Sulla tangenziale del Cairo a bordo di una vecchia Toyota |
Per un Paese orientato all’export e in cui il turismo vale
il 5% del PIL (più forse il doppio di tanto in termini di indotto) e il 6%
degli occupati, la chiusura delle frontiere è un impoverimento certo. E
restrizioni ai movimenti internazionali sono purtroppo ciò che sta succedendo
globalmente: il protezionismo come reazione alla paura. Una tendenza che c’era
a dire il vero già prima del virus e cui il nostro Paese non fa eccezione, e
che si manifestava anche solo in forma di esortazioni a un “buy Italian” che
fatto davvero avrebbe costi enormi per i consumatori. Anche nei beni per
antonomasia più italiani è spesso diffusa una componente di semilavorati d’importazione.
Per esempio basta leggere l’etichetta di un pacco di pasta, anche di quello di
produttori di qualità e italianissimi, per scoprire che i suoi grani vengono spesso
anche da fuori Europa.
Quello del cibo è un settore da tenere d’occhio perché
rischia di vedere aumenti di prezzi a fronte di una minore disponibilità,
mentre la domanda con il Covid non si è ridotta ma spostata tutta sul consumo
finale a detrimento di mense e ristoranti. Un cambio che nel breve periodo sta causando
enormi sprechi di prodotti confezionati per la ristorazione professionale e che
è costoso ora recuperare. Così come stanno andando a male molti dei fusti di
birra destinati al consumo nei locali.
Oggi l’inflazione è ferma perché alcuni beni come l’energia
hanno visto crollare il loro prezzo. Ma il comparto del cibo è in
controtendenza, e un aumento consistente dei suoi prezzi farebbe calare il
potere d’acquisto soprattutto per le famiglie più in difficoltà, che vi
destinano una quota importante del reddito.
Auguriamoci che il riso vietnamita o il grano ucraino (oggi
al mio supermercato le lenticchie più economiche erano statunitensi) continuino
ad arrivare nella nostra economia, e non trasformino anche un primo piatto in
un lusso. E auguriamoci anche che i nostri pomodori possano essere raccolti da
lavoratori di qualsiasi nazionalità che trovano in quei pomodori, per nostra forse
più che per loro fortuna, un veicolo di emancipazione economica.
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