in Italia dai Paesi Schengen. Fossi il Governo farei anche di più: comprerei pagine sui giornali internazionali per annunciare che l’Italia si attrezzerà per rendere il turismo sicuro, e stabilirei anche regole e garanzie in modo che chi si arrischia a venire da lontano sappia cosa gli succede se in un controllo all’aeroporto mostra sintomi sospetti. L’incertezza dell’applicazione delle norme e la paura di trovarsi di fronte a forze dell’ordine che prendono decisioni arbitrarie aumentano in modo gratuito i danni delle misure di contenimento.

Per un Paese orientato all’export e in cui il turismo vale il 5% del PIL (più forse il doppio di tanto in termini di indotto) e il 6% degli occupati, la chiusura delle frontiere è un impoverimento certo. E restrizioni ai movimenti internazionali sono purtroppo ciò che sta succedendo globalmente: il protezionismo come reazione alla paura. Una tendenza che c’era a dire il vero già prima del virus e cui il nostro Paese non fa eccezione, e che si manifestava anche solo in forma di esortazioni a un “buy Italian” che fatto davvero avrebbe costi enormi per i consumatori. Anche nei beni per antonomasia più italiani è spesso diffusa una componente di semilavorati d’importazione. Per esempio basta leggere l’etichetta di un pacco di pasta, anche di quello di produttori di qualità e italianissimi, per scoprire che i suoi grani vengono spesso anche da fuori Europa.

Quello del cibo è un settore da tenere d’occhio perché rischia di vedere aumenti di prezzi a fronte di una minore disponibilità, mentre la domanda con il Covid non si è ridotta ma spostata tutta sul consumo finale a detrimento di mense e ristoranti. Un cambio che nel breve periodo sta causando enormi sprechi di prodotti confezionati per la ristorazione professionale e che è costoso ora recuperare. Così come stanno andando a male molti dei fusti di birra destinati al consumo nei locali.

Oggi l’inflazione è ferma perché alcuni beni come l’energia hanno visto crollare il loro prezzo. Ma il comparto del cibo è in controtendenza, e un aumento consistente dei suoi prezzi farebbe calare il potere d’acquisto soprattutto per le famiglie più in difficoltà, che vi destinano una quota importante del reddito.
Auguriamoci che il riso vietnamita o il grano ucraino (oggi al mio supermercato le lenticchie più economiche erano statunitensi) continuino ad arrivare nella nostra economia, e non trasformino anche un primo piatto in un lusso. E auguriamoci anche che i nostri pomodori possano essere raccolti da lavoratori di qualsiasi nazionalità che trovano in quei pomodori, per nostra forse più che per loro fortuna, un veicolo di emancipazione economica.

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