domenica 27 maggio 2018

Risparmio e governi del disavanzo (Puntata 358 in onda il 29/5/18)


Non ricordo chi ha scritto che una novità positiva nel “Governo del cambiamento” è il fatto di aver pubblicato una proposta di programma. Programma che a mio avviso ha esposto inevitabilmente il presidente del Consiglio incaricato, già prima della formazione del Governo, a una dialettica con il capo dello Stato riguardo agli obiettivi politici, nel caso in cui alcuni di questi fossero considerabili incostituzionali.
Per esempio: la mancanza di coperture per le enormi misure di maggior spesa proposte (riforma della legge Fornero, l’impropriamente detto reddito di cittadinanza, riduzione delle accise).

Ma lasciamo per un attimo da parte l’obiettivo costituzionale del pareggio di bilancio e anche le regole europee sul disavanzo, e chiediamoci: chi finanzierebbe il passivo di una politica basata su nuovo disavanzo?
È utilissima un’analisi del Financial Times del 23 maggio 2018 sulla struttura del debito pubblico italiano.

In rapporto al PIL si tratta del debito più alto dell’UE, circa 132%, secondo solo a quello greco, e che si è stabilizzato negli ultimi anni dopo un incremento drammatico successivo alla crisi del 2008, che a sua volta era seguito a un periodo di riduzione dal 1994.
La stabilizzazione recente è dovuta soprattutto al calo del costo degli interessi sul debito pubblico, reso possibile dal programma di acquisti di titoli del debito da parte della Banca Centrale Europea (BCE), che riduce il ricorso al mercato – e quindi l’esposizione a tassi di interesse potenzialmente alti – per il collocamento del nuovo debito.

E chi sono oggi i creditori dello Stato italiano per un debito complessivo di circa 2700 miliardi di Euro? Più o meno il 70% sono soggetti residenti in Italia e la BCE.
Secondo i fan del ricorso a nuovo debito, questo dato significa che una politica di spesa dissennata – in attesa di sperati effetti espansivi sull’economia – potrebbe trovare creditori benevolenti.
Si fa spesso l’esempio del Giappone: se il debito lo comprano risparmiatori interni, perché questi dovrebbero far fallire il Paese rifiutandosi di firmare nuove cambiali?
In altri termini: i fan del debito danno per scontato che soggetti italiani saranno disposti a finanziare uno Stato la politica del cui Governo è disinteressata a restituirgli i soldi. E che la BCE continuerebbe a comprare titoli anche di governi che ipotizzano di non restituirli, magari uscendo dall'area Euro.

Un altro dato importante per capire quanto in fretta un debitore può fallire è la scadenza dei suoi debiti. Anche su questo fronte l’Italia ha migliorato la propria posizione negli ultimi anni: i titoli di Stato oggi sul mercato hanno una durata media che cresce dal 2014 e ora è di circa 7 anni. Una buona notizia per chi voglia rimandare il problema, a patto che ci siano nuovi creditori per coprire le scadenze più a breve.
Ma la durata residua relativamente lunga non impedisce a chi ha BTP o BOT in portafoglio di subire perdite immediate nel valore del proprio patrimonio a causa dell’aumento dei tassi di interesse di mercato sul debito italiano: in pochi giorni successivi alla diffusione del programma del “governo del cambiamento”, lo “spread”, cioè il differenziale tra il tasso di interesse di un titolo di debito italiano rispetto a uno tedesco che i mercati ritengono sufficiente a compensare il maggior rischio, è aumentato notevolmente.
Questo riduce subito il valore di mercato di BOT e di BTP a cedola fissa, perché essi diventano meno appetibili sul mercato secondario a causa del fatto che rendono meno di quanto i mercati sono disposti a ricevere nel nuovo scenario politico. In altri termini: chi ha titoli di Stato in banca già ora riceverebbe meno soldi se fosse nella necessità di venderli. E la parte di attività delle banche costituita da titoli di Stato vale anch'essa meno, con potenziali effetti in termini di minore capacità di erogare nuovi prestiti.

Siamo sicuri che tutto ciò sia indifferente ai creditori italiani dello Stato?


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